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L'esordio da solista di Mobrici: "Non cerco le canzoni, sono loro che cercano me"

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AGI – Non poteva esserci esordio solista migliore per Mobrici, non solo perché questo suo “Anche le scimmie cadono dagli alberi”, elogio all’imperfezione umana di matrice giapponese, è un bellissimo disco, ma perché l’ei fu Canova di suo non ci mette solo cognome e faccia in copertina, fuori, ma, dentro, tutta una condensa di dubbi, incertezze, paure, disavventure, il proprio passato, il futuro che vorrebbe e la forma dell’amore che desidera.

Tutto il se stesso del quale dispone insomma, ogni singolo angoletto di umanità, utilizzando una poesia che ti annienta, ti imbambola, ti obbliga alla riflessione. Anche a te è successo quello che è successo a lui, anche tu hai incontrato quella persona, poi l’hai abbandonata per strada e ora non sai più nemmeno dove sta, anche tu hai amato, hai sofferto, hai fatto l’amore senza amore, stando dall’una o dall’altra parte della barricata; e allora capisci che Mobrici in realtà non canta l’amore, ma usa l’amore come mezzo per raccontare se stesso e la propria esistenza, che lo utilizza come unità di misura, come metafora, nemmeno tanto velata, per provare a spiegare i meccanismi di questo motore che ci spinge come palline impazzite da un lato all’altro della vita, rimbalzandoci addosso con un senso che non capiremo mai.

Si sente che il disco è scritto con una forte urgenza di raccontare certe cose, da dove nasce questa urgenza?

Queste canzoni, come le altre pubblicate in passato, non sono figlie della ricerca di una canzone, non sono figlie di session, ma sono io che vengo quasi chiamato dal pianoforte che ho a casa o dalle chitarre per scrivere qualcosa. Quindi sono tutte figlie di un’urgenza, sia quelle leggere che quelle più pesanti. Io le scrivo così le canzoni, non conosco altri metodi per indirizzare la creazione di un brano. E mi piace pensarla così, nel senso che mi piace che la mia qualità più grande forse è quella di non ricercare le canzoni ma farmi cercare dalle canzoni.

Ad una discografia che premia rapper duri e puri tu rispondi con un album di canzoni d’amore…

Si. Io non so bene cosa facciano gli altri e come vivano questa cosa della musica, io più a nudo di così, come ho fatto in questo album, non mi sono mai messo (e ho intenzione di continuare a farlo). C’è il mio faccione in copertina, c’è il mio cognome, non sono più nascosto dietro una band o un nome d’arte, c’è la mia vita e non saprei fare in altro modo.

Poi io ovviamente le mie debolezze, anche sentimentali, tendo a mostrarle piuttosto che nasconderle; in “Il cantautore”, che è la prima canzone del disco, io sono a letto con una ragazza, non sono nemmeno sicuro di quanti anni abbia, e il messaggio è: “Guardate che non sono figo, sono uno sfigato, sono un quasi un poveretto”, non è una natura da tirare in alto. Puro si, ma duro non sempre.

Il fatto di metterci per la prima volta appunto faccia e cognome, ti fa sentire di avere le spalle un po’ meno coperte?

No, perché in questo momento me la sto vivendo con molta serenità, anzi sono molto felice che queste canzoni abbiano una faccia in un certo senso. Poi la mia protezione sono i miei brani, io so che in questo album ci sono delle canzoni che mi porterò dietro per i prossimi anni quindi ne sono orgoglioso. Queste canzoni poi sono frutto di una scelta in mezzo ad altre, non sono le uniche che ho scritto, quindi sono proprio mirate, non ci sono misunderstanding, il mio carattere è così: posso essere l’ultimo dei ca….ni come quello più pesante su ‘sta Terra, quindi questa tracklist rappresenta tutte le sfumature del mio carattere.

Ma scrivere canzoni d’amore aiuta più a celebrare quelle storie o ad esorcizzarle?

