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La liberazione dei campi di concentramento

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78 anni fa gli alleati liberarono i campi di Buchenwald, Dachau e Bergen-Belsen, e l’Occidente ne vide per la prima volta foto e video

 

Nella metà di aprile del 1945, durante la loro vittoriosa avanzata in Germania, gli eserciti degli Alleati occidentali, Stati Uniti, Regno Unito e Canada, si trovarono di fronte ai primi campi di concentramento nazisti che avessero mai incontrato. Ci trovarono decine di migliaia di persone, chiuse dietro reticolati di filo spinato, smagrite, malate. Cataste di morti per fame e malattie, ridotti a poco più di scheletri coperti di pelle, giacevano in fosse comuni o accatastati in mucchi tra le baracche dei campi.

Anche se l’Armata Rossa dell’Unione Sovietica aveva liberato nei mesi precedenti i grandi campi di concentramento e di sterminio dell’Europa Orientale, la censura sovietica non aveva dato grande risalto alla notizia. Così, le foto dei campi di concentramento scattate dai militari americani e britannici, e le descrizioni che ne fecero i giornalisti al seguito degli eserciti, furono i primi racconti con cui l’opinione pubblica mondiale poté farsi un’idea di quale fosse l’entità dei crimini commessi dal regime nazista.

I campi di concentramento
I campi che gli Alleati occidentali si trovarono a liberare mentre avanzavano dalla Francia furono Buchenwald, liberato dagli americani l’11 aprile, Bergen-Belsen, liberato dai britannici il 15 aprile, e poi Dora-Mittelbau, Flossenbürg, Dachau, e Mauthausen, in Austria.

Erano campi di concentramento, o Konzentrationslager, secondo il gergo della burocrazia tedesca: luoghi dove rinchiudere, rieducare e obbligare ai lavori forzati prigionieri politici e di guerra e, più tardi, gli ebrei. I primi campi di concentramento vennero costruiti nel 1933, subito dopo l’ascesa al potere di Adolf Hitler, con lo scopo di imprigionare decine di migliaia di militanti e attivisti dei partiti politici nemici del nazismo: socialdemocratici e comunisti. Prima della guerra, il picco di prigionieri detenuti arrivò a 45 mila.

 

Con lo scoppio del conflitto e le prime rapide vittorie dell’esercito tedesco, i campi di concentramento videro accrescere notevolmente il loro ruolo. Milioni di prigionieri di guerra, soprattutto russi e polacchi, furono internati; la stessa sorte toccò a milioni di ebrei che vivevano nei territori occupati (questi ultimi furono rinchiusi e sterminati soprattutto in Polonia, mentre i campi sul suolo tedesco venivano utilizzati in genere per i prigionieri politici e di guerra).

Nella definizione ufficiale, i campi avevano lo scopo di raccogliere elementi pericolosi e indesiderabili, rieducarli e sottoporli a lavori forzati. In pratica, i prigionieri erano sottoposti a un regime di “sterminio tramite lavori forzati”, in cui milioni morirono per una combinazione di mancanza di igiene e cibo, fatica fisica, esperimenti pseudo-scientifici e per le angherie subite dalle guardie dei campi.

Questi campi di concentramento erano classificati in modo diverso e operavano con differenti modalità rispetto ai veri e propri campi di sterminio, anche se i risultati erano molto simili. Questi ultimi erano tutti situati in Polonia e in Europa orientale, e avevano come unico scopo il genocidio della popolazione ebraica e rom.

Nei campi di sterminio i prigionieri non venivano sottoposti ai lavori forzati o a procedure di rieducazione, ma venivano condotti immediatamente nelle camere a gas appena discesi dai treni. In questi campi, come Bełżec, Sobibór, Treblinka e Birkenau (il campo di sterminio che faceva parte del più vasto campo di concentramento di Auschwitz) furono uccisi circa 3 milioni di persone. I nazisti cercarono di smantellare gran parte di questi campi, ma diversi furono conquistati intatti dall’Armata Rossa nel 1944.

