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Istanbul nel post pandemia tra crisi economica, taxi introvabili e migranti

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AGI – Ci ha messo pochissimo Istanbul a svegliarsi dall’incubo della pandemia. Una città che nel lontano passato ha vissuto decine di assedi e che negli ultimi anni è passata attraverso attentati, un tentativo di colpo di stato e arrivi di massa di profughi si può dire abbia sviluppato nei secoli una sorta di indifferenza alle vicende umane.

Qualunque cosa accada, il Bosforo continua ad affascinare con continui cambi di colore e uno skyline che, in ogni caso, offre l’eleganza e la bellezza di Santa Sofia, del palazzo Topkapi e della moschea Blu, dove le acque del mar Nero incrociano il ponte di Galata e il Corno d’Oro.

Il lockdown dello scorso aprile, 22 giorni di fila, il più lungo in un Paese che ha reagito al virus secondo un modello proprio, ha lasciato il ricordo di un silenzio inedito, di un’aria pura come mai prima e di acque cristalline dove pesci, delfini e aironi apparivano in prossimità di rive dove di solito ci sono cartacce e sporcizia.

Un inedito appunto, perché una città la cui popolazione è un mistero, ufficialmente 16 milioni, ma sicuramente più di 20, ci ha messo un secondo a tornare al solito caos.

Riaperti bar, ristoranti e caffetterie a giugno, sono cadute le ultime limitazioni e anche il divieto di musica dal vivo e ad alto volume dopo mezzanotte, che aveva fatto infuriare gli artisti contro il presidente Erdogan, ha tenuto per poco e la città vive e va avanti nonostante la media di 26 mila casi giornalieri (e più di 200 morti) dell’ultimo mese, in un Paese di 83 milioni di abitanti.

Il sistema sanitario ha retto bene, una popolazione dalla età media bassa (31,5 anni) ha sicuramente reso meno drammatico l’impatto del virus, la campagna vaccinale è partita a rilento per poi assumere un ritmo simile a quello dell’Italia e delle chiusure e restrizioni dei mesi scorsi sono rimaste solo le mascherine nei mezzi pubblici, non sempre, ma quasi.

Per capire cosa e come sia cambiata in quest’ultimo anno e mezzo la vita in questa metropoli eterna è necessario scendere nelle strade, nei mercati e tra la gente di un Paese già in difficoltà economica, ma che con il virus ha ricevuto un colpo quasi mortale.

L’inflazione all’inizio della pandemia era scesa sotto il 10%, ora le previsioni per la fine dell’anno dicono 18,34% e l’aumento dei prezzi è stato del 2% nel corso degli ultimi due mesi e mezzo, del 17,38 durante tutta la pandemia.

“Nella mia famiglia con il suo solo stipendio mio padre ha fatto studiare due figli, entrambi laureati. Ora con un lavoro all’università si fa fatica ad andare avanti e mettere su famiglia è fuori discussione”, afferma una docente associata presso l’università Kultur di Istanbul che preferisce non essere citata.

“Lo stipendio non basta più, facendo lezioni provate non possiamo alzare i prezzi perché perdiamo solo studenti, però mi stupisco ogni volta che vado alla cassa del supermercato, il conto diventa sempre più salato”, dice Ilker Erkul professore di inglese di scuole medie che per arrotondare da lezioni private.

I prezzi si alzano, il potere d’acquisto crolla e anche solo pensare di andare all’estero in vacanza è una chimera perché “solo il costo del biglietto vale piu’dello stipendio”

La pandemia ha infatti colpito duramente il turismo, uno dei settori chiave dell’economia turca, del cui Pil costituisce il 13% netto e di cui rappresenta la principale riserva di valuta straniera.

“La stagione turistica? Diciamo così così, ci hanno salvato russi e arabi perché da Eruropa e Usa non è arrivato praticamente nessuno e i sudamericani spendono poco”, un commerciante che da 30 anni vende tappeti nell’Aras Bazar, alle spalle della Moschea Blu, incassando i consenso dei suoi impiegati incuriositi dalla mia presenza, prima che la discussione diventi politica.

