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Era lo spauracchio della destra. Oggi JP Morgan detta i tempi al governo di destra. Dietro le quinte l’ex ministro, ora top manager

Di Stefano Cingolani

Come presidente per JP Morgan della banca corporate & investment per l’area euro-mediterranea, spetta a Vittorio Grilli il ruolo di “rainmaker” All’economia nel governo Monti, è stato prima collaboratore poi rivale di Draghi. Il fossato che li separa è profondo per molteplici ragioni Ha un forte legame con Gaetano Caputi, capo di gabinetto alla presidenza del Consiglio, l’uomo che segue le grandi partite economiche JP Morgan e Morgan Stanley hanno appoggiato finanziariamente Kkr nell’acquisizione della rete Tim. Una patata bollente seguita da Caputi
Chi
ha accompagnato, dollari in mano, Gerry Cardinale al Milan e Dan Friedkin alla Roma? E chi ha sostenuto Kkr nell’acquisto della rete fissa Telecom? Chi ha finanziato l’uscita di Benetton dalle autostrade, salvato la Pernigotti, comprato mezza piazza San Babila e dovrebbe quotare Prada a Milano? E ancora, Mps, Banco Bpm, il mega risiko nella galassia finanziaria del nord. Dietro alcuni dei maggiori affari in terra d’italia c’è la più grande delle banche americane, la JP Morgan Chase guidata da Jamie Dimon. Il suo occhio, il suo orecchio, il gran suggeritore sulla scena nazionale è da dieci anni Vittorio Grilli. Non che faccia tutto lui, sia chiaro. JP Morgan ha puntato sul paese dove fioriscono i limoni e ha nominato manager italiani. Recentemente, è salito Filippo Gori al vertice di tutti gli affari in Europa, medio oriente e Africa. Il numero uno operativo in Italia è dal 2018 Francesco Cardinali. Ma come presidente della banca corporate & investment per l’area euro-mediterranea, spetta a Grilli il ruolo di rainmaker, come si dice nel gergo finanziario americano, l’uomo della pioggia che a differenza dello stregone indiano fa piovere sì, ma soldi e clienti. Per lui è quasi una rivincita dopo le sconfitte subite a cominciare dalla mancata nomina a governatore della Banca d’italia nel 2011. Si mise di traverso Mario Draghi, allora chiamato a presiedere la Banca centrale europea, il quale non gli ha perdonato il passaggio armi e bagagli dal ciampismo al tremontismo.
Quando Draghi lascia via Nazionale per l’eurotower di Francoforte e il governo Berlusconi deve proporre al presidente della Repubblica Giorgio Napolitano il candidato per la Banca d’italia, Grilli, sostenuto da Giulio Tremonti, sembra essere la persona giusta contro Fabrizio Saccomanni, appoggiato da Draghi. Invece la spunta Ignazio Visco, un apparente outsider che resterà al comando per ben dodici anni di fila. E’ ben visto da Napolitano, ha la piena fiducia del nuovo capo della Bce, mentre Berlusconi che non lo conosceva (e se lo avesse conosciuto meglio forse non l’avrebbe scelto) lo accetta anche per fare un dispetto a Tremonti. Poco dopo Grilli otterrà un temporaneo ma prestigioso riconoscimento, perché Mario Monti, entrato a palazzo Chigi come salvatore della patria (oggi si direbbe della Nazione) lo nomina prima vice poi ministro dell’economia. Grilli si è comportato da par suo, sia chiaro, ma l’amaro gli è rimasto in bocca. Il fossato tra lui e Draghi è molto profondo e ha molteplici ragioni. Chi li conosce assicura che nemmeno il golf riesce a metterli d’accordo, anzi, al contrario acuisce una rivalità radicata nelle loro differenze ancor prima che nelle loro ambizioni. Draghi romano, figlio di un servitore dello stato, cattolico variante gesuita, riservato, una sola moglie, austero tutto barrette proteiche e nessun cappotto; Grilli milanese, laico, divorziato, bon vivant, appassionato conoscitore e collezionista di vini per i quali ha “un amore intenso e coinvolgente” (parole sue), appassionato di auto (Jaguar e Rover), giocatore di calcetto, tifoso dell’inter mentre Draghi è un romanista sia pur razionale come in tutte le sue cose. Il vero golfista è Grilli, iscritto al club dell’olgiata, dicono gli amici; no, è l’altro, non a caso ammesso allo storico e prestigioso club dell’acquasanta, qualcuno risponde. Ora che il ciclone Draghi soffia verso l’europa, torna sotto i riflettori il suo più giovane collaboratore (tra loro ci sono dieci anni) diventato rivale.
