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Le interviste degli altri (Corriere della sera «Io che fui cacciato da scuola oggi racconto agli studenti l’orrore delle leggi razziali»)

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Dall’infanzia felice ai diritti negati: «Odiai la mia patria»

Corriere della Sera

Marzo 2021

di Paolo Conti (foto I.i.s. Alberti)

Ugo Foà, napoletano, classe 1928, è uno degli ebrei che vengono definiti «scampati» allo sterminio perché sfuggiti alla deportazione. Ha vissuto la cancellazione dei suoi diritti, l’espulsione dalla scuola e lo racconta in un libro per ragazzi, «Il bambino che non poteva andare a scuola/ Storia della mia infanzia durante le leggi razziali in Italia» (Manni editore), arricchito da puntuali schede storiche e sull’ebraismo. Ha alle spalle una lunga vita professionale (nelle assicurazioni, ha anche una militanza nel Pci) e familiare (due figli, tre nipoti, tre pronipoti più una quarta in arrivo). Dal 1990 fa parte del «progetto memoria» nelle scuole.

Un’istantanea: Adolf Hitler in visita a Napoli, il 5 maggio 1938. Il dittatore che avrebbe condotto allo sterminio sei milioni di ebrei. Lei, Ugo Foà, bambino ebreo di dieci anni dov’era? E come si comportò?

«Abitavamo al Vomero e con tutta la famiglia scendemmo a via Caracciolo per fare festa e ammirare le luminarie. Ero Balilla e mio fratello Mario era Avanguardista. Per noi il saluto romano era normalissimo. Non riuscimmo a vedere Hitler ma anche noi Foà applaudimmo. Come tutti i napoletani. Perché noi ebrei a Napoli vivevamo come tutti: in più eravamo pochi, non come a Roma o Milano. Così io, Ugo Foà, ebreo di 10 anni, festeggiai Hitler. Pochi mesi dopo sarebbe iniziata la tragedia delle leggi razziali. E avrei finito con l’odiare la mia Patria, l’Italia, perché mi toglieva ogni diritto».

E dopo?

«Finita la dittatura e la guerra sono sempre stato orgogliosissimo di essere italiano. Da assessore alla Cultura di Radicofani ho indossato con fierezza la fascia tricolore. Amo il mio Paese, profondamente».

Ebreo italiano o italiano ebreo?

«Mi sono sempre sentito un italiano ebreo».

Anche secondo l’anagrafe…

«Già. Sembra incredibile ma nel 1955, quando decisi di sposarmi, chiesi l’atto originario di nascita. E sul documento apparve la scritta

“di razza ebraica” aggiunta nel 1939. Ed eravamo nell’Italia repubblicana! Ma il documento più atroce era di mio nonno Lazzaro, nato a Livorno nel 1855 sotto il Granducato e futuro Rabbino: anche lì c’è quella scritta. Mi sono sempre immaginato il nonno che, col suo bastone, andò obbediente a registrarsi come ebreo all’anagrafe nel ’39 come imponevano le leggi razziali. Chissà come l’avranno trattato».

Com’era essere bambini ebrei a Napoli prima delle leggi razziali?

«Una condizione normalissima. Per questo l’arrivo delle leggi razziali fu un trauma enorme. Alle elementari qualche rara domanda. Una volta un bambino mi chiese perché non partecipassi all’ora di religione. “Perché sono ebreo”. E lui: “Ah, ebreo, comme chilli c’hanno acciso a Gesù!”. Ma la cosa fini lì. Per il resto studiavamo e giocavamo insieme. Come racconto nel libro ci scambiavamo le figurine con i generali che avevano conquistato l’Africa: Badoglio, Graziani, Del Bono. La razza? Parola mai sentita prima…».

Invece ecco le leggi razziali, il 5 settembre 1938, con l’espulsione di studenti e docenti ebrei dalle scuole.

«Eravamo cinque fratelli e mamma ci chiamò in cucina, papà lavorava da tempo in Africa. Spiegò tutto. Niente ginnasio per me, niente liceo per i più grandi. Scoppiai a piangere a dirotto, mi sentivo umiliato. Dall’estate ero impaziente di dimenticare il grembiule nero delle elementari, i miei voti alti avrebbero esentato i miei genitori dalle tasse scolastiche. Invece niente. Mi strappavano una cosa mia e non capivo perché».

La soluzione fu lo studio da privatista…

«Sì, studiammo da professori ebrei che non potevano più insegnare: un giorno a casa della professoressa Ida Del Val, per le materie umanistiche, e per quelle scientifiche un giorno dal professor Angelo Susani, poi sostituito da Arrigo Cantoni. La Del Val ci incoraggiava, diceva che sarebbe finita e dovevamo avere fiducia. Anni dopo seppi che era impegnata nella lotta antifascista».

Il risultato degli esami del primo anno fu una rivincita. Perché?

«Gli altri privatisti avevano perso un anno o erano scadenti. Fatto sta che io e Ugo Sacerdoti, eravamo solo due ebrei napoletani in età ginnasiale, prendemmo tutti 8. Nei quadri finali spiccavano i nostri voti e la scritta sottolineata in rosso “di razza ebraica”. Il preside tentò di dire che non si poteva ammettere che i più bravi fossero due ebrei: ma la presidente della commissione rispose che erano le valutazioni giuste e lasciava a lui la decisione finale.

Il preside non fece nulla…».

