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Il pensiero di Platone sulla scienza e l’arte imitativa

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“E relativamente ai poeti seri, come li chiamiamo, e cioè gli autori di tragedie, se alcuni di essi per un caso venissero da noi e press’a poco ci ponessero queste domande: ospiti, possiamo frequentare o no la vostra città e il vostro paese? -Quale saggia risposta potremmo dare in proposito a questi uomini divini? Questa, io credo: -Ottimi ospiti, risponderemmo, anche noi siamo compositori della più bella e ad un tempo della migliore tragedia che sia possibile comporre: lo Stato nostro, tutto, altro non è che imitazione della migliore vita, della vita più bella, ed è in questo che per noi consiste davvero la tragedia più vera. Voi siete poeti e anche noi lo siamo, poeti di uno stesso genere, vostri rivali nella vostra arte, competitori vostri nel comporre il dramma più bello, quel dramma che soltanto la vera legge può condurre al suo ultimo fine secondo le nostre speranze. (Leggi, 817b-c)”

Se l’unico Stato possibile è lo Stato assoluto, non quello dispotico, ovviamente, ma quello nel quale si risolvono le ragioni di ciascuno nella ragione unica che governa in vista del bene comune, anche le singole tecniche e le singole scienze dovranno orientarsi verso di esso.

Se ogni scienza è tale perché retta da precise condizioni, queste non saranno autonome, indipendenti dalle condizioni delle altre scienze (se così fosse, sarebbero scienze private e inseguirebbero fini individuali o di categoria) ma dovranno anch’esse fondersi nell’unica ragion d’essere nella quale viene costituito lo Stato. Non saranno accettate, in altre parole, scienze che non trovino altra inspirazione che non sia il bene comune e che non vengano incluse nel tessuto dialettico che struttura lo Stato.

Quanto detto per le scienze vale anche per le tecniche, che, quindi, saranno ammesse a condizione che rispettino il proprio ambito di competenza, senza invadere quello delle altre discipline e sempre che rientrino sotto il controllo della dialettica (che è la scienza prima, quella che tutte le altre scienze e le tecniche devono rispettare).

Discorso a parte deve essere fatto per l’arte, che sarà accettata soltanto in quelle forme capaci di garantire la corrispondenza con il reale. Di qui, la condanna di Platone verso le arti poetiche e figurative del suo tempo definite da lui stesso arti mimetiche o imitative, incapaci, a suo dire, di rappresentare la realtà ma piuttosto la sua apparenza, quindi una imitazione dell’imitazione del vero.

Platone ritiene, inoltre, che l’arte in generale sia psicologicamente e pedagogicamente negativa e corruttrice delle menti dei fanciulli. La poesia e la pittura, in particolare, sono tra le forme d’arte più pericolose per la caratteristica di imitare l’apparenza del reale e i sentimenti umani. Andrebbero poi, per Platone, bandite quelle visioni dell’arte come quella Orfica ma anche le commedie, perché raffigurano persone che si abbandonano senza ritegno a bassi istinti e indecorose buffonerie, e le tragedie, che rappresentano una visione della realtà immodificabile e dominata dal Fato piuttosto che dall’iniziativa umana.

L’arte, insomma, viene svalutata perché attinge alla parte irrazionale dell’anima che è la più lontana e inadatta a nutrirsi delle idee. Ma Platone non si oppone a qualunque manifestazione artistica. Se, infatti, la poesia fosse espressione e imitazione di uno stato d’animo bello e giusto, oppure del vero, o se contribuisse alla formazione e al funzionamento dello Stato e fosse sotto il controllo di questo, allora sì che sarebbe ammessa.

Platone, critico verso le forme d’arte del suo tempo, ammirava piuttosto la pittura e la scultura arcaica, ossia l’arte non prospettica ma geometrica dove i colori non sono a impasto ma usati ciascuno per quello che è.

Fonte: Socialbg