Type to search

L’INCUBO ATOMICA E I TEMPI FORZATI

Share

Dal Corriere di Davide Frattini

La «dottrina Begin» decolla il pomeriggio del 7 giugno di 44 anni fa, quando 14 jet volano verso la periferia di Bagdad e demoliscono il reattore nucleare voluto dal dittatore Saddam Hussein.
Prende il nome dal politico combattente che per primo porta la destra al potere in Israele e per primo firma la pace con un Paese arabo, l’egitto. La dottrina stabilisce che la nazione non permetterà a nessuno tra i nemici (i tanti in Medio Oriente) di ottenere armi per la distruzione di massa. Stabilisce, soprattutto, che lo Stato ebraico «agirà da solo», senza aspettare il soccorso degli alleati, «quando l’esistenza del suo popolo è in pericolo».
Successe anche durante la Guerra dei Sei giorni del 1967 o nel raid in Siria del 2007 per smantellare le ambizioni atomiche del regime di Assad. Sta succedendo in queste ore con le ondate di bombardamenti sull’iran: i piloti israeliani hanno percorso i 2.000 chilometri verso Teheran senza quel supporto americano che gli analisti e gli stessi generali consideravano essenziale.
Da solo ha deciso Benjamin Netanyahu, perché Israel Katz è il ministro della Difesa che si è scelto per evitare ogni concorrenza politica ed Eyal Zamir guida lo Stato Maggiore da pochi mesi. Ha deciso da solo anche se i generali lavoravano al piano da anni e Bibi, com’è soprannominato, ci pensava assiduamente dal 2009, quando è tornato al potere fino a diventare il premier più longevo nella Storia del Paese. Sapeva — ha avvertito gli israeliani in un discorso — che l’attacco preventivo si sarebbe trasformato rapidamente in conflitto con la rappresaglia iraniana. La notte delle città accesa dai traccianti e dalle esplosioni, le fiamme sui grattacieli di Tel Aviv, i boati nelle strade…
«In ogni generazione si levano contro di noi per distruggerci», recitano i bambini e i genitori alla cena che apre la Pasqua ebraica. Una visione che Netanyahu ha ereditato più cupa dal padre Benzion, studioso per tutta la sua lunga vita (è morto a 102 anni) dell’inquisizione e delle persecuzioni contro gli ebrei. Il primo ministro ha scelto di forzare la mano all’amico Donald Trump (o almeno di allontanarne quella che cercava di trattenerlo per la giacca) e di forzare i tempi per fermare l’orologio che in una piazza di Teheran tiene il conto da qui al 2040, data massima fissata dagli ayatollah per la distruzione di Israele.
L’offensiva contro il regime islamico segue «la dottrina Begin». Eppure Netanyahu sembra superarla e voler applicare a tutte le relazioni, anche interne al Paese, il motto pubblicato su una copertina che Time gli dedicò: «Chi è forte sopravvive». Per lui la vittoria contro Hamas deve essere «totale», nonostante i terroristi fondamentalisti siano stati decimati e non siano considerati più in grado di commettere mattanze come il 7 ottobre 2023, 1.200 israeliani uccisi. Deve andare avanti la guerra che non finisce mentre i palestinesi ammazzati a Gaza superano i 55 mila e la popolazione affamata rischia ogni giorno la vita per accaparrarsi uno dei pasti distribuiti da un gruppo americano, nel caos organizzativo previsto dalle Nazioni Unite ormai escluse dagli aiuti umanitari.
Per lui anche le «concessioni» possono trasformarsi in una minaccia esistenziale: da qui il suo no a uno Stato palestinese, la volontà di rioccupare i 363 chilometri della Striscia e pure di tenersi una volta per tutte la Cisgiordania. Un espansionismo che, anche quando non è territoriale, vuole proiettare forza e ostinazione. Un espansionismo che — avvertiva già nel 1967 lo scrittore Amos Oz — sarebbe diventato «eterna annessione». E in questi due anni guerra permanente.