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Polonia e Ungheria frenano il successo di Meloni sui migranti

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Simone Canettieri

Da un lato le parole, dall’altro lato i fatti. Da un lato le urla, dall’altro la mediazione. Da un lato gli slogan, dall’altro la responsabilità. La settimana politica che si avvia verso la conclusione ci ha mostrato due volti di Giorgia Meloni che non potrebbero essere l’uno più distante dall’altro ma che sorprendentemente sono diventati ormai parte della stessa medaglia politica. Tema: è possibile mettere insieme, nelle stesse ore, il massimo del populismo con il massimo del pragmatismo? La risposta è nelle conclusioni del più importante Consiglio europeo a cui la premier italiana ha partecipato dall’inizio del suo mandato. Un Consiglio europeo, quello di ieri, in cui per la prima volta la solidità della grande alleanza tra i sovranisti europei è stata smentita proprio dalla leader che, in teoria, doveva incarnare il sogno della riscossa sovranista in Europa. E invece, come sapete, ieri le contraddizioni tra i nazionalisti sono esplose in modo drastico, perentorio, deciso. E non su un tema come un altro ma su quello che negli ultimi anni aveva permesso ai sovranisti europei di alimentare il brodo di coltura dell’anti europeismo: l’immigrazione. Cosa ha fatto Meloni? Semplice. Ha scelto, per la delusione somma dei gruppi editoriali e dei gruppi politici che avevano scommesso tutto sull’orbanizzazione dell’italia, di schierare il nostro paese contro, udite udite, l’ungheria e contro, udite udite, la Polonia. Su un pacchetto pesante: quello relativo alle nuove regole sull’immigrazione. Regole approvate ieri dal Consiglio europeo, che al di là dei tecnicismi stabiliscono un principio nuovo: la solidarietà obbligatoria nei confronti dei paesi di primo ingresso. Che cosa significa? Significa che gli stati membri sono costretti a scegliere tra due opzioni: accogliere i richiedenti asilo attraverso i ricollocamenti oppure pagare un contributo finanziario di 20 mila euro a migrante.
Meloni non parla con Orbán e Morawiecki solo perché fanno (o facevano?) parte della stessa parrocchia ed è la presidente dei Conservatori. Anche, certo. Ha il mandato largo del Charles Michel, presidente del Consiglio europeo. Come finirà si sa. Per via della mancata unanimità nelle conclusioni, l’immigrazione scompare: sia nella dimensione esterna, su cui sono tutti d’accordo, sia su quella interna. Il capitolo che scotta sarà sostituito da una dichiarazione di Michel. Non rimane che andare avanti con gli punti. L’italia rivendica, sotto il capitolo delle relazioni esterne, l’impegno per la Tunisia, ma c’è anche l’attenzione alla demografia. E però l’elefante è nella stanza. Lei di qua, loro di là. Alle 14 tutto finisce. E Meloni parla nel doorstep, al piano terra del Palazzo che sta per lasciare con tutta la delegazione al seguito. Parla, prende tutte le domande. Si presenta davanti al “mischione” di microfoni e telecamere con le mani giunte roteando i pollici in maniera vorticosa. Ha il compito di difendere Polonia e Ungheria senza sminuire la sua scelta di campo. Dice che “non è delusa”. Che le motivazioni di chi si è opposto e ha bloccato le conclusioni “non sono peregrine”. Spiega – ei pollici smaltati di rosso vanno velocissimi – che non c’è niente di strano “nel difendere gli interessi nazionali”. Non rinnega, ma non restaura. “Finché noi cerchiamo soluzioni su come gestire i migranti quando arrivano sul territorio europeo non troveremo mai unanimità, bisogna partire dalla dimensione esterna”. E’ comunque uno scenario inedito. Non solo perché nelle pieghe di questo cortocircuito sovranista si consuma una collocazione diversa dell’italia. Questo strappo scuote anche il Ppe, l’alleato a cui guarda la leader di Fratelli d’italia con sempre maggiore attenzione. Fonti del partito Popolare provano a strapparla dal cono d’ombra dell’ecr con dichiarazioni non proprio all’acqua di rose. La definiscono “incastrata” con degli alleati Ue che “stanno distruggendo tutti i progressi che ha fatto in tema di migrazione”. E’ il vertice politicamente più delicato da quando Meloni guida il governo. “I problemi in casa sono il peggior tipo di problema”, commentano dal gruppo dei popolari alludendo alla mediazione tentata da Meloni con il primo ministro polacco Mateusz Morawiecki con cui condivide la presenza in Ecr, il partito dei Conservatori e Riformisti europei. Proprio il primo ministro polacco la saluta con una dichiarazione che sa di sberleffo: “Auguro a Giorgia buona fortuna con questo patto sui migranti”. Il liberale olandese Mark Rutte le viene incontr, le tira su il morale. E spiega che “non è la fine del mondo”. Perché, anche senza conclusioni, “tutto ciò che sta progredendo sui migranti al momento continuerà”. Insomma, immaginare una scena simile qualche mese fa sarebbe stata fantascienza. Invece è tutto è vero. Ecco forse perché di mattina, lasciando l’hotel Amigo dopo un incontro con Scholz e Macron, la presidente del Consiglio scherza: “Ma ci sono i Red Hot Chili Peppers e noi stiamo andando al Consiglio europeo?”.
Meloni durante il punto stampa dissimula, allarga il punto di vista, non presta mai il fianco a questa anomalia che si è appena consumata. E che apre scenari interessanti, o forse no, in vista delle Europee (prima ci sono le politiche in Polonia fra due mesi e mezzo). Può un leader conservatore, come quello polacco, andare contro l’indicazione della presidente della sua famiglia politica in virtù dell’interesse nazionale? Non è tutto un controsenso? “Assolutamente no. E comunque il mio lavoro di mediazione continua”, ribadisce Meloni che si è messa in testa di prendere per mano le “giovani democrazie dell’est”, come ama chiamarle. Mercoledì sarà a Varsavia per un seminario dell’ecr proprio in casa dell’amico che non l’ha ascoltata. La premier risponde all’ultima domanda di una giornalista inglese. Saluta e scatta verso sinistra, poi si ricorda che deve andare a destra. Il tacco della scarpa destra si piega. Prende una storta. Poi si rimette in equilibrio. Il senso della giornata è tutto qui, forse.

Fonte: Il Foglio