 

La liberazione
I sovietici non fecero una grande pubblicità alla scoperta dei campi di sterminio e di concentramento che trovarono in Polonia. Il dittatore russo Josef Stalin era concentrato nel mettere fine alla guerra nel più breve tempo possibile, occupando allo stesso tempo la maggiore quantità di territorio. Non aveva interesse a sottolineare in maniera particolare lo sterminio di ebrei e polacchi: cosa che, tra l’altro, ai suoi occhi rischiava di mettere in ombra le grandi sofferenze patite dal popolo russo. Nel primo articolo sulla liberazione del campo di Auschwitz, pubblicato sulla Pravda il 2 febbraio, non si parlava di ebrei ma soltanto di generiche “vittime del fascismo”.

Le prime fotografie e i primi articoli che descrivevano gli orrori dei campi nazisti arrivarono tre mesi dopo, quando nei campi di concentramento situati in Germania arrivarono gli americani e i britannici. Il primo a essere liberato, l’11 aprile, fu il campo Buchenwald, nella Bassa Sassonia.

Quando i prigionieri capirono che i tedeschi si preparavano a evacuarli per impedire agli alleati di liberarli, inviarono un segnale d’aiuto con una radio che erano riusciti a nascondere in una delle baracche. Con loro enorme sorpresa, al messaggio rispose il quartier generale della III Armata americana, guidata dal generale George Patton, che fece scrivere loro che un gruppo di soccorso era in arrivo.

I prigionieri, quasi tutti ex soldati, iniziarono una rivolta contro le poche guardie rimaste e riuscirono a impossessarsi del campo poco prima dell’arrivo degli americani (il campo, pieno di prigionieri politici, aveva un’estesa struttura politica e militare clandestina al suo interno, formata quasi completamente da socialdemocratici e comunisti).

 

Tra i primi a visitare il campo e i suoi 20 mila prigionieri superstiti, il 12 aprile, ci fu il giornalista americano Edward Murrow, che ne lasciò una descrizione radiofonica entrata nella storia del giornalismo:

Voglio dirvi che cosa avreste potuto vedere e udire se foste stati con me giovedì: non sarà gradevole da ascoltare. Se state mangiando, o se non avete voglia di sentire ciò che hanno fatto i tedeschi, ora è il momento buono per spegnere la radio – perché ho intenzione di raccontarvi di Buchenwald. […] Chiedo di vedere una delle baracche. Era occupata da cecoslovacchi. Quando entro gli uomini mi si affollano intorno, cercando di issarmi sulle spalle. Sono troppo deboli. Molti non riescono ad uscire dai letti. Mi si dice che l’edificio ospitava un tempo 80 cavalli. Dentro ci sono 1.200 uomini, cinque per cuccetta. La puzza è indescrivibile. […]

Chiedo quanti uomini fossero morti in quel fabbricato nell’ultimo mese. Chiamano un medico. Guardiamo il suo archivio. Solo dei nomi in un libricino nero – niente di più – nulla riguardo a chi fossero, da dove venisse ciascuno, che cosa avesse fatto o sperato. Accanto ai nomi dei morti una croce. Le ho contate: un totale di 242 – 242 su 1.200, in un mese. Mentre cammino verso il fondo della baracca, c’è un applauso degli uomini troppo deboli per uscire dai letti. Sembrava un battimano di bambini. Erano così deboli. […] Mentre usciamo nel cortile un uomo cade a terra morto. Altri due, avranno oltre 60 anni, si trascinano verso la latrina. L’ho vista, ma non la descriverò.

A Bergen-Belsen, dove il 15 aprile arrivarono i soldati britannici, la situazione era ancora peggiore. In tutto il campo i soldati trovarono 60 mila prigionieri, la maggior parte a un passo dalla morte o gravemente malati. Nei primi mesi dell’anno il campo era stato colpito da un’epidemia di tifo che aveva causato la morte di 35 mila prigionieri. Intorno al campo, i britannici trovarono più di diecimila corpi lasciati insepolti. Le fotografie e i filmati che ritraevano cataste di corpi e i bulldozer utilizzati per spingerli nelle fosse comuni divennero una delle prime e più simboliche immagini delle atrocità commesse dai nazisti e, prima di essere sostituito da Auschwitz, il nome Belsen divenne l’emblema di tutti i campi di concentramento e di sterminio.

 

FONTE@ILPOST.IT