Type to search

Walter Tobagi, un giornalista che ragionava

Share

 

 

Di MIGUEL GOTOR

Fu ucciso a Milano il 28 maggio 1980, a soli 33 anni. La sua è stata una vita straordinariamente laboriosa e intensa, cercava la verità con un metodo pacato. Aveva capito che il terrorismo è il tarlo più pericoloso per la democrazia

Il giornalista Walter Tobagi è ucciso a Milano il 28 maggio 1980, a soli 33 anni, in una grigia mattina di pioggia. I cinque colpi di pistola sono sparati da un commando composto da Marco Barbone, Manfredi De Stefano, Daniele Laus, Francesco Giordano, Mario Marano e Paolo Morandini, tutti appartenenti alla “Brigata 28 marzo” Dopo il ferimento del giornalista di la Repubblica Guido Passalacqua all’inizio di maggio, con Tobagi i terroristi uccidono il migliore giornalista della sua generazione, colui che, a solo trent’anni, era già diventato inviato e notista di punta del Corriere della Sera e presidente dell’Associazione lombarda dei giornalisti, il sindacato di categoria.

I suoi articoli non erano mai banali, anzi erano percorsi da un gusto analitico che li rendeva un appuntamento fisso per i tanti lettori del quotidiano. Pieni di passione civile, ragionevoli e raziocinanti, tesi all’ascolto e alla comprensione, cercavano di raccontare un Paese straziato dal terrorismo non con le lenti delle ideologie, ma con quelle della critica e l’obiettivo di migliorare gradualmente, in modo riformista e riformatore, l’Italia. A causa dei suo articoli sugli anni di piombo, il nome di Tobagi è ritrovato nel settembre 1978 a Milano nel covo brigatista di via Negroli, fra quelli di possibili bersagli e poi, l’anno successivo in una valigetta dimenticata per errore dai Reparti Comunisti d’attacco. Tobagi è informato dei ritrovamenti e in una pagina del suo diario scrive: “Che cosa è la paura? Camminare per strada e sobbalzare a ogni macchina che ti passa vicino, guidare l’automobile e spaventarsi a ogni moto che ti affianca; l’altra mattina, 30 gennaio, è stata ritrovata una scheda col mio nome nella borsa tipo ventiquattrore lasciata da un terrorista in viale Lombardia, provo una sensazione di angoscia, questa paura mi accompagna da più di un anno, da quando uccisero Carlo Casalegno, e mi toccò scrivere di brigatisti”. Ma non tocca di scrivere di brigatisti, si sceglie di farlo, se si vuole continuare a svolgere il proprio mestiere e a difendere la libertà e le regole di convivenza civile in cui si crede.

Benedetta Tobagi, la figlia di Walter, ha dedicato al papà un libro uscito per Einaudi, Come mi batte forte il tuo cuore, in cui ricorda che il padre “aveva rivelato e denunciato l’inizio di una nuova stagione terroristica. Il 29 gennaio 1979 venne ucciso il giudice Alessandrini: il giorno dopo papà riportava sul Correre un brano dell’ultima intervista del magistrato: ‘Non è un caso che le azioni dei brigatisti siano rivolte non tanto a uomini di destra ma ai progressisti. Il loro obiettivo è intuibilissimo: arrivare allo scontro nel più breve tempo possibile, togliendo di mezzo quel cuscinetto riformista che in qualche misura garantisce la sopravvivenza di questo tipo di società'”.

E ancora, annotava Tobagi nel suo quaderno, che si trasforma così nell’ennesima cronaca di una morte annunciata: “nel mirino entrano proprio i riformisti, quelli che cercano di comprendere […] Mi pare di essere (forse per autosuggestione) il giornalista che come carattere e come immagine è più vicino al povero Alessandrini”. E in un articolo sul Corriere aggiungeva: “Alessandrini è il prototipo del magistrato di cui tutti si possono fidare; era un personaggio simbolo, rappresentava quella fascia di giudici progressisti, ma intransigenti, né falchi chiacchieroni, né colombe arrendevoli”.

