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Per favore non speculate sul mito di Falcone

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Otello Lupacchini ·

Accusato di aver nascosto le prove sui legami tra mafia e politica, di non aver indagato su Salvo Lima dopo le dichiarazioni del pentito Mannoia, il magistrato rispose lapidario: «È necessario distinguere le valutazioni politiche dalle prove giudiziarie»
Da quando sono stati barbaramente assassinati, Falcone e Borsellino hanno assunto natura mitologica, di cui, retorica aiutando e spirito critico mancando, si sarebbe alimentata l’antimafia strumento di potere. In virtù del sacrificio delle loro vite, si continua da allora ad arruolare i due Magistrati sotto le bandiere della «pubblicità ingannevole», per tale intendendosi ogni pubblicità idonea, in qualunque modo, a indurre in errore le persone alle quali è rivolta o che essa raggiunge e delle quali possa pregiudicare il discernimento. Emblematico il folle paragone tra il Maxi processo, che ha fatto la storia d’Italia, e le evanescenti inchieste del procuratore Gratteri.
Il 23 maggio di trent’anni or sono, Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e tre agenti di scorta, Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro, vennero uccisi dall’esplosione di una potente carica di tritolo, posizionata a opera di Cosa nostra in un tunnel scavato sotto la sede stradale nei pressi dello svincolo di Capaci-Isola delle Femmine, sull’autostrada che da Punta Raisi conduce a Palermo. Il tragico evento, cerniera tra la Prima e la Seconda Repubblica, era stato preceduto da lugubri presagi: nei primi giorni di marzo, Elio Ciolini, uomo legato all’estrema destra, condannato per il depistaggio delle indagini sulla strage di Bologna, detenuto nel carcere di Firenze, aveva indirizzato ai giudici felsinei una lettera per annunciare una «nuova strategia della tensione in Italia» da attuarsi nei cinque mesi successivi, fino a luglio; in quel periodo, sosteneva, «accadranno eventi intesi a destabilizzare l’ordine pubblico» e cioè esplosioni che colpiranno persone «comuni» in luoghi pubblici, il sequestro e l’eventuale «omicidio» di un esponente politico della Democrazia cristiana, il sequestro e l’eventuale «omicidio» del futuro Presidente della Repubblica; trascorsi alcuni giorni, era stato ammazzato Salvo Lima; sarebbero poi seguite la strage di Capaci, quella di via d’Amelio e, infine, quelle dell’estate 1993, le cui vittime sarebbero state «persone comuni». Non interessa la fonte di tali premonizioni, quanto, piuttosto, segnalare il fatto che, da quel tragico 23 maggio 1992, le figure di Giovanni Falcone, prima, e di Paolo Borsellino, successivamente, hanno assunto natura mitologica, di cui, retorica aiutando e spirito critico mancando, si sarebbe alimentata l’antimafia strumento di potere.
In virtù del sacrificio delle loro vite, si continua da allora ad arruolare i due Magistrati barbaramente assassinati sotto le bandiere della «pubblicità ingannevole», per tale intendendosi ogni pubblicità idonea, in qualunque modo, compresa la sua presentazione, a indurre in errore le persone alle quali è rivolta o che essa raggiunge e delle quali possa pregiudicare il discernimento.
Fu Adolf Hitler, in Mein Kampf, a esporre la teoria totalitaria della menzogna: il pensiero, la ragione, il discernimento del vero e del falso, la decisione, il giudizio, sono una cosa molto rara e assai poco diffusa nel mondo; è un affare d’élite, non della massa; quest’ultima è mossa dall’istinto, dalla passione, dai sentimenti e dai risentimenti; non sa pensare; né lo vuole: non sa che obbedire e credere; crede a tutto ciò che le si dice, a condizione che lusinghi le sue passioni, i suoi odi, i suoi terrori: inutile mantenersi nei limiti della verosimiglianza: al contrario, più si mente in modo grossolano, massiccio, brutale, più si sarà creduti e seguiti; inutile, altresì, cercare di evitare le contraddizioni; inutile mirare alla coerenza: la massa non ha memoria; inutile nascondere la verità: essa è radicalmente incapace di riconoscerla; inutile persino nasconderle che la si inganna: l’animale parlante è, prima di tutto, un animale credulo, e l’animale credulo è precisamente quello che non pensa. Da uomo pensante, appartenente magari alle «masse degenerate e imbastardite», rifiuto d’accodarmi alle pseudo aristocrazie-totalitarie, del «credere, obbedire, combattere», quale dovere del popolo, essendo il pensiero prerogativa del capo. Reputo, invece, mio dovere denunciare lo scandalo dei maldestri tentativi di rappresentare Nicola Gratteri quale redivivo Giovanni Falcone, ovvero d’abbassare Giovanni Falcone al livello di Nicola Gratteri. A quest’ultimo, il quale parrebbe esposto a gravissimi pericoli per la propria incolumità fisica, va