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Spinoza è uno dei rari filosofi che hanno ancora qualcosa da dirci

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Inizia oggi «Spinoziana», una breve serie di interventi con scadenza stocastica, dedicata – evidentemente – a Bento de Spinoza. Essa non trova origine in una qualche ricorrenza e nasce più tosto da due motivi, riteniamo, più meritevoli e reciprocamente legati.
Il primo è inanellare, commentandole, alcune delle novità sbucate in questi anni, davanti alle quali è opportuno o mettere in guardia a causa della loro molesta invadenza (una sola volta), ovvero drizzare le antenne e precipitarsi in libreria (tutte le altre). Data la mole notevole di pubblicazioni, fuori e dentro gli studi ufficiali, accademici o non, e il ristretto spazio che ci prendiamo più o meno volontariamente (bisogna occuparsi anche d’altro), la scelta, com’è naturale, sarà del tutto arbitraria, quantunque, crediamo, condotta in buona fede e con senno.
La suddetta abbondanza è senz’altro dovuta alla “sempreverdezza” di Spinoza: egli, infatti, come tutti i veri e grandi filosofi, ha ancora parecchio da dirci e seguita a interrogarci. Spinoza, silente per all’incirca un secolo dopo la sua morte – ed ecco il secondo movente di «Spinoziana» –, irruppe nel discorso filosofico e non, all’ultimo svolto del xviii secolo, notoriamente tra i più cruciali dell’èra moderna e che immette nella contemporanea (postoché siffatti compartimenti stagno mantengano ancora valore).
Tra i primi a cogliere la grandezza di Spinoza è Goethe (Poesia e Verità), quasi nello stesso torno di Herder, Moses Mendelssohn e Lessing, quest’ultimo alla sua volta obiettivo polemico-delatorio della Dottrina di Spinoza (1785) di Jacobi, che diede vita allo Spinozastreit – controversia, litigio, accapigliamento su Spinoza – che da qui, sebbene a fasi alterne, non si è più arrestato, fino ai nostri pur sventurati giorni e miserabili giorni.
A Cura Di Andrea Ponso
Violentissima dolcezza – I detti dei Padri del Deserto
Sossio Giametta, già traduttore dell’Etica, riferisce che l’opus maius di Spinoza era per Giorgio Colli «sacro»; egli «detestava i moderni, salvo appunto Spinoza e Giordano Bruno. Per lui l’Ethica era un tempio in un deserto, entrando nel quale, se se ne aveva la capacità, si poteva “conoscere il divino”. Prendeva l’Ethica molto come un libro di misticismo» (Il bue squartato e altri macelli, Mursia, pp. 21-22).
Manlio Sgalambro, confessò egli stesso, teneva l’Etica sempre accanto e la definiva «un’arma pericolosa».
Sollevandoci parecchio di più, ricordiamo che Hegel proclamò: «philosophieren ist spinozieren» (non occorre tradurre), e che la presenza di Spinoza in Schopenhauer ha un significato non dappoco (ne diremo qui). Insieme a Kant e Schopenhauer, Spinoza compone la triade fondamentale di Piero Martinetti, anch’egli traduttore dell’Etica, e autore di svariate pagine sul filosofo.
Nella sua romita Hütte a Todtnauberg, Foresta Nera, Martin Heidegger viveva in povertà bibliografica, ma non si fece mancare alla portata di mano l’Etica.
Eppoi ricordiamoci (e forse questo è un terzo motivo) che se un attentato alla sua vita, una solenne maledizione e la conseguente espulsione (lo herem) della comunità ebraica di Amsterdam ne segnarono il rapporto con i confratelli e che ancor oggi egli è avvolto nella damnatio memoriae, e se i cristiani d’ogni confessione lo sdegnarono e nemmeno ai giorni nostri sanno molto cosa farsene, significa che Spinoza ha davvero qualcosa di molto importante da dire – a noi.
È sufficiente?
Bei tempi, si fa per dire, quelli in cui davi il dito e ti si pigliavan il braccio! Oggidì la divaricazione è parossistica, ché basta una falange e dal braccio si passerà parecchio oltre. Bisogna stare in guardia, anche se forse è già troppo tardi. Aver infatti lasciato spazio a divulgatori bensì abili ma pur sempre divulgatori, ha consentito a schiere di volgarizzatori ciabattoni e scartellati scribacchini di avventarsi su qualsiasi argomento, banalizzandolo e ridicolizzandolo oltre ogni più ardita e delirante immaginazione.
Uno degli ultimi sconci in ordine di tempo (e frattanto chissà quant’altra immondizia simile sarà uscita) esce per La Nave di Teseo, evidentemente in gran burrasca, e si intitola Il miracolo Spinoza, di tal Frédéric Lenoir, in che di miracoloso c’è solo la desolazione in cui questo chiacchierone ha gettata la nobile e profonda filosofia dell’Etica e non essersi reso conto nemmeno del ridicolo titolo, inadatto a un filosofo che negava razionalmente l’esistenza dei miracoli (Trattato teologico-politico). Se gli aveste dato di “miracolo”, è possibile che il buon Baruch vi sarebbe scoppiato a ridere in faccia.