Progressista e intransigente, professionali, amanti della vita e del loro mestiere: proprio questo era il punto, ciò che accomunava due ragazzi della provincia italiana appartenenti alla stessa generazione, l’uno magistrato, l’altro giornalista. Non a caso nel volantino di rivendicazione dell’omicidio gli attentatori di Tobagi scrissero che egli era il “caposcuola di una tendenza intelligente del giornalismo che alla rozzezza dei suoi colleghi ha contrapposto un’analisi di classe puntuale”. Anche il comunicato di Prima Linea su Alessandrini riconosceva che la sua principale colpa era di aver dato “efficienza alla procura di Milano” e di aver tentato “di ridare credibilità democratica e progressista allo Stato”.

Alessandrini viene ucciso da Marco Donat Cattin, figlio del ministro democristiano; Tobagi da un commando in cui due membri appartengono all’ambiente giornalistico: Barbone, figlio di un dirigente editoriale del gruppo Rizzoli, e Paolo Morandini, figlio di un noto critico cinematografico, rampolli della Milano bene, quella città che da lì a pochi anni, seguendo le onde del riflusso, si sarebbe trasformata nella Milano da bere.

In quei mesi plumbei Tobagi era un uomo normale, non un eroe, un padre di famiglia che aveva paura. E le sue preoccupazioni erano aumentate da quando, nel 1978, era divenuto presidente dell’Associazione lombarda dei giornalisti, difendendo la libertà di informazione e la necessità di non piegarsi alla logica e ai ricatti del terrore. Per questa ragione Tobagi continuava a fare il suo dovere e a scrivere ciò che capitava intorno a lui con analisi asciutte e penetranti. I terroristi non erano «deliranti», ma per vincerli bisognava soprattutto analizzare i loro limiti, come scrisse in uno dei suoi ultimi articoli, il 20 aprile 1980, intitolato Non sono samurai invincibili. E perciò si chiedeva: “È tanto estesa, dunque, l’organizzazione brigatista o non ci si trova di fronte a un gioco degli specchi per cui un gruppo di poche decine riesce a sembrare un piccolo esercito?”. E proseguiva: “Lo sforzo che si deve fare è di guardare la realtà nei suoi termini più prosaici, nell’infinita gamma delle sue contraddizioni; senza pensare che i brigatisti debbano essere, per forza di cose, samurai invincibili”. E concludeva: “La sconfitta politica del terrorismo passa attraverso scelte coraggiose: è la famosa risaia da prosciugare. Tenendo conto che i confini della risaia sono meglio definiti oggi che non tre mesi fa. E tenendo conto di un altro fattore decisivo: l’immagine delle Brigate rosse si è rovesciata, sono emerse falle e debolezze. E forse non è azzardato pensare che tante confessioni nascano non dalla paura, quanto da dissensi interni, laceranti sull’organizzazione e sulla linea del partito armato”. Tobagi era un giornalista che ragionava ed era quindi capace di cogliere le contraddizioni e le difficoltà del nemico: proprio per questo dava fastidio ed è stato ucciso.

Tobagi nasce a San Brizio di Spoleto il 18 marzo 1947 e, ancora bambino, si trasferisce nell’hinterland milanese al seguito del padre ferroviere. Talento precoce, inizia a scrivere su «La Zanzara», lo storico foglio del Liceo Parini nel biennio 1964-65, per poi passare ai giornali sportivi MilanInter e Sciare nel triennio 1965-68. Per studiare, bisogna lavorare. In un articolo che scrive a soli 17 anni in polemica con le affermazioni anticapitalistiche di un suo coetaneo, appartenente a una ricchissima famiglia industriale milanese, spiega “è molto comodo sostenere a parole idee rivoluzionarie. È facile ripetere che il guadagno e il successo non hanno valore. Ma il povero, che vive nelle ristrettezze, non può aspettarsi molto altro dal lavoro. Ormai le belle parole non servono a niente. Per superare e migliorare questo sistema, non dobbiamo trasformarlo in una società collettivizzata, dove non solo il lavoro si spersonalizza, ma anche la vita quotidiana manca delle più elementari libertà. Per questo l’unica alternativa alla civiltà di massa è un autentico socialismo cristiano. L’uomo riacquista intero il suo: il diritto e il dovere a vivere”.

Sempre nello stesso anno, con non minore lucidità, scrive in una lettera privata: “è la società che ti accetta come protestatore. E magari arriva a darti dei premi per questa attività: perché capisce che protesti per abitudine, perché questo è il tuo mestiere: non sai fare altro. In realtà tu protestatore sei il più integrato tra gli integrati”. Sin dagli anni universitari comincia a collaborare presso l’Avanti! e, a partire dal 1969, a l’Avvenire occupandosi in particolare di temi legati all’informazione, alla politica interna e internazionale, al sindacato e al movimento studentesco, dove rimane fino al 1972.