Il principale indiziato per l’aumento dell’inflazione è infatti il presidente Recep Tayyip Erdogan, che ha imposto ripetutamente e con scarsi frutti negli ultimi anni il taglio dei tassi di interesse, convinto, seppur smentito, che questi ultimi e inflazione vadano di pari passo.

Alla credibilità monetaria della Turchia non ha inoltre sicuramente giovato il fatto che lo stesso Erdogan ha cambiato direttore della Banca Centrale 3 volte in 48 mesi.

Lo shock più grande del post pandemia riguarda però la crisi dei taxi. È  sempre più difficile trovarne liberi e lo scontro tra la Associazione dei tassisti e il comune guidato dal sindaco di opposizione Ekrem Imamoglu ha assunto toni a dir poco aspri e politici, considerando che prima di questo sindaco per 25 anni la città è stata governata dall’Akp di Erdogan.

All’origine del problema il fatto che il numero di licenze sia rimasto lo stesso nonostante la popolazione sia raddoppiata in 30 anni. Popolazione che in molti quartieri nel post pandemia preferisce i taxi ai mezzi pubblici, il cui servizio non ha ripreso a pieno regime. Una crisi che testimonia come in una metropoli anche piccoli cambiamenti possono avere conseguenze tangibili.

I tassisti non sono proprietari delle auto, ma subaffittano le 17.395 licenze a cooperative di autisti. Queste ultime contano su forti agganci politici, che hanno permesso di fare pressioni che hanno portato al divieto di operare per Uber, su cui è in corso un procedimento giudiziario.

Ora il comune vorrebbe aumentare il numero di licenze immettendone altre sei mila e riformare il sistema con una nuova compagnia legata alla municipalità.

Una scelta che ha creato un conflitto accesissimo con i tassisti, che vedrebbero svalutate le proprie licenze, il cui valore è di circa 250 mila euro e per questo hanno protestato bloccando alcune aree della città nelle scorse settimane.

Il risultato è stato il peggioramento del traffico, aumento dei tempi di percorrenza e incertezza sul fatto di riuscire a trovare un taxi libero, impresa quasi impossibile nelle ore centrali della giornata.

Un’altra faccia di Istanbul è quella dei migranti, siriani e afghani che rendono la Turchia il Paese con il più alto numero di rifugiati al mondo.

Questione di prospettive, ma per chi è fuggito dalla guerra, come i 550 mila siriani di Istanbul, o ha parenti e amici di nuovo sotto il giogo dei talebani in Afghanistan, il covid è un problema di secondo piano.

“Saremo sempre grati alla Turchia che ci ha dato una seconda vita. Il covid? Ci hanno vaccinati e chi lo ha avuto è stato curato..tutto gratis”, dice Mohammed, siriano impiegato nella pasticceria Salloura, un importante marchio di Aleppo, oggi punto di ritrovo dei siriani di Istanbul.

Un’altra delle tante facce di questa città tornata con non poca strafottenza a vivere dopo la paura della pandemia è il nuovo Palazzo dell’Opera, che Erdogan ha voluto sorgesse sulle macerie del centro culturale Ataturk, di cui conserva il nome, nella centralissima piazza Taksim.

L’inaugurazione si è svolta il 29 ottobre, giorno in cui la Turchia festeggia l’anniversario della nascita della Repubblica con l’opera Sinan, che racconta la vita dell’architetto he mise la firma più di tutti nella grandeur ottomana.

Ad Agi il direttore artistico Murat Karahan ha espresso tutto il suo entusiasmo per un evento che va oltre i problemi economici enormi del Paese .

“È un giorno storico, non solo per Istanbul e per la Turchia, ma per tutto il mondo della lirica. Torna a vivere un edificio simbolo rimasto chiuso 13 anni, un nuovo teatro che è un gioiello tecnologico, tra i più importanti al mondo”.

Anche questa è Istanbul del post pandemia.

Source: agiestero


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