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Tunisi umiliata da Saied e polizia “Si mangiano i soldi dei migranti”

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La statua del filosofo Ibn Khaldoun accerchiata dai soldati e i giovani che ascoltano il rapper Junior Hassen sulle scale del teatro municipale. Hassen è sbarcato in Italia a metà agosto, stanco del suo paese. È questa la Tunisia di Kais Saied, costituzionalista e Presidente della Repubblica alla cui corte si sono recate Giorgia Meloni e Ursula von der Leyen con le valigie cariche di euro. «Saied? Vedremo. Il problema è che non c’è lavoro». Così mi accoglie Tunisi, coi nuovi blindati verdi dell’esercito e la voce di un tassista che guida una Peugeot di trent’anni. Il tassista ha famiglia. Abita a Din Din, una cité, una periferia. Ha acceso un mutuo per comprare lo scassone. Consegna turisti agli alberghi e torna all’aeroporto per gli ultimi voli. «Ma i turisti vengono a Tunisi?» «Meno», risponde, «per colpa dei terroristi». Quelli che hanno fatto strage a marzo 2015 al museo del Bardo. Nel 2021 Saied ha chiuso inspiegabilmente il museo. Lo ha riaperto giorni fa senza clamore. «Non vengono anche perché hanno paura degli africani», conclude il tassista alludendo ai migranti con la pelle di colore diverso dal suo. La povertà è dappertutto. Di più tra avenue Burghiba e Bab el Bhar, l’ingresso della Medina. Poco distante c’è un isolato di avenue de France dove vige un coprifuoco di fatto. Tra puzza di piscio e alcool ci si avventurano nottetempo gli occidentali in cerca di fumo e i poliziotti sulle 4×4 bianche e blu. Di questo non parla Saied, impegnato in una mistificante invettiva antiafricana. Su avenue Burghiba i senzatetto dormono sui gradini sberciati dei palazzi coloniali. Alcuni hanno le braccia aperte come Cristo in croce e russano. Nonostante il caldo hanno il corpo coperto da sudici burnùs, tradizionali mantelli di lana con cappuccio. «Poliziotti corrotti», dice una donna velata. «Siamo pieni di polizia e non abbiamo un dìnaro». Dalla rivoluzione dei gelsomini del 2011 a oggi il controllo sui poveri si è fatto pressante. Con la scusa del ripristino dell’ordine, il perimetro della Medina è stato militarizzato. Una vigilanza che colpisce anche la stampa: un editto del 13 settembre 2022 che mina la libertà di parola e di espressione artistica. A pagarne le conseguenze vignettisti come Tawfiq Omrane, autore della vetrina satirica Omrane Cartoons, arrestato per oltraggio al capo del governo Hachani. Non si stupirebbe nessuno se per strada ci fossero ancora le gigantografie di Zinedine Ben Alì, il dittatore scappato in Arabia Saudita al coro di Dégage! il 14 gennaio 2011. «Questa città è una ferita che non si rimargina», si sfoga un medico in un caffè di Bab Souika. Intorno chiasso e mendicanti ammalati. La corruzione è così radicata che ne ha parlato di recente la cantante Emel Mathlouti sul periodico Jeune Afrique. Così diffusa nelle istituzioni da essere sopravvissuta alla tempesta dell’ultimo decennio: una rivoluzione tradita dal passaggio islamista alla democrazia, dal fallimento di sette governi, dall’abbandono da parte dell’Ue, dallo stallo economico e dall’avvento, nel 2019, di Kais Saied grazie a una campagna elettorale condotta con sua moglie Ichraf Chebil, giudice, garante dei rapporti con la magistratura. Accentrando i poteri, Saied ha intrapreso una violenta campagna anticorruzione dietro la quale si nasconde la volontà di potenza di un uomo solo al comando, sostenuto dal Conseil national de sécurité: la militare cabina di regia del Paese. «La polizia si fa pagare dagli africani e l’Italia vuole pagare la polizia per non prendersi i neri. Come la spieghi?», domanda un fabbro residente a Bab Djedid, la parte anticolonialista della Medina. Un quartiere sottoproletario che si raccoglie nel tifo per la squadra di calcio del Club Africain. È proprio nel celebre caffè dei clubist che matura la nuova dissidenza nella capitale. «Saied è peggio di Gannushi», il capo carismatico di Ennadha arrestato a maggio scorso. «È un razzista», aggiungono sprezzanti, poi tacciono. Nella Medina commerciale, nei souk, i fondaci si dividono. «Saied si fa valere con l’Europa. Noi non siamo un paese di transito per gli africani. Siamo arabi e musulmani», ripete le parole del presidente un venditore di pashmina, a due metri dalla moschea Zitouna. «Se gli africani arrivano a Tunisi, voglio vedere che fai», dice un venditore di profumi. Ma qualche nero c’è già e dorme sotto i ponti della grande route. «Prima i terroristi, mo’ gli africani», chiudono nel souk. Poi passa un poliziotto con walkie talkie e semiautomatica. Tutti tacciono. Il silenzio è greve. «Che farete dei soldi europei per contenere i migranti?» domando a un docente di storia. «La sbroglieremo alla tunisina, con la corruzione», ironizza. La polizia mangia due volte, questo il senso. Chi non ne beneficerà sono i disoccupati, i poveri, i bambini. «Sei d’accordo con i campi per contenere gli africani al Sud, a Sfax?» «No! In quei posti, in Italia, ci infilate i tunisini – mi attacca -: portateli da voi». Da noi, esatto. A casa nostra.

Fonte: la Stampa