Nel frattempo si laurea alla Statale di Milano con Brunello Vigezzi con una tesi sul movimento sindacale nel dopoguerra e il suo impegno di studioso di storia si esprime in ben sette libri fra cui ricordiamo una Storia del movimento studentesco e dei marxisti-leninisti in Italia, La rivoluzione impossibile, sul fallito attentato a Palmiro Togliatti e Gli anni del manganello, dedicati all’ascesa violenta del movimento fascista tra il 1922 e il 1926.  Inizia a collaborare con la cattedra di storia di Giorgio Rumi, combattuto tra la vocazione di studioso e quella di giornalista, che finisce per prevalere, diventando, come amava ripetere “la sua passione folle”. Una vita trascorsa scrivendo, “usando la parola per fare la sua parte nel mondo” come ha ricordato la figlia Benedetta, perché per “lui scrivere era dare forma grafica a pensieri già ordinati”.

Nel 1972 entra al Corriere d’Informazione e quattro anni dopo approda al Corriere della Sera, il traguardo agognato dal giovane “popularis” (così amava autodefinirsi), che dall’Umbria aveva raggiunto Milano facendosi largo con il lavoro nella vita. Nei suoi articoli non fa sconti a nessuno e dà particolarmente noia perché il suo punto di vista è quello di un progressista: si chiede perché Lotta Continua abbia dubbi sul terrorismo, ma non sulla violenza e per quale ragione alcuni ex di Potere operaio uccidono, notando come quello sia il gruppo dove più si è parlato di operaismo e meno si è riuscito a stabilire in “legame solido con le masse lavoratrici”. Tobagi è fra i primi nei suoi interventi a utilizzare il concetto di “Partito armato” – il “partito delle tenebre” lo chiamava – per spiegare non solo la violenza terroristica e la sua logica di annientamento (“È il tragico paradosso dei terroristi: uccidono per dimostrare che sono vivi” scrive il 26 gennaio 1980), ma anche la contiguità, le ambiguità, e le protezioni che gode in una più vasta area della sinistra extraparlamentare.

Non mancano in quegli anni gli scontri con il comitato di redazione del Corriere della Sera, dove prevaleva la componente sindacale di Rinnovamento più vicina alla Cgil e al Pci che lo accusa di simpatie socialiste e craxiane; sono scontri molto duri che lo amareggiano e per un certo periodo lo isolano all’interno del giornale, dove intanto sta prendendo piede un cancro silenzioso e allora ancora segreto quello della P2 di Licio Gelli che, negli stessi anni, di fatto si è impadronita del quotidiano, esercitando un ferreo controllo. Il volantino di rivendicazione dell’omicidio di Tobagi è stato analizzato in ogni maniera possibile, ma non è stato messo nel giusto rilievo che una sua copia fu ritrovata nel marzo 1981 dentro alla valigia sequestrata a Gelli, a Castiglion Fibocchi.

Tobagi lascia la moglie, Stella Olivieri e due bambini, Luca di sette anni e Benedetta di tre, che chiamava “i suoi michelangiolini”. La notte di Natale del 1978 aveva scritto una lunga lettera alla moglie, una sorta di testamento spirituale, in cui si chiedeva: “In questi mesi ti ho trascurato molto, in tutti i sensi. In parte mi sono lasciato trascinare dalle cose, ho preferito essere scelto più che scegliere: lavorare per il giornale, sfiancarmi per la Lombardia. Perché l’ho fatto? Nel giornale, certo, ci sono tanti fattori: l’ambizione, il desiderio di realizzarsi, di fare qualcosa di buono. Nell’associazione tutto questo mi è sembrato secondario: ho cercato anche lì di fare il mio dovere, ma il motivo per cui mi sono addossato quella parte è un altro: […] un senso di solidarietà, un modo di non ragionare solo in termini di utilitarismo personale. […] Mi sono anche chiesto: E se dovessi sparire di colpo, che immagine lascerei alle persone che più ho amato e amo, te e i michelangiolini? E mi sono risposto che al lavoro affannoso di questi mesi va data una ragione che io sento molto forte: è la ragione di una persona che si sente intellettualmente onesta, libera e indipendente, e cerca di capire perché si è arrivati a questo punto di lacerazione sociale, di disprezzo dei valori umani. Mi sento molto eclettico, ideologicamente; ma sento anche che questo eclettismo non è un male, è una ricerca: è la ricerca di un bandolo fra tante verità parziali che esistono, e non si possono né accettare né respingere in blocco […] Penso all’attaccamento di Luca; penso alle tenerezze della Bebi. E mi sembra di non fare tutto quello che dovrei (e forse potrei) fare per loro. Se un giorno non dovessi più esserci, ti prego di spiegargli, di ricordargli il motivo di tante assenze che oggi li fanno soffrire. Mi sentirei ancor più in colpa se oggi non spendessi quei talenti che, bene, o male, mi sono stati affidati […]”. E ancora, come un assillo: “Se toccasse a me la cosa che mi spiacerebbe di più e di non aver trovato il tempo per scrivere una riflessione che spiegasse agli altri, penso a Luca e a Benedetta, il senso di questa mia vita così affannosa”.