incondizionatamente tutta la mia più sincera, umana solidarietà, ben sapendo cosa significhi, per dolorosa, personale, quarantennale esperienza, vivere sottoposti a obiettive, gravi limitazioni, sia pure a fini securitari, della propria libertà personale. Il che, tuttavia, non m’impedisce, anzi me lo impone come dovere, di evidenziare l’assurdità di affermazioni del tipo «Il dottore Gratteri […], nel distretto di Catanzaro sta affrontando una situazione che è assolutamente analoga a quella che nei primi anni Ottanta affrontò il primo pool antimafia di Palermo, ecco perché col processo “Rinascita Scott” si arriva a […] numeri così alti di ordinanze di custodia cautelare e di imputati: la situazione (odierna) della Calabria è, da un punto di vista criminale, paragonabile a quella delquel la Sicilia dei primi anni Ottanta», specie se ascrivibili non già a un oscuro «menante», addetto alla bassa cucina in qualche redazione giornalistica, quanto piuttosto a colui che ha sostenuto l’accusa nel processo palermitano relativo alla cosiddetta «Trattativa Stato-Mafia» e che, dunque, solo per questo dovrebbe sapere cosa accadeva nella Sicilia degli anni a cavallo del 1980, e cosa abbia rappresentato il maxi-processo istruito da Giovanni Falcone, nei confronti del Gotha e dei gregari di Cosa nostra a partire dalla prima metà degli anni Ottanta.
Accusato di aver nascosto le prove sui legami tra mafia e politica, di non aver indagato su Salvo Lima dopo le dichiarazioni del pentito Francesco Marino Mannoia, di essersi fermato sulla soglia del cosiddetto «terzo livello», Giovanni Falcone rilasciò un’intervista a Giovanni Bianconi, pubblicata sul quotidiano La Stampa del 6 settembre 1991, nella quale, affermato innanzitutto come sia sempre necessario «distinguere le valutazioni politiche dalle prove giudiziarie», chiarì che «sotto il profilo penale non si poteva fare di più», là dove si fosse voluto «interrompere la solita trafila con cui si era andati avanti per decenni: omicidio eccellente, indagini che non portano a specifiche responsabilità per delitto, imputazioni collettive generiche, lunghe istruttorie con la carcerazione preventiva e poi proscioglimenti e assoluzioni per tutti»; ribadendo, dunque, che un’indagine antimafia, la quale aspiri ad approdare a qualche risultato utile, «dev’essere improntata a rigore, ma anche a cautela». Alla temeraria obiezione giusta la quale «proprio questo avrebbe potuto riportare l’antimafia al solito tran tran burocratico», avanzata magari da «un sindaco che per sentimento o per calcolo» avendo cominciato «ad esibirsi – in interviste televisive e scolastiche, in convegni, conferenze e cortei – come antimafioso», anche se avesse dedicato tutto il suo tempo a queste esibizioni e non ne avesse mai trovato per occuparsi dei problemi del paese o della città che amministrava, si sarebbe potuto «considerare come in una botte di ferro». la replica di Giovanni Falcone fu tranchant: «Io dico che bisogna stare attenti a non confondere la politica con la giustizia penale. In questo modo l’Italia, pretesa culla del diritto, rischia di diventarne la tomba. In una Sicilia dove non ci sono altri esempi che l’illegalità, occorre far vedere che il diritto esiste. Buscetta, puntandomi la mano contro, una volta mi disse: “Io accuso voi magistrati con due dita, come fanno gli arabi per indicare una colpa gravissima. Avete creato dei mostri dando rilievo a personaggi di scarso peso, mentre in realtà i veri capi non li avete toccati”».
A proposito del rigore e dello scrupolo garantista di Giovanni Falcone, valga la testimonianza del prof. Sergio Mattarella nell’intervento che pronunciò, quale presidente della Repubblica, il 23 maggio 2017: «Ho conosciuto il giudice Falcone prima ancora che l’eco delle sue inchieste lo rendesse famoso in Italia e all’estero. Ne ho seguito l’impegno messo in opera nella sua attività giudiziaria. Con quella sua attività ha impresso una svolta all’azione della giustizia contro la mafia. Anzitutto con il suo metodo di lavoro, con il suo modo di svolgere le inchieste. Nei primi tempi veniva talvolta criticato, dicendo che operava come un agente di polizia più che come un magistrato, una sorta di sceriffo. Non era vero: il suo era un metodo moderno, più dinamico, più attivo di quanto fosse abituale, ma manteneva forte e inalterato lo stile e il carattere del magistrato, attento, fino allo scrupolo, alla consistenza degli elementi di prova raccolti. Le sue inchieste, difatti, erano contrassegnate da grande solidità; e le sue conclusioni venivano sempre condivise dai Tribunali e dalle Corti giudicanti».
Evito, pietatis causa, ogni notazione sul modus procedendi e sui risultati troppo spesso effimeri delle roboanti indagini di Nicola Gratteri, «evanescenti» sicut umbra lunatica.

FonteIL RIFORMISTA