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Giorgio Agamben

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Giorgio Agamben è un filosofo italiano, tra le figure di maggior spicco del panorama intellettuale contemporaneo. Noto soprattutto per le sue ricerche legate al ciclo di Homo sacer, è tra i filosofi italiani più tradotti e studiati all’estero. Si è occupato a lungo, oltre che di biopolitica, del rapporto tra poesia e filosofia.

 

Vita

 

Giorgio Agamben nasce a Roma il 22 aprile del 1942 e si laurea in giurisprudenza nel 1965. La sua tesi, rimasta inedita, riguarda un tema molto particolare per una laurea in giurisprudenza: il pensiero politico di Simone Weil. Agamben rimane infatti colpito da un libro dell’autrice francese, La persona e il sacro. Come il filosofo italiano dirà poi nel corso di una intervista (2016), forse «la critica del diritto, che non ho mai abbandonato a partire dal primo volume di Homo sacer, ha nel saggio della Weil la sua prima radice».

In quegli stessi anni frequenta assiduamente alcuni noti intellettuali come Pier Paolo Pasolini (per il quale interpreta l’apostolo Filippo nel film Il vangelo secondo Matteo), Elsa Morante, Ingeborg Bachmann.

Tra il 1966 e il 1968 ha l’occasione di approfondire il suo confronto con l’opera di Martin Heidegger partecipando a un ciclo di seminari su Eraclito e Hegel promossi proprio dal filosofo tedesco, a Le Thor. Nel 1974 si trasferisce a Pargi, insegnando alla Université Haute-Bretagne. Qui ha modo di frequentare Pierre Klossowski, Italo Calvino e Guy Debord. Specialmente con quest’ultimo, Agamben inizierà un confronto mai esaurito, e l’eredità del pensiero di Debord avrà risonanze anche nell’ultimo libro del ciclo Homo sacer, ovvero L’uso dei corpi. Tra gli intellettuali con cui Agamben è a contatto vanno citati anche Jean-Luc Nancy, Jacques Derrida, Antonio Negri e Jean-François Lyotard. Attraverso Italo Calvino conosce Frances Yates, per interessamento del quale conduce, nel periodo 1974-1975, un lavoro di ricerca presso la biblioteca del Warburg Institute di Londra.

Nel 1978 torna in Italia. Dirige per Einaudi l’edizione italiana delle opere complete di Walter Benjamin, autore che studia a fondo e del quale dirà: «Benjamin è stato, per me, [l’] antidoto che mi ha consentito di sopravvivere a Heidegger» (Agamben 1999). Il lavoro editoriale lo impegnerà fino al 1996. Nel 1981 Agamben scopre, negli archivi della Bibliothèque Nationale de France, alcuni manoscritti inediti di Benjamin, manoscritti che il filosofo tedesco aveva lasciato a Georges Bataille nel momento in cui si trovò a dover lasciare Parigi.

Tra il 1986 e il 1993 è Directeur de Programme presso il Collège International de Philosophie di Parigi, e quasi nello stesso periodo, tra il 1988 e il 1992, è professore associato di estetica presso l’Università di Macerata. Dal 1993 al 2003 insegna estetica all’Università di Verona, mentre dal 2003, e fino al pensionamento, insegna presso la Facoltà di Design e Arti (IUAV) di Venezia. Gli anni Novanta rappresentano un momento particolare all’interno della biografia intellettuale di Agamben, momento in cui inizia il suo serrato confronto con Michel Foucault e il concetto di biopolitica. Inizia a lavorare al ciclo Homo sacer.

Dal 1994 è regolarmente Visiting Professor presso alcune università americane, e nel 2003 viene nominato Distinguished Professor presso la New York University. Abbandona quest’ultimo incarico nel corso dello stesso anno, in segno di protesta contro le misure anti-terrorismo degli Stati Uniti. La sospensione di alcune libertà personali e le politiche di detenzione e tortura vengono da Agamben comprensibilmente deplorate, ma non solo. Egli vi vede un esempio particolarmente nitido di ciò che le sue ricerche sulla sacertà e lo stato di eccezione avevano via via messo in chiaro.