Una vita affannosa e quei talenti da non sprecare: tutto è stato spazzato via, una piovosa mattina di maggio. La Bebi, ossia Benedetta Tobagi oggi è una donna sensibile e grintosa. Quando uccisero suo padre aveva tre anni; quando frequentava la prima elementare i suoi assassini erano già in libertà. Meno di tre anni, uno sfregio per rispetto delle leggi varate in nome del bene comune, come scriverà nel suo libro forse con un eccesso di indulgenza. La “Brigata 28 marzo” fu un gruppo dalla breve e feroce parabola sanguinaria, conclusasi tra le indulgenze, i favoritismi, le omissioni, gli opportunismi, i privilegi sociali alimentati dalla legislazione sui pentiti. Una brutta storia italiana, che attende ancora di essere pienamente chiarita, anche perché a Milano quella legislazione fu interpretata in maniera più estensiva di quanto avvenne altrove, per processi riguardanti analoghi reati. Sparavano per emulazione delle Brigate rosse e di Prima Linea, uccidevano per farsi notare, per essere accettati e riconosciuti come soggetto rivoluzionario dai brigatisti: omicidi come biglietti da visita, secondo la definizione del magistrato Armando Spataro. Questa volontà di competizione determinò la escalation sanguinaria della “Brigata 28 marzo”, una determinazione feroce nel gesto narcisistico, nell’azione esemplare, dentro un quadro di motivazioni ideologiche fragili e sfuggenti.

Nel giro di pochi mesi dall’omicidio, le indagini di Carabinieri e magistratura portarono all’identificazione degli assassini, a partire dal leader dell’organizzazione Marco Barbone, arrestato il 20 settembre 1980, mentre stava facendo il militare. L’interrogatorio di Barbone, che aveva allora 22 anni, cominciò alle 20.15 di sabato 4 ottobre 1980. Accettò di raccontare tutto perché il sostituto procuratore gli fece capire che solo così se la sarebbe cavata: in cambio della collaborazione chiese garanzie per la sua sicurezza personale e una legge più incisiva sui pentiti rispetto a quella già promulgata che aveva persuaso Patrizio Peci alla confessione. Il Parlamento italiano stava per varare una nuova legge, che garantiva un solido sconto di pena ai delatori, a quanti permettevano l’arresto dei loro complici, secondo antichi moduli premiali della giustizia inquisitoriale. Davanti allo spettro del carcere a vita, Barbone dichiarò di avere preso coscienza del suo errore e in qualche istante, da killer spietato si trasformò in pacato sociologo della violenza, come se stesse parlando della vita di un altro e invece stava raccontando la sua: “La lotta armata in Italia – dichiarò al magistrato – non ha prodotto nulla dal punto di vista degli obiettivi politici che si proponeva: presa di potere, guerra civile di lunga durata, costruzione dell’esercito proletario. Ha invece prodotto numerosi guasti nella vita sociale; un imbarbarimento della vita politica e civile”. Rivelò, inoltre, il livello clandestino dell’associazione di autonomia diretta da Toni Negri che aveva in Corrado Alunni, fuoriuscito dalle Brigate rosse, il suo capo militare e parlò del progetto “Metropoli” e dei suoi legami tra Roma e Milano.

