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NOMADI DIGITALI

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Computer in spalla, lavorano dove vogliono. Ma sono ancora pochi privilegiati. Indagine sulla rivoluzione mancata dello smart working
Eugenio Cau

Chi spiegava come “mollare tutto” tralasciava la necessità di conoscere un linguaggio di programmazione, o di saper sviluppare un’app La principale categoria di persone coinvolte dal cambiamento: quelli che hanno fatto smart working per un po’, poi sono tornati in ufficio come prima Le “zoomtown”, città dove le persone si trasferivano a lavorare per la loro azienda, ma avrebbero fatto tutto da remoto, in videochiamata Per fare i nomadi digitali continua a essere necessario essere un freelance, o avere un datore di lavoro che consente una flessibilità estrema, una rarità
Prima
della pandemia, i nomadi digitali avevano alcune caratteristiche ben definite. Erano coloro che viaggiavano per il mondo lavorando da remoto, con un computer nello zaino e, nell’esagerato immaginario comune, un mojito sempre in mano. In realtà non bisognava necessariamente essere sempre in viaggio per essere nomadi digitali; spesso, i nomadi digitali lavoravano in Europa o negli Stati Uniti d’estate, e poi svernavano ai Caraibi o nel sud est asiatico, saltando di resort in resort, di spiaggia in spiaggia. I nomadi digitali erano rari, ché sono pochi i mestieri che consentono davvero di non presentarsi mai in ufficio. Erano davvero nomadi, perché viaggiavano in luoghi esotici, lontani, e tendenzialmente più economici di casa. Ed erano davvero digitali, perché erano quasi sempre imprenditori di internet, programmatori, sviluppatori di app, influencer. Essere nomadi digitali, prima della pandemia, era un privilegio riservato a pochissime persone, ed era uno stile di vita ammirato, invidiato e certamente sopravvalutato. Per anni, prima della pandemia, hanno proliferato siti, blog, libri e profili social che spiegavano come “mollare tutto” e diventare nomade digitale, e che quasi sempre tralasciavano il fatto che per diventarlo bisognava conoscere almeno un linguaggio di programmazione, saper sviluppare un’app o quanto meno avere una faccia molto instagrammabile.
Poi è arrivata la pandemia, e con i lockdown è arrivato lo smart working, brutto termine inglese usato però solo in Italia, per qualche strano giro della lingua. Per oltre un anno, in alcuni casi anche due, si sono cominciati a fare da casa mestieri che prima si potevano fare soltanto in ufficio. Le riunioni si sono spostate su Zoom, le conversazioni su Slack, le mail sono rimaste mail e le cene aziendali sono state abolite. Tutti hanno cominciato a svegliarsi un po’ più tardi, ché per lavorare da casa non bisogna prendere la metro, e a lavorare dapprima senza cravatta, poi in maglietta, poi senza mai togliere il pigiama. E pian piano alcuni lavoratori più smart degli altri, nel loro pigiama, hanno cominciato a sognare. Se è possibile lavorare da casa, si sono detti, non è per forza necessario che la mia casa stia a Tor Pignattara. Potrebbe stare a Valencia, sul mare. O a Courmayeur, al fresco. O a Puerto Escondido, davanti a un posto che vende mojito. Per milioni di lavoratori d’ufficio in tutto l’occidente, improvvisamente si è spalancata la possibilità di diventare nomadi digitali. Di rinunciare alla schiavitù del cartellino e degli orari, del caffè davanti alla fotocopiatrice e di dover vedere tutti i giorni il proprio capo. Anche gli esperti erano concordi: con varie gradazioni, soprattutto all’inizio della pandemia erano in molti a sostenere che lo smart working avrebbe cambiato per sempre il mondo del lavoro, che una volta provato il piacere di fare riunioni via Zoom sul divano in pochi sarebbero voluti tornare indietro, e che se anche si fosse tornati in ufficio le cose sarebbero state diverse, più flessibili, più libere.