Recentemente hanno attirato molta attenzione le sue posizioni sulla gestione della pandemia mondiale di Covid-19. Attraverso una varietà di brevi scritti, per lo più contenuti nella rubrica che tiene per la casa editrice Quodlibet (Una voce), Agamben ha sostenuto che le politiche di controllo e di distanziamento sociale messe in campo dai più vari paesi sono sintomo eclatante di quel che egli ha cercato di chiarire con le sue ricerche sulla sacertà e lo stato di eccezione, e che si tratta di misure del tutto sproporzionate alla gravità della situazione. Inoltre, Agamben cerca di mettere a fuoco le conseguenze sociali della ricerca della mera sopravvivenza, della nuda vita. In Chiarimenti, ad esempio, scrive:

È evidente che gli italiani sono disposti a sacrificare praticamente tutto, le condizioni normali di vita, i rapporti sociali, il lavoro, perfino le amicizie, gli affetti e le convinzioni religiose e politiche al pericolo di ammalarsi. La nuda vita – e la paura di perderla – non è qualcosa che unisce gli uomini, ma li acceca e separa. […] Che cosa diventano i rapporti umani in un paese che si abitua a vivere in questo modo non si sa per quanto tempo? E che cosa è una società che non ha altro valore che la sopravvivenza?

 

Opere e scritti principali

 

L’uomo senza contenuto (1970) – Per noi contemporanei è normale pensare al museo come lo spazio dell’arte. È l’esposizione a rendere opera un’opera. Ma questa dimensione, per noi consueta, ha delle origini storiche e delle conseguenze sociali. Nietzsche nota infatti come Kant, trovando il carattere più proprio del giudizio estetico nel suo essere disinteressato, abbia sancito il passaggio da una considerazione artistica centrata sul produttore dell’opera a una che ruota invece attorno allo spettatore; colui che fruisce, non colui che produce e inventa. Una delle conseguenze di questa “musealizzazione” dell’opera creativa è stata la rottura insanabile tra noi e la nostra tradizione, la quale non può più funzionare come bacino di nuove possibilità di vita, di nuovi contenuti, gettando così le società contemporanee nel nichilismo.

 

Stanze. La parola e il fantasma nella cultura occidentale (1977) – Agamben conduce qui una ricostruzione della teoria del “fantasma” nella filosofia medievale, fino ad arrivare a Dante e allo Stilnovo. Un fantasma è una immagine di desiderio: l’idea della persona amata, l’idea di sé, l’idea di Dio. L’oggetto di desiderio, essendo una costruzione fantastica, non è mai raggiungibile e non è mai stato davvero posseduto, ma in quanto ci appare come una realtà possiamo pensare di raggiungerlo o provare sofferenza per la sua perdita. È questo quadro che consente ad Agamben di legare la teoria del fantasma a passioni quali la malinconia, l’accidia, il lutto. Passioni, queste, che sono però ambivalenti: oltre a pesare sull’anima, possono funzionare come veri e propri motori di nuovi pensieri e azioni.

 

Infanzia e storia. Distruzione dell’esperienza e origine della storia (1978) – Viene qui sviluppato il tentativo di rintracciare le ragioni della contemporanea povertà dell’esperienza. La metropoli è il luogo in cui l’esperienza, intesa come il situarsi del soggetto nella storia, è venuta meno a causa di un continuo ripetersi di piccoli eventi. L’impossibilità dell’esperienza colloca la persona in una situazione infantile. L’infanzia non è infatti un momento oramai passato, momento in cui ancora non la persona non parlava (in-fans, muto, che non può parlare). Essa è un evento originario logicamente primitivo del linguaggio stesso, dell’esperienza stessa. Il concetto di origine non è, insomma, da inserirsi nel tempo. La ripetitività del rito e del gioco stanno a testimoniare questa piena attualità dell’origine.

 

Il linguaggio e la morte. Un seminario sul luogo della negatività (1982) – Il libro, frutto di un seminario e dunque di un lavoro collettivo, riparte da Heidegger e dal suo Da-sein (esser-ci). Il ruolo di quel Da (“ci”) è marcare un segno vuoto, che non significa nulla se non l’aver luogo dell’atto di parola, la sua collocazione spazio-temporale. Questo “aver luogo” è qualcosa che va tolto perché il linguaggio, con i suoi significati, si sviluppi, ed è dunque una negatività. Agamben ritiene sia necessario trovare una esperienza di parola che possa riuscire a non supporre questo negativo, e la rintraccia nella poesia.

 

Idea della prosa (1985) – Qua viene approfondita la ricerca sull’esperienza poetica, a partire dalla ricerca di una distinzione strutturale tra prosa e poesia. La poesia è segnata da una particolare sconnessione che segna la perfezione del movimento poetico nel suo complesso, e il luogo di questa esperienza è per Agamben l’enjambement. Esso «esibisce una non-coincidenza e una sconnessione fra elemento metrico e elemento sintattico, fra ritmo sonoro e senso».