Il 28 novembre 1983 la Corte di Assise di Milano lo condannò a 8 anni e nove mesi, ma riconoscendo il valore del suo pentimento, gli concesse l’immediata libertà provvisoria. Anche gli altri imputati furono condannati a pene di entità molto diversa sulla base della condotta processuale adottata. Paolo Morandini, arrestato il 4 ottobre 1980, confessò una settimana più tardi divenendo anche lui collaboratore di giustizia come Barbone e ottenendo gli stessi sconti di pena. Mario Marano, colui che esplose il primo colpo contro Tobagi, fu condannato a 20 anni e 4 mesi, ma si pentì in secondo grado ed ebbe la pena ridotta a 12 anni. Nel gennaio 1986 ottenne gli arresti domiciliari. Manfredi De Stefano, agì in copertura, nel corso dell’istruttoria sommaria ammise ogni responsabilità e si dissociò dalla lotta armata. Quindi rivendicò il suo passato e restò un irriducibile. Diversamente dai suoi compagni fu condannato a 28 anni e otto mesi, ma morì in carcere a causa di un aneurisma il 6 aprile 1984. Daniele Laus, l’autista del gruppo per la fuga, iniziò a confessare un mese dopo l’arresto avvenuto il 4 ottobre 1980. In seguito ritrattò e aggredì con un punteruolo il giudice istruttore. Condannato a 27 anni e otto mesi, in secondo grado la sua pena scese a sedici anni. Dal dicembre 1985 poté usufruire della libertà provvisoria. Francesco Giordano, incaricato di coprire le spalle agli assassini di Tobagi, non riconobbe mai la sua partecipazione ai fatti e si vide comminare la pena più alta e severa, pur essendo stato l’unico ad avere manifestato pubblicamente autocritica per la sua esperienza di terrorista: in primo grado fu condannato a trent’anni e otto mesi che in appello scesero a 21: è stato l’unico a scontare la pena fino in fondo.

Le indagini non hanno chiarito il ruolo svolto dalla fidanzata di Marco Barbone, Caterina Rosenzweig, appartenente a una ricca famiglia milanese. Nel 1978, cioè ben due anni prima dell’omicidio, Caterina Rosenzweig aveva lungamente pedinato Tobagi, che era anche suo docente di storia moderna all’Università Statale di Milano. Anche se nel settembre 1980 viene arrestata insieme con gli altri, Caterina è assolta per insufficienza di prove, nonostante nel corso del processo fu accertato che il gruppo di terroristi si riuniva a casa sua in via Solferino, a poca distanza dagli uffici dove lavorava Tobagi. Dopo il processo si trasferirà in Brasile, dove si perdono le sue tracce. In un’intervista rilasciata dal generale Carlo Alberto Dalla Chiesa il 22 settembre 1980 (tre giorni prima dell’arresto di Barbone), è presente un cenno all’assassinio di Tobagi in cui si dichiara che è stata “[…] usata la stessa tecnica adottata a Torino nel ‘74-75 per la cattura di Renato Curcio: massima riservatezza, conoscenza anche culturale dell’avversario, infiltrazione”. Nella stessa intervista il generale afferma che vi erano sostenitori della “Brigata 28 marzo” tra i giornalisti. In effetti, nel documento di rivendicazione, gli estensori dimostrano di conoscere dettagli della vita professionale di Tobagi di un certo rilievo e particolarità. Non a caso la stessa banda gambizzò Passalacqua, giornalista di La Repubblica, il quotidiano dove la Rosenzweig aveva svolto un breve periodo di stage, potendo raccogliere informazioni preziose. Insomma, non un mistero, ma una brutta storia italiana che interroga la cattiva coscienza della “meglio borghesia” del nostro Paese.

Tobagi è morto a soli 33 anni. Nell’impegno civile di giornalista, storico e sindacalista e negli scritti pubblici e privati non permangono solo i segni di una vita straordinariamente laboriosa e intensa, ma ci sono soprattutto le ragioni di fondo della sua tragica fine. La sua ricerca della verità si faceva metodo pacato, e come disse Leonardo Sciascia “proprio per questo metodo fu ucciso. Perché, pur senza mai strillare seppe vedere, capire anni tragici, seppe capire che il terrorismo era il tarlo più pericoloso per il Paese e per la democrazia”.

Miguel Gotor è docente di Storia moderna all’Università degli Studi di Torino

 

Fonte:.collettiva.it/