Spinoza dà filo da torcere anche ai più scafati interpreti, ma chi legga questo Miracolo Spinoza conoscendo poco o punto il pensiero dell’olandese se lo figurerà, se va bene, come un signore simpatico e in gamba, persino un po’ intelligente; se va male, uno dei tanti “problem solver” o “life coach”, che se fosse vivo si affaccerebbe da youtube. E d’altra parte lo stesso Lenoir, sebbene con un leggera vernice dissimulativa, è di fatto parte della schiera, come denuncia il sottotitolo del suo libercolo: Una filosofia per illuminare la nostra vita, che peraltro starebbe bene sotto qualsiasi filosofia.
Per soprammercato e nonostante la banalità della sua esposizione, Lenoir riesce anche a combinare qualche pasticcio, come alla fine del capitolo terzo. Ammirate il capitombolo:
«Finché durano la passione e la forza del desiderio legate all’illusione, la gioia è presente. Ma dal momento in cui conosceremo meglio l’altro, l’immaginazione lascia progressivamente il posto alla realtà. Ed è quando avremo una giusta percezione dell’altro che la gioia, qualora fosse basata su un’illusione, si trasformerà in tristezza e, talvolta, l’amore in odio».
Ci sarebbe parecchio da ribattere a questa sintesi, ma fingiamo che tutto corra liscio e leggiamo la conclusione:
«Più percepiamo l’altro in maniera adeguata, più la gioia passiva può trasformarsi in gioia attiva e la passione in amore profondo e duraturo».
Insomma, si finisce con l’esatto contrario della premessa.
Che Lenoir sia un pasticcione e un superficiale si capisce anche solo dal commento che appioppa in bibliografia (peraltro scarsissima) allo studio di Antonio Damasio Alla ricerca di Spinoza (Adelphi): «Il punto di vista interessante di un famoso neurologo americano sul pensiero di Spinoza. Lettura talvolta arida». Lettura che evidentemente Lenoir, o non ha fatta oppure, se sì, non ha capita.
Anzitutto l’aridità sta solo nella zucca di Lenoir, il quale chiaramente definisce arido ciò che non può capire, né lo potrà mai. Damasio – è un mio giudizio, ma credo non troppo esagerato e condiviso – è uno dei pensatori più significativi del nostro tempo, uno dei pochissimi scienziati dotati di una solida preparazione umanistica e filosofica (lo si capisce anche dall’Errore di Cartesio) e penna felicissima, che sa descrivere e spiegare in profondità concetti talora non di immediata comprensione a chiunque abbia una discreta e generale preparazione culturale.
Inoltre egli, con tutto il rispetto per la categoria, non è soltanto un neurologo: bensì un neurobiologo, neuroscienziato e un filosofo. Definire poi semplicemente «interessante» Alla ricerca di Spinoza, sarebbe come dire che Monica Bellucci è caruccia o che l’arsenico scatena solo un po’ di mal di testa.
Alla ricerca di Spinoza è soprattutto la dimostrazione scientifica dei fondamenti antropologici e psicologici esposti nell’Etica circa affetti e passioni. In altre parole: sulla scorta di solide e robuste ricerche sperimentali, Damasio dimostra che Spinoza, circa le emozioni e i sentimenti, ha descritto i meccanismi interni dell’essere umano che solo la pratica scientifica contemporanea ha individuato. Insomma, l’Etica ha visto avanti di oltre tre secoli.
Non è finita, perché in conclusione Damasio prova a spiegare se e quanto la prassi filosofica spinoziana sia per noi realizzabile e quanto lo sia stata per lo stesso filosofo. E i resultati di questi interrogativi, oltre a non essere scontati, sono parecchio istruttivi e persino dirimenti per l’intelligenza di Spinoza e della nostra esistenza pratica.
E tutto questo, secondo quel lavapiatti pseudofilosofico, sarebbe soltanto «interessante».
Suggerisco di leggere tutti i lavori di Damasio, integralmente pubblicati da Adelphi. In ordine cronologico essi sono: L’errore di Cartesio, uno degli studi più rivoluzionari ed efficaci per la decostruzione d’uno dei fondamenti filosofici ed epistemologici dell’Occidente, e che fa coppia con il successivo Emozione e coscienza. C’è poi Alla ricerca di Spinoza, seguito da Il sé viene alla mente, una sorta di tappa centrale della ricerca damasiana. Dopodiché abbiamo il singolarissimo Lo strano ordine delle cose, che si offre di spiegare, sulla scorta delle pregresse indagini e scoperte, la nascita delle culture, le quali sarebbero impregnate nella loro genesi d’uno dei concetti chiave di tutta la filosofia di Antonio Damasio, incentrata sul duplice binario emozione- sentimento, alla sua volta poggiante sul cruciale concetto di omeostasi o, come preferisce chiamarla l’autore, omeodinamica, e che naturalmente riveste un parte fondamentale dell’opera su Spinoza.
Sono volumi più tosto corposi e per certi versi impegnativi, a esclusione dell’ultimo, Sentire e conoscere, assai agile e breve e che può essere considerato una summa dei precedenti.
Trovo questo autore davvero rivoluzionario e una lettura obbligata a chi si dedichi tanto alla filosofia, quanto a uno dei suoi problemi più rognosi: quello della coscienza. Più di molteplici e famosi altri scienziati, Antonio Damasio è un degno erede della nostra tradizione filosofica, e quindi anche di Spinoza.

Di Luca Bistolfi – fonte: https://www.pangea.news/spinoza-damasio-luca-bistolfi/