 

La comunità che viene (1990) – Il libro si colloca all’interno di un dibattito sulla Comunità Europea, sulle sue possibili forme. Agamben parte dalle basi, domandandosi chi sono coloro che abitano la comunità a venire. Essi non sono individui, con la loro definita e compiuta identità, né i membri di un popolo che conferirebbe loro un minimo comun denominatore. Attraverso una analisi del concetto di paradigma (esempio), Agamben propone: l’essere che viene è l’essere qualunque. Un essere che non derivi la sua singolarità dalla indifferenza verso una proprietà comune, ma che sia solo tal qual è. «Con ciò, la singolarità si scioglie dal falso dilemma che obbliga la conoscenza a scegliere fra l’ineffabilità dell’individuo e l’intelligibilità dell’universale».

 

Bartleby, la formula della creazione (1993) – Il libro contiene, oltre a uno scritto di Agamben, uno di Gilles Deleuze. Quello che i due autori tentano di fare è di capire quale tipo di rappresentante della comunità a venire possa celarsi nel personaggio di Bartleby, lo scrivano di Herman Melville, il quale a ogni richiesta di scrivere risponde solo che “preferisce di no”. Agamben legge in queste parole la formula della potenza pura, di una potenza in grado di destituire ogni opera.

 

Mezzi senza fine. Note sulla politica (1996) – Si tratta di un testo che non è ufficilamente compreso all’interno del ciclo Homo sacer, ma che in realtà ne rappresenta un tassello. Il libro contiene, come da titolo, delle note, che cercano di pensare alcuni problemi della politica contemporanea. I luoghi in cui vengono rintracciati non sono tradizionalmente considerati come “politici”: la vita naturale degli uomini, lo stato di eccezione come figura del diritto, il campo di concentramento, il rifugiato (che spezza il nesso tra uomo e cittadino), il linguaggio, la sfera dei puri mezzi come sfera propria della politica.

 

Il tempo che resta. Un commento alla lettera ai romani (2000) – Il volume è un commento alla Lettera ai Romani di Paolo di Tarso. Ciò che interessa all’apostolo, scrive Agamben, non è “la fine del tempo” ma “il tempo della fine”. Il tempo “che resta”, che per i profeti stava come un che di futuro, è in Paolo soltanto presente. Un presente in cui la legge messianica è oramai la legge della fede, e non semplicemente la negazione delle leggi stesse; un presente in cui dimora la disgiunzione tra potere costituente e potere costituito.

 

L’aperto. L’uomo e l’animale (2002) – In questo libro Agamben si mette in cerca di quel dispositivo che è stato capace di dividere l’uomo in due sfere: da un lato la sua animalità, dall’altro la sua umanità. Sembra che l’essere umano non riesca a definire se stesso se non tagliandosi in due, vivendo poi la sua esistenza seconda una certa riarticolazione di queste separate dimensioni. L’autore cerca di proporre una strada per evitare questa empasse, provando a rintracciare una vita umana unitaria.

 

Pensiero

 

Le ricerche di Agamben si configurano come un tentativo di ripresa tanto delle indagini archeologiche di Michel Foucault quanto di quelle ontologiche di Martin Heidegger. Accogliendo la teoria foucaultiana del biopotere Agamben ha cercato di mettere a fuoco quale possa essere, oggi, una vita felice; una vita che, consapevole della presa dei dispositivi di potere sul corpo, riesca a situarsi in una zona d’indistinzione tra il mero biologico dei sapiens e le istituzioni che li dispongono a precise modalità di azione. Nei suoi termini: una vita che riesca a stanziare nella zona di transito tra la zoê (una vita umana semplicemente tale, ancora non qualificata) e il bíos (una esistenza umana culturalmente qualificata).

Il tema, nelle sue linee generali, rappresenta il punto centrale di una qualsivoglia teoria delle istituzioni. Di una teoria delle istituzioni che, non pretendendo collocare queste ultime al di fuori dei corpi (come nel più volgare contrattualismo, o nelle elaborazioni del potere come esclusivamente statale), cerchi di comprendere quali siano i margini di azione degli individui all’interno del processo che li rende, da vita biologica, vita culturalmente qualificata. La via scelta da Agamben è quella di cercare di pensare una “forma-di-vita”, ovvero una esistenza biologica che però non sia più in niente disgiungibile dalla sua forma storica. È questo il punto d’onore, in ogni senso cruciale, almeno dell’intero ciclo “Homo sacer”, avviato nel 1995 con Homo sacer e concluso (“abbandonato”, come dice l’autore) nel 2014 con L’uso dei corpi.

 

Di Marco Valisano Fonte: libercensor.net/