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La disabilità e la scuola ai tempi del covid.

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Di Ettore Minniti
Parlare di disabilità e di scuola al tempo del Covid19, in un periodo difficile e confuso per tutti noi, appare impresa difficile.

La scuola, dopo il DPCM del 3 novembre 2020, ha dato la possibilità alle famiglie degli alunni disabili di poter frequentare in presenza, decisione che personalmente condivido, nonostante le polemiche scaturite dal decreto, perché si è parlato di classi differenziate, ma la soluzione per questi alunni non poteva, altrimenti, che essere una: la solitudine, in quanto impossibilitati a seguire la DAD (didattica a distanza).

L’esigenza maggiore è garantire, nonostante tutto, inclusione, partecipazione e, per quanto possibile, socializzazione. Questo è un punto dolente per i docenti,  l’inclusione e la socializzazione per questi ragazzi è fondamentale; per molti di loro l’unico ricordo che resterà nella vita non è sicuramente la capacità di scrivere o leggere, vista la gravità della loro situazione, ma l’esperienza di sentirsi parte di un gruppo, di avere un amico o un’amica, la possibilità di emozionarsi grazie a un contatto, di sentirsi accettati ed importanti per qualcuno.

Tra i tanti episodi segnalati quello di un ragazzo gravissimo, che tutti i giorni gironzola per i corridoi della scuola alla ricerca dei suoi compagni, è disorientato, a volte impaurito, e anche se non si esprime perché non è vocale, lo  si comprende bene dallo sguardo, dai movimenti, dallo stato di agitazione.

L’adolescenza, infatti, è per molti un periodo cruciale dove si inizia a sperimentare una nuova autonomia rispetto alla famiglia, dove avvengono cambiamenti affettivi e si sperimenta l’appartenenza al gruppo, per gli adolescenti con disabilità, a cui sono negati già in partenza diversi approcci, l’unica possibilità e occasione sono rappresentati dallo spazio ‘scuola’, dalle attività extrascolastiche, dalle relazioni sociali paritarie, risulta pertanto evidente che per gli adolescenti questo momento può essere particolarmente arduo soprattutto se a causa della loro disabilità hanno difficoltà nelle relazioni sociali. I ragazzi sono costretti a non andare a scuola, a non seguire le terapie, le attività come la piscina, la palestra, il tennis, o tutte le riabilitazioni necessarie che riempiono le loro giornate e che creano la routine quotidiana del soggetto disabile. Questa routine è per loro vitale, motivo di socializzazione, di condivisione, di inclusione e di divertimento.

La persona con disabilità comprende con difficoltà quanto sta accadendo, vive nell’immediatezza degli stimoli, spesso non ha attese, e spiegare perché si è costretti a cambiare abitudini, routine, forse anche comportamenti, è uno sforzo per le famiglie e i loro figli maggiore delle loro aspettative e capacità! E imbattersi nella gestione di emozioni, impulsi e istinti richiede uno sforzo quasi sovrumano! La nuova situazione emersa è il senso di solitudine e di isolamento, il disorientamento e la confusione, l’impossibilità di stare con le persone significative ha fatto emergere ansia, paura, rabbia e tristezza alternati a fiducia, gioia e serenità, l’impossibilità di contatto umano ha inaridito specialmente gli alunni con disabilità, perché vivono di emozioni.

La scuola è l’unico servizio non sanitario presente in modo importante nella vita dei disabili e delle loro famiglie, con finalità di socializzazione e specificamente con la possibilità di una vera inclusione del disabile in un contesto sociale più ampio di quello familiare.

