Type to search

CENT’ANNI DI PASOLINI. Il cinema e una canzone popolare

Share

di Franco La Magna

Durante la lunga fase aurorale della nouvelle vague italiana, sugli schermi nazionali apparve Accattone (prima proiezione pubblica 22 novembre 1961), fulminante esordio di un regista subito definito “anomalo”, Pier Paolo Pasolini, proveniente dai territori della letteratura che – privo di qualsiasi nozione linguistica cinematografica – riuscì a trasfondere in questa prima opera filmica componenti letterarie, pittoriche e musicali (fin dalle origini grandi muse ispiratrici della “settima arte”) in un equilibrio che fece gridare al miracolo.

Grande elegia sottoproletaria e stupefacente prologo d’una carriera registica “maledetta”, con cui si annunciano con uno stile già inconfondibile l’estetica e la poetica che diverranno “ossessive” costanti della sua opera, Accattone è notoriamente commentato dalle maestose musiche di Johann Sebastian Bach, in particolare brani della “Passione secondo Matteo”, che costituisce nell’immensa produzione musicale del compositore tedesco “…una vertiginosa corsa verso atteggiamenti teatrali (un vero e proprio dramma liturgico) di resa immediata, quasi popolare, nonostante la non uniformità della partitura, commista di stili disparatissimi…”(1).

Dramma popolare (e populista), ricco di “…immagini della vita quotidiana…messe a contrasto con ieratici e solenni riferimenti pittorici e musicali che inscrivono il misero dramma dei protagonisti in una nobile tradizione tragica…” (2), è invero lo stesso Accattone che tra le straripanti note bachiane consuma in breve la “passione” del sottoproletario borgataro Vittorio Cataldi, detto “Accattone”, sprezzante spaccone di periferia e miserabile magnaccia, introdotto da un’epigrafe dantesca che ne preannuncia la condizione di angelo decaduto, in cammino di redenzione: “…l’angel di Dio mi prese, e quel d’inferno/ gridava: ‘ O tu del ciel, perché mi privi? Tu te ne porti di costui l’etterno/per una lagrimetta che’l mi toglie’…” (Dante, Purgatorio, Canto V). L’epigrafe riassume il celeberrimo episodio di Bonconte da Montefeltro che in punto di morte, per aver invocato il nome della Vergine Maria, Dante sottrae alla dannazione eterna, sintesi così sbalorditiva del film da instillare il legittimo sospetto che Pasolini ne possa aver tratto ispirazione per l’opera cinematografica.

Presente nel film come “elemento narrativo espressivo” (3) fuori campo, la musica di Bach, tuttavia, tende momentaneamente ad abdicare a favore di un “sicronismo oggettivo totale” – vale a dire di quell’effetto musicale che si svolge proprio sotto gli occhi dello spettatore – in due lunghe sequenze commentate da uno dei canti più noti ed amati dal popolo napoletano, la celeberrima “Fenesta ca lucive”, i cui versi e la cui struggente melodia sono rimasti privi di paternità. La mesta canzone partenopea, dapprima soltanto fugacemente fischiata durante l’incontro di “Accattone” (Franco Citti) con Salvatore di Torre Annunziata e i suoi compagni di malaffare, nei titoli di testa genericamente indicati come “I napoletani”, viene ripresa in versione cantata (solo la prima strofa) poco prima del pestaggio della prostituta Maddalena (Silvana Corsini), colpevole d’aver abbandonato il precedente protettore per godere dei “favori” di “Accattone”:

 

Fenesta ca lucive e mo’ non luce

      Segno è ca Nenna mia stace malata:

S’affaccia la sorella e me lo dice

                                              “Nennella toia è morta e s’è atterrata.

                                               Chiagneva sempre ca durmeva sola

                                               Mo dorme co li muorti accumpagnata”.

 

Se inutili, a dimostrazione della pervasività della cultura popolare, sono risultate le ricerche compiute nel tentativo di attribuire una specifica origine geografica alle disperate e bramose sestine di “Fenesta” –  da cui, per analogia di temi, qualche studioso fa discendere anche il poemetto della “Baronessa di Carini”, essendosi trovati corrispettivi in tutte le regioni d’Italia (4) – da una sommaria analisi dei contenuti del canto, appare invero palesemente evidente che l’ineluttabile e incombente presenza della morte (l’amata morta che non potrà più affacciarsi alla finestra), perfino nelle forme orrifiche della putrefazione del corpo, resta l’elemento tematico ossessivamente reiterato nelle tre sestine del componimento originario:

 

Jate a la chiesa e la vedite pure…

  Aprite lo tavuto e che tuvate?