Per un certo periodo il mondo del lavoro cambiò davvero. Secondo uno studio dell’istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche (Inapp), in Italia prima della pandemia le persone che lavoravano da remoto almeno un giorno alla settimana erano l’11 per cento della forza lavoro, poco meno di due milioni e mezzo. Nel 2021 erano il 32,5 per cento, oltre sette milioni. La pandemia ha effettivamente cambiato il modo in cui si lavora, e ha favorito e velocizzato alcuni fenomeni che erano già in corso. Le aziende che concedono lo smart working ai propri dipendenti sono aumentate, per esempio. Ma non ha provocato la rivoluzione che in tanti si aspettavano. Soprattutto, non ci ha trasformati tutti in nomadi digitali, nonostante i nostri sogni in pigiama.
Con un certo grado di approssimazione, possiamo dividere le persone coinvolte dai cambiamenti nel mondo del lavoro post pandemia in tre categorie differenti. Anzitutto, quelli che hanno fatto smart working per un po’, durante il lockdown, e che poi sono tornati in ufficio come prima, o quasi come prima, magari guadagnando qualche minima flessibilità. Sono la stragrande maggioranza delle persone, quelle che prima del lockdown andavano in ufficio cinque giorni a settimana e adesso sono tornate a fare lo stesso, o magari hanno ridotto i giorni a quattro, se il datore di lavoro si sente particolarmente generoso e illuminato.
Poi ci sono le persone che durante il lockdown avevano fatto alcuni cambiamenti importanti alla propria vita. In Italia, per esempio, nel primo periodo della pandemia milioni di studenti e lavoratori fuorisede, che magari vivevano in affitto a Roma, Milano o nei grandi centri, sono tornati nelle proprie città d’origine, in alcuni casi per evitare di pagare l’affitto e stare in casa dei genitori, in altri per godere di un clima o di uno stile di vita migliori. In casi ulteriori, molte persone durante il lockdown hanno preso casa fuori dalle grandi città, in centri più piccoli dove la vita è più tranquilla, piacevole o economica. Negli Stati Uniti, queste città le hanno chiamate “zoomtown”, cioè cittadine di Zoom, per indicare luoghi dove le persone si trasferivano sapendo che avrebbero continuato a lavorare per l’azienda della loro vecchia città, ma avrebbero fatto tutto da remoto, in videochiamata. La maggior parte di queste persone, tuttavia, dopo le grandi ondate della pandemia è tornata a fare la vita di prima. Gli studenti fuorisede sono certamente tornati a frequentare l’università, e molti dei lavoratori che si erano allontanati dalle grandi città sono stati costretti a tornarci.
Anche le zoomtown hanno avuto un successo breve. Il Wall Street Journal ha raccontato per esempio la storia di Boise, la capitale dell’idaho: una cittadina di poco più di 200 mila abitanti, con un clima sempre fresco e una qualità della vita molto alta ma al tempo stesso relativamente economica, che nel primo periodo della pandemia fu presa d’assalto da decine di migliaia di lavoratori in smart working e divenne una delle più note zoomtown d’america. Per un certo periodo, Boise conobbe una crescita eccezionale. La città si riempì di eventi e di nuovi locali, il mercato immobiliare divenne ricchissimo e tra il 2020 e il 2021 sembrò che Boise sarebbe cresciuta a livelli eccezionali. Poi la bolla scoppiò: Boise è stata in parte vittima del suo successo, perché i prezzi delle case si erano alzati a tal punto da diventare inaccessibili a molte persone, ma in parte è stata vittima di un fenomeno più ampio, scrive il Wall Street Journal: le aziende hanno cominciato a richiamare i loro dipendenti in ufficio, e il sogno della zoomtown è svanito.