Nato a Milano nel 1957, famiglia agiata, padana e borghese, il padre, Massimo, imprenditore, la madre, Maria Ines Colnaghi, nota biologa all’istituto dei tumori, una moglie americana, Lisa Caryl Lowenstein e poi una nuova consorte, Alessia Ferruccio, dirigente Consip conosciuta al ministero dell’economia, Vittorio U. (per Umberto) Grilli segue il più classico cursus honorum: la Bocconi, master e dottorato all’università di Rochester nello stato di New York, ricercatore a Yale e poi al Birbeck college di Londra. Nel 1994 entra al ministero del Tesoro dove trova Draghi come direttore generale che gli affida le privatizzazioni. Per sei anni seguirà la grande ritirata del capitalismo di stato sotto il controllo politico di Romano Prodi e di Ciampi, e la regia di Draghi al quale la destra nazionalpopulista non ha mai perdonato di essersi seduto alla “mensa” del Britannia. Grilli lascia nel 2000, con il breve e infelice governo Amato, e fa un passaggio al Crédit Suisse. La vittoria a valanga di Berlusconi nel 2001 porta a Palazzo Sella, il fortilizio del Tesoro, Giulio Tremonti nelle cui mani Draghi rassegna le dimissioni ben accolte dal ministro, che chiama alla direzione generale del dicastero l’economista Domenico Siniscalco e affida a Grilli la ragioneria generale. Quando quattro anni dopo, con le dimissioni di Tremonti, è Siniscalco a prendere il suo posto, Grilli diventa direttore generale, una posizione che manterrà fino al 2011, confermato anche da Tommaso Padoa Schioppa quando il centrosinistra torna al governo di nuovo con Romano Prodi nel 2006, e da Tremonti che torna vincitore nel 2008 con il terzo gabinetto Berlusconi. L’economista riceve un apprezzamento a sinistra anche dall’ex ministro delle Finanze Vincenzo Visco, che certo non è prodigo di complimenti. Negli anni al Tesoro si cementano legami che resteranno forti come quello con Gaetano Caputi, allora capo dell’ufficio legislativo a Palazzo Sella e oggi capo di gabinetto alla presidenza del Consiglio, l’uomo che a Palazzo Chigi segue le grandi partite del potere economico. Nel 2004 viene fondato a Genova l’istituto italiano di tecnologia del quale Grilli è stato prima commissario unico poi presidente. Intanto si salda il nuovo assetto della Cassa depositi e prestiti con l’ingresso delle fondazioni bancarie sotto la regia e la supervisione di Giuseppe Guzzetti.
Per comprendere Grilli il freddo (ma solo in apparenza) e il calcolatore (in senso letterale) nulla è più eloquente dell’aneddoto raccontato da Paolo Peluffo, già portavoce di Ciampi. Siamo al 13 maggio 1999, si deve scegliere il successore di Oscar Luigi Scalfaro al Quirinale, candidato è Ciampi per sostenere il quale si sono accordati Walter Veltroni (Pd), Pier Ferdinando Casini (Udc) e Gianfranco Fini (An). Ciampi attende nel suo ufficio al Tesoro insieme ai fidi collaboratori tra i quali Draghi. In un angolo siede Grilli con in mano una calcolatrice, a chi sorpreso gli chiede cosa stia facendo, spiega di aver escogitato un algoritmo per capire l’esito del voto dalla cadenza con il quale i grandi elettori si avvicendavano all’urna. Ci prese, anche se il gran gioco del potere si sottrae per lo più alla dittatura del calculemus.