Io non penso che le canzoni possano mettere un punto nella vita di nessuno, nel mio caso sono delle canzoni che ho scritto, che mi piacciono, e le pubblico. Ma no, non penso che le canzoni possano esorcizzare una storia passata, anzi in un certo senso, come le opere d’arte, le tengono in vita per sempre, sono storie d’amore che non sono mai finite. Anche una “20100”, che narra della fine di un rapporto sentimentale, comunque fa in modo che questa storia stia continuando in un certo senso, che non sia mai finita.

Mi racconti la genesi di “Povero cuore”? Si tratta di un dialogo, è come se ti servisse una voce quasi paterna, quella di Brunori in questo caso…

Si, è proprio così. Penso che sia la prima canzone in vita mia che scrivo per me, la dedico al mio cuore, è la prima che in un certo senso scrivo per curarmi. Solo che quando l’ho scritta non avevo trovato una cura, la sentivo incompleta, quindi mi è venuto in mente Dario, che è stato così perfetto, non ho avuto bisogno di spiegargli la canzone, no, gli ho mandato il pezzo con questa parte vuota, dove andava il suo cantato e gli ho detto: “Senti che ti dice ‘sto pezzo e prova a cantarci qualcosa”.

Lui dopo una settimana mi ha mandato indietro il brano ed io ho detto “Ok, ho trovato il senso di questa canzone”. Lui è riuscito in pieno a fare il fratello maggiore, l’amico, il musicista più grande di me, a fare tutto quello che poteva, per me non è un’operazione discografica e non poteva riuscire meglio.

Nel disco c’è anche un confronto diretto con il tuo mestiere, come dicevi prima, è come se ti presentassi nudo al pubblico in questo senso…

Quando scrivo una canzone non penso a chi la ascolterà, a quando la pubblicherò…io scrivo una canzone perché la scrivo, così come faccio da quando ho 15 anni. Ora che ho la fortuna di vivere di questo, di svegliarmi la mattina e pensare solo a questo, arriva un momento che uno ne scrive talmente tante che posso permettermi di decidere quelle che mi piacciono di più per pubblicarle. Però io poi non sto a pensare a cambiare il testo “perché poi mi si sgama troppo che sono sfigato” oppure che, tipo in “Anna meraviglia”, “questa storia è finita quindi cambio il nome”…no, per me non c’è una differenza tra la scrittura e la pubblicazione di una canzone. Non so se gli altri fanno come faccio io ma non trovo un altro metodo migliore per fare quello che faccio. Anche perché visto che io me la vivo con molta fortuna, me la godo in totale libertà e totale schiettezza, perché altrimenti non riuscirei nemmeno a guardarmi allo specchio e farei una vita da cani.

È un po’ questo il segreto: l’autenticità di quello che scrivi…

Spero di si, io non conosco altri metodi e non riuscirei a farlo. Altri magari ci riescono ma io non riuscirei a cantare di un personaggio a caso, inventato; tutte le persone che ci sono in queste canzoni, compreso me, sono vere, hanno dei nomi e cognomi, vivono dei luoghi, hanno un certo modo di vestire, i loro gusti musicali…per me è un ripercorrere la propria vita.

A proposito di tuo mestiere: ti sei fatto in questi due anni un’idea della considerazione che le istituzioni hanno di te come lavoratore? Ci sei rimasto male quando Conte si è riferito agli artisti come “Quelli che ci fanno tanto divertire”?

No, perché io non penso di far divertire! (E ride). Io non sono permaloso, per me un Conte o qualsiasi altro può chiamarmi “menestrello” così come “lavoratore dello spettacolo”, può chiamarmi come vuole, a me non cambia niente sinceramente. Più che altro quello che può cambiare non è l’offesa ma è la percezione che può avere la società del mio lavoro, però non è una grande scoperta credo. Forse è anche meglio che politica e musica restino due cose separate, ma non la cultura, la cultura è una cosa della quale la politica si deve occupare. Però se la musica nella cultura italiana conta poco dobbiamo anche porci due domande, dobbiamo chiederci se questa musica che noi proponiamo è culturalmente di livello, altrimenti non possiamo lamentarci.

Source: agi


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