  Da chella vocca ca nasceano ciure

  Mo nesciono li vermi, oh che pietate!

  Zi Parrocchiano mio, tienece cura!

Li lampe tienece allumate!

 

Ora – a meno che non si voglia limitare l’inserimento della canzone a semplice elemento informativo (la provenienza geografica, Napoli e dintorni, dello spietato gruppo di guappi che punisce la prostituta) oppure al contesto popolare del dramma, fermandosi per così dire ad una verità di primo grado – l’estensione dell’indagine ai territori semantici e linguistici (codici narrativi) dell’opera di Pasolini, permette di svelarne un messaggio soltanto apparentemente occultato ed in perfetta simbiosi con i simbolismi dell’opera filmica.

Evitando il problema delle varianti (presenti in Toscana, Umbria, Terra del Lavoro, Marche, Veneto, Lombardia, Piemonte) e della “discesa all’inferno” dell’amante contenute nella “Baronessa di Carini” (l’inferno, tuttavia, è richiamato dall’epigrafe dantesca), le note di “Fenesta” – con tutto il carico di dolore e di morte che sprigionano fin dalla prima sestina – appaiono nel film come evidente ricorso “…alla figura retorica chiamata prolessi, la rappresentazione di un oggetto o di un episodio che anticipa il destino finale della vicenda…”(5), in Accattone, tra l’altro, riproposta anche nell’episodio del sogno anch’esso prefigurante la morte reale del protagonista, che difatti da li a poco resterà vittima di un incidente.

Codice linguistico ormai comunemente accettato per rappresentare un ordine degli eventi diverso da quello cronologico della storia e di cui forse è impossibile rintracciare la fonte originaria che qui, esattamente come nel quattrocentesco quadro del Bonsignori di cui parla Federico Zeri per introdurre il concetto di prolessi (6),  assume con “Fenesta ”  il preciso contenuto semantico di annuncio della morte, prima “prenarrata” (diegesi) con la musica – a sostituzione della classica messa in scena drammaturgica – e infine “rappresentata” (mimesi) nella sequenza finale dell’incidente. In definitiva “…se il dialogo e l’azione vengono messi in testo secondo la drammaturgia ‘classica’, la ‘colonna sonora’ che ne costituisce lo sfondo sposta il contenuto della rappresentazione decisamente verso il racconto…”(7). Simbiosi tra epica e drammaturgia, tra narrazione e dramma, palese e ulteriore dimostrazione di come preesistenti codici linguistici, abbiano permesso a Pasolini di superare (e con quali risultati!) l’handicap del noviziato.

Identica immagine di morte, ancora annunciata dalla dolorosa canzone partenopea, torna prepotentemente anche nella cosiddetta “trilogia della vita” (Il Decameron, 1971; I racconti di Canterbury, 1972 e Il fiore delle mille e una notte, 1974) dove a ben guardare, quasi a completamento del “…trionfo della natura e delle sue leggi sulla cultura…”(8), l’ombra sinistra della morte non è per questo meno celata ma, al contrario, con la sua raggellante presenza, spesso si estende fino ad oscurare la lùbrica e gioiosa vitalità della mimesis pasolinana,

Così a cominciare dal Decameron, in cui l’azione da Firenze è trasferita a Napoli, “Fenesta ca lucive” (come in Accattone)  prima mollemente introdotta “sincronicamente” dalle note di un mandolino è poi cantata da un terzetto di “napoletani”, tra cui lo stesso protagonista dell’episodio (l’abominevole Ser Ciappelletto, ancora interpretato da Franco Citti) colto negli ultimi istanti della prematura morte e del grottesco, falso, pentimento che –  beffando la bonomìa di un ingenuo frate –  ne santifica il trapasso, trasformando uno scellerato in un santo, pertanto capovolgendo il final-cut di Accattone, laddove il pentimento sembra essere sincero.

Ma ulteriore trasparenza “narrativa” e “prolettica” assume l’accorato componimento, nei Racconti di Canterbury, dal capolavoro della letteratura medievale scritto da Geoffrey Chaucer (nel film interpretato dallo stesso regista). Qui la presenza della fatale dea s’insinua simbolicamente proprio nelle prime inquadrature del film, attraverso il canto storpiato di un povero imbonitore di piazza che ne intona l’intera prima strofa, rendendo evidente (come nel Decameron) l’anacronismo musicale – trattandosi di un’aria quasi certamente ottocentesca, secondo alcuni attribuibile a Bellini, secondo altri a Rossini (9) – ma eliminando l’accezione regionale, cioè l’indicazione di provenienza dei personaggi (che pur aveva avuto nei precedenti), in quanto ambientazione ed esecutore inglese trascendono ovviamente il topos partenopeo. Canto popolare quindi come elemento, probabilmente, di continuità geografica con “…l’illimitato mondo contadino prenazionale e preindustriale, sopravvissuto fino a pochi anni fa che io (lo stesso Pasolini, n.d.r.) rimpiango (non per nulla dimoro il più a lungo possibile nei paesi del Terzo Mondo, dove esso sopravvive ancora, benché il Terzo Mondo stia anch’esso entrando nell’orbita del cosiddetto Sviluppo)…” i cui abitanti “…non vivevano un’età dell’oro…ma erano consumatori di beni estremamente necessari. Ed era questo, forse, che rendeva estremamente necessaria la loro povera e precaria vita. Mentre è chiaro che i beni superflui rendono superflua la vita…” (10).