L’eterna ironia della vita porta l’economista diventato civil servant a innovare il diritto di famiglia. Con Lisa Lowenstein sposata nel 1993, imprenditrice di gadget musicali, è rottura aperta tanto che nell’aprile 2013 si arriva al divorzio. Dalle carte giudiziarie spuntano i segreti di famiglia, tra i quali una lussuosa casa ai Parioli, il quartiere dove si concentra la borghesia romana (Draghi compreso), casa che sarebbe stata pagata con fondi parcheggiati nei paradisi fiscali. A scriverlo è il Sole 24 Ore, non un tabloid scandalistico: “Un’abitazione con… una superficie commerciale di 310 mq, cantina di pertinenza, due posti auto… cinque bagni nuovi con sauna e vasca idromassaggio, una cucina gourmet super dotata, una piscina con fontane, getti, nuoto contro corrente e docce esterne, attacchi in giardino per una cucina esterna, sistema di irrigazione automatica per le piante, allarme, porte su misura, pavimento di lusso in rovere annerito con ogni lastra lucidato a mano”. Ufficialmente, spiega il quotidiano della Confindustria, i lavori sono costati 374 mila euro, tutti tracciati tramite bonifici bancari partiti dai conti di Grilli. In realtà, ricostruisce l’inchiesta di Claudio Gatti, il reale costo sarebbe stato di 642.281 euro. Il secondo punto, politicamente delicato, riguarda cinque conti correnti nelle isole della Manica. “Erano tutti conti in chiaro. Dichiarati. Su cui ho pagato tutte le tasse”, ha risposto Grilli al Sole 24 Ore. La storia è emersa anche perché Lisa Lowenstein è uscita dal divorzio finanziariamente insoddisfatta, voleva molto di più. Il 16 settembre del 2008, quando le cose già non andavano bene tra i due coniugi, la moglie aveva firmato una scrittura privata in cui accettava 500 mila euro una tantum “a valere anche per un eventuale divorzio”. La causa va avanti tra accuse e controaccuse, per arrivare in Cassazione. Nel 2017 la Suprema corte emette una sentenza che rompe la tradizione: per la prima volta viene introdotto nella giurisprudenza il principio che nella determinazione dell’assegno di mantenimento dell’ex coniuge deve essere garantita solo l’autosufficienza economica della controparte (e non più il mantenimento del precedente tenore di vita), non essendo dovuto nulla all’ex coniuge nel caso che questi abbia una adeguata disponibilità di risorse finanziarie e patrimoniali.
Ma torniamo alla JP Morgan. Quando il gran capo Jamie Dimon venne a Roma e incontrò Matteo Renzi nel 2016, tra sospetti e rumori fuori scena, il big boss disse che l’italia da cento anni era nel cuore della banca. In realtà si riferiva alla Chase Manhattan che con un prestito salvò Mussolini dai pasticci finanziari, ma dal 2000 la Chase dei Rockefeller è stata presa dagli eredi del mitico John Pierpont Morgan, il quale ogni anno sbarcava nella città eterna dove morì nella stanza che il Grand Hotel riservava per lui. La JP Morgan fu d’aiuto anche nel 1996: grazie a un contratto derivato stipulato con il governo (uno swap valutario tra lo yen e la lira), l’italia poté scrivere un consistente utile nel bilancio pubblico e cominciare il cammino verso l’euro. Al Tesoro allora c’erano Draghi e Grilli, sotto il ministro Carlo Azeglio Ciampi. Dimon ha poi ripetuto che l’italia è un buon posto dove fare business a prescindere da quale governo prende il comando. E come dargli torto, è entrata a tutto campo in ogni grande operazione economica.
