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Si fa presto a dire pazzia

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Al Brancati di Catania l’ultima pièce di Antonio Grosso sui paradossi della follia e con un finale a sorpresa
La pazzia come violenza inferta e subita in una sorta di bolgia dove l’innocenza e la serenità sono patrimonio dei malati di mente e dove l’irrazionale e la malvagità si radicano soprattutto nei cosiddetti sani. Un apparente paradosso che incontra il suo humus ideale nel contesto della seconda guerra mondiale ed esprime il suo tragico epilogo nei crimini dell’antisemitismo. Questo il perimetro di Una Compagnia di Pazzi, pièce teatrale scritta e diretta da Antonio Grosso e rappresentata sul palcoscenico del teatro Brancati di Catania.
In essa, due infermieri gestiscono un manicomio quasi del tutto dismesso, in un paesino ai confini con l’Emilia Romagna, Al suo interno sono ospitati solo tre pazienti con evidenti segni di disagio, ma accomunati da una disarmante semplicità e da una infantile innocenza. In ognuno di essi un irrefrenabile anelito di libertà, conculcata però da vicende ambientali e storiche. Il rapporto fra infermieri e malati assume fin dalla prima scena una dimensione inusuale, prevalendo l’affetto e la confidenzialità sull’autorità e sul distacco professionale.
L’armonia fra i cinque viene turbata delle frequenti irruzioni del direttore del nosocomio, uomo cinico e controverso, con una spiccata propensione alla violenza e, anche lui, con qualche vulnus occulto. Ed è la rappresentazione scenica di queste figure, anche per il fascino esercitato da talune manifestazioni della pazzia, a occupare buona parte della pièce, commuovendo, ma anche suscitando qualche fugace sorriso. L’attrattiva della rappresentazione è dovuta anche a questo sapiente intreccio fra grevità e leggerezza, alternate con solida competenza dei meccanismi dello spettacolo.
Finale a sorpresa, con tanto di svolta palesemente engagé, in perfetta sintonia con lo spirito di tutto il testo, che da questa virata trae anzi forza e credibilità.
Nella Compagnia di pazzi, nessuno svolazzo filosofico. Niente Freud, niente Pirandello e neppure Cervantes. La pazzia rappresentata è quella di interesse psichiatrico, drammaticamente vera, dolorosa per chi la vive, così come per coloro che assistono alle sue manifestazioni. Essa si riversa sugli spettatori in tutta la sua tragicità, culminante talora in episodi di deprecabile sadismo. Persino quel tanto di comico che traspare da alcuni atteggiamenti dei malati di mente affoga nel dolore e colpisce come un pugno allo stomaco di quelli che tolgono il fiato e fanno piegare in due. In definitiva, un testo forte, che fa anche riflettere sul nostro passato e lascia il segno a lungo, dopo avere abbandonato la sala.
Superba la performance degli attori che hanno dato volto e voce alle relative figure. Assieme ad Antonio Grosso (autore e regista), Antonello Pascale,.Rocco Piciulo, Gioele Rotini, Gaspare Di Stefano, Adriano Aiello. Azzeccata la scenografia, che ha offerto effetti scenici eleganti e funzionali.
“Una Compagnia di Pazzi – dice Antonio Grosso – è uno spettacolo di dolore e speranza. E di resistenza e melanconia. Uno spettacolo che ricorda, che celebra l’importanza della memoria”. La dedica dell’autore, alla fine dello spettacolo per i martiri della resistenza civile dell’Iran non arriva a caso.

di Alfio Chiarello