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Come Vera Nabokov è diventato il sinonimo di una donna che si sacrifica e si vota completamente al proprio uomo.

Pare che sia una vera è propria sindrome, come quella di Stendhal, ma sessista.

Si tratta della Sindrome di Nabokov: un disordine dato dall’illusione che le priorità maschili siano più importanti di quelle femminili, l’idea o la pretesa che le donne debbano occuparsi degli uomini assumendo per loro un ruolo segretariale.

«Il mio piano era non sposarmi mai. No, io volevo diventare un mostro d’arte. Le donne non diventano mai mostri d’arte, perché i veri mostri d’arte si preoccupano solo d’arte e mai di cose terrene. Nabokov non si chiudeva nemmeno l’ombrello, era Vera che gli leccava i francobolli.»

La frase della Offill racchiude una verità un po’ scomoda, ma pur sempre una verità.

La voce narrante è quella di una scrittrice che vorrebbe votarsi all’arte per diventare un mostro sacro della letteratura, ma poi si sposa e ha una figlia. I suoi sogni restano in stand-by, il matrimonio vacilla e la maternità diventa una nuova forma di solitudine profondissima.

Mentirei se dicessi di non aver pensato almeno una volta la stessa cosa, o di non essermi mai imbattuta in uomini con la sindrome di Nabokov (la maggior parte neanche del tutto consapevoli e assolutamente sorpresi dalla mia indignazione).

La sindrome di Nabokov mi sembra un concetto un po’ forzato – appiccicato alla sua figura in modo superficiale – mi vengono in mente almeno un altro paio di scrittori sicuramente più meritevoli di dare il nome a una sindrome sessista. In realtà sono riduttiva, potrei passare ore a raccontarvi di come gli scrittori trattino le mogli scrittrici, vi farei venire i capelli bianchi come quelli di Vera (ma questa è un’altra storia).

Comunque, il concetto può dare il via a un paio di riflessioni interessanti. Gli studi dei biografi hanno dimostrato che il punto non è quanto Vladimir abbia avuto bisogno di Vera e fosse prioritaria nella sua vita, ma della motivazione dietro la libera scelta di una donna indipendente e piena di risorse di occuparsi di lui con sovraumana dedizione. La cosa che l’ha spinta a votarsi a lui tanto da diventare un simbolo di dedizione assoluta, senza nessuna imposizione socioeconomica, coercizione coniugale, allineamento cosmico o circostanza particolare.

Credo che anche limitare la figura di Vera alla mera assistente devota in modo morboso al marito, sia riduttivo.

Preferirei che quel “come Vera Nabokov” significasse qualcosa di diverso da “quella che sbucciava pure la frutta al suo uomo, sia mai che le preziose mani dello scrittore restassero ferite”.

Vera Slonim è stata una donna brillante fin da giovanissima: poliglotta, dall’immensa cultura e dalla memoria straordinaria. Una donna che ha amato tanto e tanto è stata amata. Forte e risoluta, fiera di essere ebrea, non nascose mai le sue origini e subì le persecuzioni della Germania nazista. Era di una bellezza non convenzionale, alta ed elegante con il fascino discreto di una Lady, con tutti i capelli bianchi da quando aveva trent’anni.

Negli anni ‘40 era già lontana anni luce dagli stereotipi di genere della sua epoca: ha sempre lavorato ed è stata il pilastro economico della famiglia dopo una profonda crisi, permettendo così al marito di abbandonare l’insegnamento e dedicarsi alla scrittura. È stata madre, maestra, segretaria, giornalista e soprattutto una grande traduttrice (sia prima che dopo il matrimonio). Oltre che assistente, copista, bibliografa, critica, agente e autista, (prese la patente per accompagnare personalmente il marito nei suoi spostamenti in America). Persino guardia del corpo di Vladimir, pronta a difenderlo da ogni pericolo mentre catturavano farfalle con il retino.

Vera Nabokov era una donna che proteggeva il suo amore più grande, non cercava qualcuno pronto a difenderla o che la facesse sentire protetta, girava armata per tenere al sicuro entrambi.

Non ricercava la sicurezza economica e non dipendeva da nessuno, lavorava sodo per sé stessa e perché il marito potesse scrivere Lolita e raggiungere la fama. Salvò il romanzo dalle fiamme, più di una volta. Era indipendente e quello che faceva per Nabokov, lo faceva solo per scelta. Si era innamorata di uno scrittore geniale ma del tutto privo del più elementare senso pratico, non era una vittima dei suoi tempi né la schiava di un marito-padrone che la disprezzava o la riteneva inferiore (qualcuno ha detto Tolstoj?). Era una donna libera.

I Nabokov si amarono per cinquant’anni, condividendo la passione per le farfalle e per gli scacchi.

Lui le fu devoto e le dedicò tutti i suoi libri, oltre ad aver disseminato ogni opera di riferimenti alla loro storia d’amore. Non fece mai mistero della sua gratitudine: «Senza Véra non avrei mai scritto una riga».

Vladimir e Vera vissero praticamente in simbiosi per tutta la vita e si separarono solo per periodi brevissimi, caratterizzati da una fitta corrispondenza.

Dalle 300 lettere di Nabokov, raccolte in Letters to Véra, traspare un amore struggente e romantico, pieno di gratitudine e ammirazione.

«Come posso spiegarti, mia gioia, stupenda gioia dorata, quanto posso essere tuo con i miei ricordi, le mie poesie, i miei impeti, i miei vortici interiori? Come posso spiegarti che non posso scrivere una parola senza ascoltare come tu la possa pronunciare; posso solo ricordare le sciocchezze vissute con un rimpianto così acuto per non averlo vissuto insieme a te, anche se il più personale, il più indescrivibile. […] Puoi essere offesa per un brutto diminutivo perché sei così totalmente risonante come l’acqua del mare, amore mio. […] Giuro di non aver mai amato nessuno come amo te, con tanta tenerezza, alle lacrime, con un tale senso di splendore.»

Una lettera ricorda il famoso incipit di Lolita:

«Ti amo tantissimo. Ti amo in modo brutto (non arrabbiarti, amore mio), ti amo in modo bello. Amo i tuoi denti… Ti amo sole mio, vita mia, amo i tuoi occhi, chiusi, tutti i piccoli dettagli dei tuoi pensieri, le tue vocali elastiche, la tua anima intera dalla testa ai piedi.»

Dolce e divertente, il bestiario di amorevoli diminutivi: “topina”, “scimmietta”, “bestiolina di fuoco”. I miei preferiti restano “uccello del paradiso con una coda stupenda” e “Pupuss” che Nabokov definiva “un incrocio tra un cucciolo e un gattino”. Una lettura dolcissima che scioglie il cuore e tutti quei nodi nascosti nel suo doppio-fondo, quello che ogni aromantica non confesserebbe mai di avere.

La dedizione di Vera al marito, ad un occhio superficiale, sembra eccessiva e poco femminista.

Quello che emerge da uno studio più approfondito è che ogni scelta di Vera è stata autonoma e spontanea e Nabokov non smise mai di esserle grato per questo.

Quindi la canzone de I Cani canticchiatela pure e, quando dite che una donna è Come Vera Nabokov, immaginatevi pure quella che leccava i francobolli al marito. Se proprio ci tenete.

Io preferisco immaginarla mentre sorride serafica alla stampa e a chi credeva autobiografica la storia di Lolita aspettandosi una ninfetta, e non un’affascinante musa di 56 anni. Preferisco immaginarla mentre salva Lolita dal fuoco, con il retino per le farfalle in una mano e la sua Browning 38 nell’altra.

di Stefania Covella – fonte: https://www.bossy.it/