Lo stop alla superlega non ha diminuito l’interesse per il calcio, la banca americana ha proposto di finanziare la serie A così come ha fatto con la Ligue 1 francese, mettendo a disposizione un miliardo di euro, in Spagna ha investito nel Santiago Bernabeu e a Londra nello Stamford Bridge del Chelsea. Nel 2022 JP Morgan ha finanziato i Benetton per acquisire il pieno controllo di Atlantia insieme al fondo Blackstone, diventato anche azionista di Autostrade per l’italia insieme al fondo Macquarie e alla Cassa depositi e prestiti. In questo modo Atlantia ha lasciato la borsa di Milano e ha cambiato nome in Mundys. Ora è finito a Palazzo Chigi un progetto della JP Morgan per fondere il primo e il secondo gestore autostradale italiano, cioè Aspi e Astm che fa capo al gruppo Gavio e al fondo francese Ardian. Caputi ha seguito anche la patata bollente della rete fissa Tim, convinto che l’offerta di Kkr fosse la più conveniente. Guarda caso il fondo americano è appoggiato per la parte finanziaria dalla JP Morgan e dalla Morgan Stanley, rappresentata la prima come sappiamo da Grilli e la seconda da Siniscalco, la coppia che nell’èra Tremonti ha gestito il Tesoro insieme allo stesso Caputi. Il via libera da parte del governo Meloni è venuto a gennaio, ma l’operazione non sarà chiusa prima dell’estate. Viene scorporata Sparkle, la società che gestisce le connessioni internazionali, acquistata dal ministero dell’economia che sborserà poco più di 700 milioni di euro. Non ci sarà, dunque, una infrastruttura unica, al contrario di quel che si dice, ma accanto alla rete “americana” e a quella pubblica di Open Fiber nelle mani della Cdp, spunta la rete del Mef che trasporta dati considerati sensibili.
Il dossier bancario è ancor più ambizioso. Dimon e Renzi nel 2016 parlarono di come sistemare il Monte dei Paschi, lo ha rivelato lo stesso Grilli un anno dopo alla commissione parlamentare d’inchiesta. La banca americana era pronta ad aiutare la banca senese a liberarsi dei crediti marci in bilancio e a partecipare alla privatizzazione, ma Fabrizio Viola, l’allora amministratore delegato di Mps, non era d’accordo. Viola venne “dimissionato” dal governo, con lui uscì anche il presidente Massimo Tononi, però il Montepaschi è ancora sul groppone del Tesoro. JP Morgan ha manovrato poi in Banco Bpm prima, entrando con il 5 per cento nel 2022, e poi uscendo l’anno successivo lasciando campo al Crédit Agricole. Tutti si attendono un nuovo ciclo di consolidamento bancario, cioè fusioni e acquisizioni, si parla da tempo di un terzo polo per spezzare il duopolio di fatto Intesa-unicredit, e proprio Bpm è tra i candidati. Ma si rivela sbagliata la convinzione che l’appetito delle grandi si sia placato. E’ vero che in Italia sono inarrivabili, ma non hanno ancora una taglia da collocarle tra le prime nel mondo occidentale. Piene di utili e di contanti, ora sono pronte a comprare. L’altro dossier che viaggia tra Milano e Roma, tra Palazzo Mezzanotte in piazza degli Affari e Palazzo Chigi in piazza Colonna, riguarda un matrimonio a tre (in pieno spirito dei tempi) tra Unicredit, Mediobanca e Assicurazioni Generali. Il progetto non è nuovo, sono anni che ci si specula su e da molto tempo ci lavorano gli gnomi della Borsa. Le battaglie di Francesco Caltagirone e Leonardo Del Vecchio per cambiare la governance sia in piazzetta Cuccia sia nella compagnia triestina, hanno riportato in auge i vecchi progetti. Vittorio Grilli ha consigliato Del Vecchio “a titolo personale”. C’è chi sostiene che amerebbe entrare in Mediobanca come presidente se Caltagirone e Francesco Milleri, il manager che ora guida Delfin, la cassaforte della famiglia Del Vecchio, otterranno un cambio almeno parziale dei vertici. La partita a monopoli è talmente complessa che non si chiuderà facilmente e potrebbe giocarsi in più fasi: prima Unicredit-mediobanca per poi puntare al bersaglio grosso, il Leone di Trieste che in tanti hanno cercato di domare senza riuscirci del tutto, nemmeno quando sull’alta finanza italiana regnava Enrico Cuccia. Aspettiamo la prossima puntata.

Fonte: Il Foglio