Vero e proprio preludio dello spaventoso Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975), I racconti di Canterbury chiudono con la celeberrima visione dell’Inferno (girata sull’Etna), dopo i lunghi interludi di morte (il rogo del lussurioso, la strage dei giovani che si uccidono tra loro per non spartire un tesoro…), profetica anticipazione della fine del sogno e di ogni ideale, dell’impossibile ritrovamento di un mondo contadino e paleoindustriale irrimediabilmente tramontato e corrotto, al cui “…posto c’è un vuoto che aspetta di essere colmato da una completa borghesizzazione…”(11). Ormai, a guisa di un’orazione funebre a se stesso, nell’ultimo Pasolini “…Non c’è più speranza né desiderio di sognare. Inseguendo gli ultimi sogni e fantasmi di giovinezza Pasolini, nel suo indifeso maledettismo, va incontro alla morte offrendosi quasi come vittima sacrificale in una notte che la sua visione poetica aveva da tempo previsto e la sua lucida volontà organizzato in ogni minimo dettaglio “(12).

 

Note

 

(1) A.Basso, Johann Sebastian Bach, in Enciclopedia della Musica, Rizzoli

Editore, Milano, 1972,  p. 202;

(2) A Bencivenni, Accattone (voce dedicata al film), in F. Di Giammatteo,

Nuovo Dizionario Universale del cinema, Edit. Riuniti, Roma, 1994, II ed, p 6

(3) E Taddei, Funzione estetica della musica nel film, in “Bianco e Nero”, anno X, n.1;

(4) G. Cocchiara, Le origini della poesia popolare, Boringhieri, Torino, 1966,

  1. 236-337, il quale tuttavia conclude che “…Fenesta ca lucive non si ispira a

una pretesa variante della Baronessa di Carini. L’una e l’altra rielaborano

alcuni fra i temi più comuni della poesia popolare italiana. In questa eterna

rielaborazione, che è anche rielaborazione di contenuti e forme, sta la forza

vitale e creativa del mondo poetico popolare”, ibidem;

(5) F. Zeri, Dietro l’immagine, Longanesi & C., Milano, 1987; ripubblicato da

Neri Pozza Editore, Vicenza, 1998, p.15. “Le prolessi dal canto loro, molto

meno frequenti di quanto non siano le analessi, hanno perlopiù la funzione di

anticipare un evento futuro, in forma più o meno esplicita; di conseguenza lo

spettatore non sarà più portato a chiedersi ‘che cosa accadrà’, bensì ‘come e

perché accadrà’. Non si può tuttavia tralasciare il carattere ambiguo che spesso

può essere assunto dalla prolessi…”, sta in Gianni Rondolino-Dario Tomasi,

Manuale del film, UTET, Torino, V ristampa, 1999, p. 32;

(6) “Il radicale –lessi designa in greco l’azione di prendere, per cui prolessi sta per prendere in anticipo e analessi per prendere a fatti compiuti”, in G. Rondolino-D.Tomasi, op. cit., p. 299;

(7)  M. Tedeschi Turco, Il mèlo prima del cinema, sta in Passioni. Mezzo

secolo di cinema inglese, Cierre Edizioni, Verona, 1966, p.15;

(8)  G.P. Brunetta, Cent’anni di cinema italiano, Editori Laterza, Bari, 1991, p. 498;

(9)  G. Cocchiara, cit., p. 336;

(10) P.P.Pasolini, Lettera aperta a Italo Calvino, in “Paese Sera”, 6 luglio 1974,

poi Limitatezza della storia e immensità del mondo contadino, in Scritti corsari,

Garzanti edizioni, Milano, 1975, p. 74;

(11) P.P.Pasolini, Gli italiani non sono più quelli, “Corriere della sera”, 10 giugno 1974; ora Studio sulla rivoluzione antropologica in Italia, in Scritti corsari,  cit., p. 52;

(12) G. P.Brunetta, cit., p. 498.