Essa è il luogo che non guarda a casi da studiare bensì a individui umani da aiutare a realizzarsi nella loro irripetibile singolarità. La scuola non vende saperi, piuttosto ha la funzione di un «regista», un allestitore, uno scenografo di spazi, di tempi, di azioni che permettono l’emergere di nuove forme della conoscenza motivando il desiderio permanente di crescere e di rinnovarsi. Progettare un contesto rassicurante affinché tutti raggiungano il massimo livello di autoconsapevolezza attraverso la pianificazione dell’offerta formativa e la possibilità di ulteriori itinerari di apprendimento per lo sviluppo di un’intelligenza modulare e un pensiero laterale. Progettare un percorso rassicurante per stimolare competenze trasversali e collegare saperi, dare loro un senso e garantire uno spazio abituale di vita volto all’eccellenza: questo è la scuola.

Il personale docente e quello di sostegno vive la quotidianità, le gioie, le problematiche, le sofferenze e i dilemmi dei ragazzi e delle loro famiglie in questa situazione.

Sappiamo che la didattica a distanza (DAD) è stata messa in campo dall’urgenza di un lockdown,  nello scorrere del tempo si sono evidenziati i limiti, ma, credo, anche, gli elementi di risorsa e potenzialità. I dati riportati dal MIUR riferiscono che i bambini o ragazzi con disabilità abbandonati dal sistema scolastico sono stati circa 284 mila, per incompetenza di alcuni docenti, ma ciò è anche dovuto alle difficoltà delle famiglie che nella maggior parte dei casi non sono in possesso della tecnologia adeguata. Il 70% non ha partecipato nemmeno alla didattica a distanza, più della metà di bambini e ragazzi portatori di disabilità sono rimasti isolati, privi di ogni connessione, spesso mettendo in gravi difficoltà le famiglie. Sono stati, dunque, particolarmente penalizzati, perché privati dell’incontro quotidiano con i compagni ed esclusi da ogni stimolo culturale e didattico.

I dati riferiscono che molti studenti sono regrediti nel periodo trascorso a casa, e questa regressione è ancora più incisiva nel caso degli studenti disabili perché si sono trovati a un certo punto, senza la scuola, senza quel luogo rassicurante e sociale, ma anche senza tutte le terapie per loro fondamentali e importanti, costretti a trascorrere il tempo dentro le mura domestiche con genitori che si improvvisano tra l’essere insegnanti e terapeuti, con grande fatica e difficoltà.

Una docente, con una lunga esperienza nel settore, ci racconta:  “Noi docenti a scuola lo abbiamo vissuto durante il lockdown, dopo lo stesso e continuiamo a viverlo: i nostri alunni speciali, ragazzi desiderosi e contenti in assoluto di ritornare a scuola, per incontrare i compagni, gli insegnanti, gli assistenti, il personale della scuola e vivere la scuola, anche solo come edificio, è tutto quello che è loro familiare, e che lo era fino a poco tempo fa, dove si muovevano liberamente, dove sono conosciuti da tutti, salutati e chiamati per nome da tutti, dove l’ambiente è “sicuro”.

La ragazza che seguo,  i primi giorni in cui la sua classe era in DAD,  rifiutava l’idea di essere sola a scuola. Alla fine ho risolto facendola collegare con il tablet alla classe virtuale in modo che potesse salutare i compagni e i professori e stabilire un contatto con loro, anche se virtuale.

Anche se non riesce ad esternare i suoi sentimenti, io la capisco perfettamente perché, io stessa, appena supero l’ingresso della scuola, provo un immenso  senso di solitudine dovuto a non sentire il vocio dei ragazzi davanti al cancello prima del suono della campana, non trovare i colleghi in sala docenti che si confrontano sul da farsi durante la giornata, il vedere la classe vuota.

Non sentire il suono della campana mi disorienta, perdo il senso del tempo perché il suono scandisce le ore, dà loro un valore, segna le attività di lavoro quotidiano e le attività ricreative”.

Nell’attesa che tutti gli alunni  possano ritornare in classe in presenza, il dirigente, il personale ATA, i tecnici e le altre figure presenti nella scuola si sostengono a vicenda, dal sorriso di primo mattino alla condivisione di un caffè: è il calore umano che colma tempi e spazi vuoti.

Senza sociale non si può gestire l’handicap” (Umberto Galimberti, I miti del nostro tempo, 2009).


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