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Zora Neale Hurston

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Essere una donna di colore che scrive della cultura afroamericana in un periodo in cui il razzismo imperversa nelle strade e nei discorsi politici. Zora Neale Hurston è tutto questo, ma anche molto di più. Antropologa e scrittrice, è una figura purtroppo poco nota e insegnata negli ambienti scolastici, tuttavia importantissima per il grande fermento culturale andato sotto il nome di “Harlem Renaissance“, ovvero la rinascita di Harlem. Si tratta di un movimento artistico-culturale in auge negli anni ’20 -’30 che mirava a far mergere le voci di scrittori, pittori, fotografi e filosofi afroamericani e di dare legittimo posto alla “black culture” fra tutte le altre, quando si pensava ancora non fosse altro che una sottocultura primitiva, retaggio di antiche usanze portate dai primi schiavi africani trapiantati in USA.

Una studentessa “sui generis“

Zora iniziò la sua carriera come scrittrice di romanzi e commedie per il teatro, ma divenne antropologa sotto la guida di uno dei più importanti personaggi della disciplina: Franz Boas, padre del relativismo culturale, ovvero di un approccio allo studio di altre culture che ammette la particolarità e la validità di ogni forma di cultura, e l’errore di giudicare e osservare le altre secondo i nostri valori e criteri. Zora si presentava al pubblico in maniera estremamente eccentrica: studentessa universitaria di 30 anni, soleva vestirsi in modo intrigante, stuzzicare la gente intorno a sé con provocazioni, scrivere in un modo particolare e di controtendenza rispetto ai canoni. Forse sarà stato tutto questo, insieme alle origini della stessa Zora, a convincere Boas che questa donna fosse la persona più giusta per effettuare uno studio sulla cultura afroamericana. All’inizio le sue analisi vertevano sull’antropometria, ovvero la misurazione di tratti fisici volta a dimostrare delle fantomatiche differenze tra le “razze”, in termini di superiorità, inferiorità e adattamento. Ma nel caso di Zora, queste misurazioni erano pensate al contrario. Invece di dimostrare l’oggettiva inferiorità delle persone di colore o immigrate presenti in America rispetto all’uomo bianco, questo progetto per Boas aveva l’intenzione di rendere evidente la totale fallacia di tali presupposti. Non a caso Boas fu uno dei primi a smontare il controverso concetto di “razza”, al tempo considerato fatto naturale. Perciò egli trovò in Zora una fidata alleata, che aveva tutto l’interesse a dimostrare quanto bianchi, neri e ispanici non fossero altro che, come tutti, esseri umani.

Blues sotto il portico

Ma il vero e più grande contributo di Zora fu la sua etnografia (ovvero ricerca antropologica sul campo) della cultura afroamericana più profonda. Zora proveniva da una piccola cittadina della Florida, povera e prettamente abitata da persone di colore. Era nata e cresciuta in quella cultura, le apparteneva ma allo stesso tempo se ne era allontanata per trovare fortuna e carriera nella grande New York, allora centro culturale in fermento. Eppure ora doveva raccontare quel mondo a chi non ne sapeva nulla e non lo considerava neanche degno di interesse. Così esplorò in lungò e in largo l’America del Sud: sfruttando le sue conoscenze, la sua capacità di parlare eloquentemente con chiunque e la sua buon dose di curiosità andò alla ricerca di storie, miti del folklore nero, canzoni e poesie tramandate da generazioni all’ombra delle grandi piantagioni o nelle calde serate sotto i portici. Il risultato di questa sua ricerca sarà il libro “Mules and Men“, pubblicato nel 1935.

Se era già nota per il suo carattere, il libro la mise sotto le luci dei riflettori e le permise di avere ulteriori fondi per continuare la sua missione: scoprire e illustrare la bellezza, la complessità e le radici profonde del folklore afroamericano. Questo interesse la portò ad allargare i suoi orizzonti, sia geograficamente che accademicamente: non più solo concentrata sulla musica e l’arte, la sua ricerca si spostò verso le pratiche e i rituali del voodò ad Haiti. Il voodò in quegli anni era d’interesse fra molti studiosi e antropologi: affascinava sia per il suo alone di mistero, sia per la stretta connessione che manteneva con il continente africano. Zora oscillò tra il ricercare queste tracce che uniscono l’America al Continente Nero, ma allo stesso tempo volle superare il mero stereotipo del voodò come sopravvivenza della cultura africana. Per lei era importante evidenziare invece la profonda trasformazione e capacità di adattamento di queste pratiche ad un contesto completamente nuovo, facendo comprendere quindi come ogni cultura – soprattutto quella afroamericana – non fosse immobile, primitiva o atavica, ma sempre in continua evoluzione, pronta ad adattarsi a nuovi bisogni e scopi che le persone affrontano nella loro vita.

La summa di tutto questo sarà “I loro occhi guardavano Dio“, romanzo tra l’autobiografico e l’etnografico molto particolare, soprattutto per il suo espediente letterario: raccontare tutto quello che aveva incontrato durante i suoi studi e la storia di molte persone attraverso il racconto fittizio di una donna. Uno stile del tutto originale e inconsueto per un’opera a carattere antropologico. Lodevole e affascinante notare come tale libro, scritto da una donna di colore e che parla di una donna di colore, sia stato pubblicato nel ’37 in Italia dalla casa editrice Einaudi, sebbene in quel periodo dominasse il fascismo.

Zora ha saputo ammaliare il pubblico e i suoi colleghi con carisma, fascino e un talento unico che non badava a stereotipi e imposizoni: ha creato un suo stile di scrittura, rivoluzionando il modo con cui si può comunicare l’antropologia – disciplina che troppo spesso rimane in ombra perchè vista come troppo particolaristica e accademica. Ma sopratutto ha saputo dare valore al suo retaggio culturale, al mondo da cui proveniva, a dare una storia, un senso a un folklore ricco di contenuti e bellezza, rendendo giustizia a milioni di persone discriminate di “appartenere a una non-cultura“.

 

 

Fonte: https://thepasswordunito.wordpress.com/