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OOPArts: la batteria, o pila, di Baghdad, una cella galvanica antesignana di Alessandro Volta o una bufala?

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La batteria di Baghdad, come qualsiasi oggetto composto da due metalli differenti, può funzionare da rudimentale pila se immerso in una soluzione acidula, composta ad esempio da aceto o succo di limone, in questo modo la corrente generata è minima

OOPArt è l’acronimo inglese di Out Of Place ARTifacts, “manufatti, o reperti, fuori posto“. Il termine fu coniato dal naturalista e criptozoologo americano Ivan Sanderson per indicare una categoria di oggetti che sembrerebbero avere una difficile collocazione nel momento storico cui sembrano corrispondere.

Vengono classificati come OOPArts tutti quei reperti archeologici e paleontologici che, secondo comuni convinzioni riguardo al passato, si suppone non sarebbero potuti esistere nell’epoca a cui si riferiscono le stime iniziali.

Questi ritrovamenti hanno dato vita a un filone complottista detto “archeologia misteriosa” e, nel tempo, gli OOPArts sono stati presi come prova per supportare bizzarre teorie ufologiche e/o creazioniste ma anche come prova di supposti viaggiatori temporali e quant’altro.

Secondo gli “esperti” di OOPArts, alcuni di questi oggetti metterebbero in crisi le teorie scientifiche e le conoscenze storiche consolidate. Tuttavia, solo in rari casi, tali affermazioni hanno un qualche effettivo sostegno scientifico.

Solitamente, alla luce di scoperte successive, gli oggetti trovano una corretta collocazione nell’epoca di fabbricazione e, molto spesso, molti finiscono per rivelarsi come mere contraffazioni senza che alcuna conoscenza dei fatti storici possa essere messa in discussione.

La Batteria, o pila, di Baghdad

Cosi è chiamato un oggetto probabilmente scoperto nel 1936 nel villaggio di Khuyut Rabbou’a, nei pressi di Baghdad, in Iraq. Il manufatto venne poi rinvenuto, in un mucchio di reperti depositati in uno scantinato, nel 1938, da Wilhelm König, del Museo Nazionale dell’Iraq che lo notò e ci scrisse su un libretto ipotizzando che potesse trattarsi di una cella galvanica primitiva, forse utilizzata per placcare con una sottile patina d’oro alcuni manufatti d’argento.

Se questa ipotesi fosse corretta, la batteria di Baghdad anticiperebbe l’invenzione di Alessandro Volta della cella elettrochimica di circa 1800 anni.
Ma i Parti avevano inventato la pila che König datò nel periodo tra il 250 aC e il 224 dC ? Siamo innanzi a un OOPArts?

E’ difficile capire se effettivamente ci troviamo davanti ad una batteria. Secondo St. John Simpson la pila avrebbe una datazione più recente essendo un esempio di ceramica Sassanide, riconducibile a un periodo di tempo tra il 224 e il 640 dC.

Molti esperimenti hanno provato a dimostrare le capacità elettriche di questo artefatto.
La batteria di Baghdad, come qualsiasi oggetto composto da due metalli differenti, può funzionare da rudimentale pila se immerso in una soluzione acidula, composta ad esempio da aceto o succo di limone, in questo modo la corrente generata è minima.

Non è possibile ottenere una corrente di intensità ragionevole, e far sì che la pila funzioni più di qualche minuto quando i due metalli sono rame e ferro, a meno di non usare soluzioni acide sconosciute all’epoca.

In una pila, la corrente viene generata tramite due reazioni differenti che avvengono vicino ai due elettrodi, tra questi e opportune sostanze disciolte nel liquido in cui sono immersi. Sono stati proposti vari tipi di elettroliti, basati su sostanze conosciute al tempo della “pila” ma, essendo l’oggetto trovato da König un cilindro chiuso ermeticamente, avrebbe potuto funzionare al massimo per pochi minuti.

Candidati più promettenti sono alcuni oggetti simili trovati in Seleucia.
W.F.M. Gray ha provato ad utilizzarli con solfato di rame e la pila, in questo modo, riesce a funzionare per un breve tempo, finché l’elettrodo di ferro non viene ricoperto da uno strato di rame. Jansen e altri ricercatori hanno usato benzochinone, una sostanza che si trova nelle secrezioni di alcuni centopiedi, mescolato con aceto. Tutti questi processi non funzionano granché in quanto manca nella batteria di Baghdad qualcosa che separi gli elettroliti che reagiscono con i due elettrodi.

Comunque la possibilità, lontana, che l’oggetto fosse una rudimentale batteria esiste e non è al di fuori delle possibilità tecniche del tempo.

Sono stati provati altri esperimenti per capire se il manufatto possa essere utilizzato come batteria. Nel 1980 nella serie televisiva “il misterioso mondo di Arthur C. Clarke”, l’egittologo Arne Eggebrecht creò una cella voltaica utilizzando un vaso riempito di succo d’uva, ottenendo la produzione di mezzo volt di energia elettrica e dimostrando di poter placcare d’argento una statuetta in due ore, utilizzando una soluzione di oro e cianuro.

Tuttavia, molti dubbi sono recentemente nati sulla validità di questi esperimenti.

Su Discovery Channel, nel programma MythBusters, sono state costruite repliche delle giare per capire se fosse possibile utilizzarle per la galvanotecnica; dieci vasi di terracotta sono stati usati come delle batterie e del succo di limone è stato scelto come elettrolita per attivare la reazione elettrochimica tra il rame e il ferro. Collegati in serie, hanno effettivamente agito da batterie producendo 4 volt di energia elettrica.

La teoria della pila galvanica per placcare gli oggetti non gode di particolare stima oggi, infatti, come asserisce Paul Craddock del British Museum, “Gli esempi che vediamo da questa regione e periodo sono dorature convenzionali e dorature a mercurio. Non c’è mai stata alcuna prova a sostegno della teoria galvanica“.

Anche la prova citata da König nel suo testo, ovvero che ancora oggi gli artigiani di Baghdad usino una particolare tecnica di doratura galvanica, è stata esclusa in quanto la tecnica usata in Iraq è molto simile a quella utilizzata nel secolo scorso in Inghilterra, paese colonizzatore, ed è comunque molto differente dall’elettrochimica presente nella pila in quanto contiene zinco, molto più ossidabile del ferro, e sali di cianuro, sconosciuti in epoca antica.

L’asfalto che copre il “vaso” lo isola totalmente tanto che bisogna modificare l’oggetto per far si che gli elettroni possano circolare; inoltre avrebbe bisogno anche di una manutenzione costante per funzionare. L’archeologo Ken Feder fa notare come il manufatto non possieda fili esterni conduttori che possano indicare collegamenti tra i vasi per il loro uso.

In molti hanno notato la somiglianza tra il manufatto ed i contenitori usati per trasportare i rotoli sacri nella vicina Seleucisa presso il fiume Tigri.

Insomma, l’oggetto potrebbe essere una pila solo nel caso in cui venisse forzato a esserlo.

I soli metalli chiusi in una giara non bastano e non abbiamo nessun altro indizio che ci indichi che in quel tempo conoscessero l’elettricità, magari per usarla a scopi mistico – rituali o per impressionare il popolo.

Fosse stato così avremo certamente avuto qualche indizio in più.

 

Fonte:  Reccom Magazine