Poi arrivarono i bombardamenti degli americani nel ’41-’42, il 12 settembre 1943 i tedeschi occuparono Napoli, ci furono le Quattro Giornate e gli Alleati entrarono l’1 ottobre.

«Se non ci fossero state le Quattro Giornate, noi ebrei napoletani saremmo finiti nei campi di concentramento come gli altri. Invece ce la facemmo. Fu deportata e sterminata solo la famiglia Procaccia. Durante i bombardamenti lasciò Napoli e credette di salvarsi rifugiandosi in provincia di Lucca. Invece lì furono consegnati ai nazisti da un italiano, un repubblichino. Uno dei tanti casi di italiani che tradirono i loro connazionali ebrei. Ma per fortuna ci sono state tante storie opposte. Comunque nel novembre 1943 ripresi il liceo. In classe c’erano ex compagni delle elementari. Nessuno mi chiese il perché della mia scomparsa dalla scuola. Lì per lì non ci feci caso. Poi, riflettendoci, capii quanto fosse grave. Forse dopo anni di dittatura era difficile trovare il coraggio».

Quando scoprì l’esistenza dei campi di sterminio degli ebrei?

«Arrivarono notizie frammentarie dopo la Liberazione. Molti arresti, si diceva. Si parlava allora di “deportati” sperando che tornassero. Poi, in un campeggio estivo della Comunità ebraica al Lago di Misurina nell’estate 1947, capii la tragedia: miei coetanei che avevano perso genitori e nonni, altri racconti atroci. Cominciai a chiedere, a documentarmi».

Lei è coetaneo di sopravvissuti ai lager come Liliana Segre, Sami Modiano, Edith Bruck. Vive sensi di colpa, nei loro confronti?

«Provo profondissimo dolore per le loro storie, massima comprensione e rispetto. Ma senso di colpa no. Mi reputo un ebreo fortunato, e lo dico sempre».

Lei da anni ha accettato di testimoniare nelle scuole. Ma come molti ebrei, ha aspettato a lungo. Perché?

«Perché per anni in noi stessi ebrei è prevalso il desiderio di non parlare. Mia madre è morta a 103 anni. Con le leggi razziali abbiamo vissuto anni di povertà, isolamento, terrore. Ogni volta che si tornava a quei tempi diceva: “lasciamo stare, non parliamo di certe cose”. C’era come un blocco. Hanno atteso a lungo anche Piero Terracina, grande testimone dell’Olocausto ma solo dagli anni ’80, e Sami Modiano. Li ho spesso accompagnati nei loro incontri. Ho visto la loro commozione e quella di tanti ragazzi, per la loro storia e la mia».

Quando vide per la prima volta Auschwitz?

«Solo nel 2005. Avevo deciso che non sarei mai andato. Poi un’amica preside mi chiese di andare con la sua scuola di Lunghezza, vicino a Roma. Quando arrivammo a Auschwitz-Birkenau la commozione fu enorme. Mi inginocchiai e recitai la preghiera ebraica in onore dei defunti».

Papa Francesco ha voluto incontrare Edith Bruck dopo aver letto il suo ultimo libro «Il pane perduto» (la nave di Teseo). Il papa ha chiesto «perdono, Signore, a nome dell’umanità». Che ne pensa?

«Bellissimo gesto, l’ho apprezzato molto. E nell’ebraismo chiedere perdono significa comunque iniziare un percorso importante».

Il libro di Edith Bruck è stato presentato allo Strega. È giusto che si affronti la Shoah anche in un premio letterario?

«È importante che si parli di memoria e di Shoah sempre e comunque, anche in un evento spettacolare quale può essere lo Strega».

Lei ha conosciuto Primo Levi, vero?

«Ho vissuto per lavoro a Torino con la mia famiglia tra il 1956 e il 1968. Quasi tutti i giorni lo incontravo davanti alla scuola ebraica torinese, luogo straordinario perché, grazie a un accordo, è frequentata sia da ebrei che da valdesi. Ci salutavamo ma rapidamente, buongiorno e buonasera. Un uomo riservato, timidissimo. Andammo con mia moglie a uno dei suoi primi incontri pubblici in cui raccontò la deportazione e la prigionia. Si vedeva la fatica che faceva nel parlare in pubblico. Poi, negli anni, cambiò».

La morte di Levi: un incidente o suicidio, secondo lei?

«Solo dubbi, domande, nessuna certezza. Una persona così mite, educata: quella morte ci sconvolse».

Lei ha mai avuto momenti di depressione, di angoscia?

«Tra gli anni ’80 e ’90 soffrii di lunghe insonnie. Eppure non avevo problemi. Il professor Cohen, medico di famiglia, ebreo come me, mi spiegò: “Noi soffriamo in maniera incurabile di ansia semitica, ce l’abbiamo nel Dna e ce la dobbiamo tenere”. Penso che lui così descrivesse l’inquietudine tipica degli ebrei per ciò che hai vissuto direttamente o indirettamente attraverso tanti racconti».

A 93 anni ha ancora voglia di raccontare, di testimoniare?

«Sì, tanta, finché le forze me lo consentiranno. Continuo a incontrare studenti a distanza, spero di rivederli presto di persona, mi aiuta molto la Comunità ebraica romana riformata “Beth Hillel” presieduta da Daniela Gean. Noi dobbiamo raccontare ai giovani. Lo diciamo sempre, e lo ripeto qui: senza memoria non c’è futuro».