Anche in questo caso: alcuni cambiamenti ci sono stati per davvero. Alla fine del lockdown, molte persone sono davvero riuscite a trasferirsi lontano dagli uffici, a realizzare il sogno di vivere in posti più sereni, accessibili ed economici di Roma, Milano o San Francisco. Alcuni hanno comprato una casa con giardino in campagna, e lavorano da lì. Altri sono davvero riusciti a tornare nelle loro città d’origine per stare vicini alle famiglie, approfittando del lavoro da remoto. Ma la maggior parte dei lavoratori è tornata nelle metropoli ed è di nuovo in ufficio tutti i giorni, o quasi.
La terza categoria, infine, è quella dei nomadi digitali, quelli veri. Sono sempre stati una minoranza, e lo sono tuttora, ma nei primi tempi della pandemia erano sembrati la categoria più promettente, quella che avrebbe tratto più giovamento dal cambiamento dei modi di lavoro dettati dal coronavirus, e che alla fine sarebbe cresciuta di più, magari creando perfino nuovi stili di vita. A un certo punto della pandemia, era sembrato davvero che diventare nomadi digitali, cioè persone che con un computer portatile e poco altro possono lavorare e viaggiare e trasferirsi dove vogliono, sarebbe stato alla portata di molti. Si creò, a un certo punto, l’impressione che dopo la pandemia si sarebbe formata una classe di nomadi digitali molto qualificati, molto benestanti e molto felici, che si sarebbe spostata di paese in paese portando ricchezza e consumi e stili di lavoro con sempre maggiore flessibilità. Molti paesi negli ultimi anni hanno approvato delle leggi per attrarre i nomadi digitali, immaginando che il loro numero sarebbe senz’altro cresciuto, e così la loro capacità di spesa. Lo ha fatto perfino l’italia, questa primavera, con una legge che consente ai lavoratori altamente qualificati dei paesi extra Unione Europea di ottenere un visto per un anno in maniera facilitata, e con meno burocrazia per il trasferimento.
E’ presto per dire se queste leggi abbiano funzionato o meno, ma in effetti il numero di nomadi digitali è cresciuto. Per l’italia i dati sono incerti, ma negli Stati Uniti, secondo il sito Statista, sono passati da 10 milioni di persone nel 2020 a 15 milioni nel 2021: sono sempre una frazione della popolazione totale, ma in crescita. I dati ci dicono comunque che stiamo parlando di un fenomeno ridottissimo: sempre secondo Statista, i nomadi digitali americani sono il 50 per cento del totale, e dunque possiamo dire che in assoluto i nomadi digitali che viaggiano nel mondo sono all’incirca 30 milioni. Pochini. Di questi, l’un per cento sarebbero italiani. Molto lontani dall’idea di flessibilità, libertà e mojito che era circolata durante il lockdown.
Sono comunque numeri rispettabili che indicano una crescita notevole. Ma il problema è appunto questo: la crescita del numero dei nomadi digitali è notevole perché per esserlo è ancora necessario avere alcune prerogative peculiari e rare, esattamente come avveniva prima della pandemia. Quello che molti avevano sperato, e cioè che la pandemia e l’abitudine a lavorare da remoto avrebbero reso queste prerogative meno rare, di fatto non è avvenuto, o almeno non in termini apprezzabili. Il nomadismo digitale non è diventato più accessibile grazie alla diffusione del lavoro da remoto, in gran parte perché il lavoro da remoto non ha avuto la funzione rivoluzionaria che molti speravano. Per fare i nomadi digitali continua a essere necessario essere un freelance, o avere un datore di lavoro che consente una flessibilità estrema, che rimane eccezionalmente rara. Alcune grandi aziende soprattutto tecnologiche dopo la pandemia hanno concesso questo tipo di flessibilità: Twitter, per esempio, consente ai suoi dipendenti di lavorare dal luogo che preferiscono, senza nessun limite, e si definisce una “azienda diffusa”. Ma si tratta ancora di eccezioni, difficili da trovare fuori dal mondo privilegiato della Silicon Valley.
Ciò che è successo, alla fine, è che quello del nomade digitale è rimasto un sogno che la pandemia non è riuscito a piegare

Fonte: il riformista