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Morto Riva: ‘rombo di tuono’ del Cagliari e della Nazionale

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Una media di oltre un gol ogni due partite, uno dei calciatori italiani più forti di sempre. E sul campo di pallone due grandi amori: il Cagliari e la Nazionale. Se ne va Gigi Riva, il sardo (d’adozione) più famoso nel mondo, il cui cuore ballerino non ha retto più. Classe 1944, nativo di Leggiuno, comune del Varesotto con meno di quattromila anime, “Rombo di tuono”, come lo soprannominò Gianni Brera, ha sempre preferito i fatti alle chiacchiere, trascinando a suon di reti (21) il Cagliari di Scopigno allo storico scudetto della stagione 1969-1970 e contribuendo in maniera decisiva alla vittoria degli Europei 1968 con la Nazionale, con la cui maglia detiene ancora oggi il record, difficilmente battibile nei tempi moderni, di 35 reti in 42 partite ufficiali (ad una media realizzativa di 0,83). Centottanta centimetri per 78 chilogrammi, potenza unita alla classe per una miscela unica nel suo genere, Riva occupava la 74esima posizione nella speciale classifica dei migliori calciatori del XX secolo stilata dalla rivista “World Soccer” e doveva molto della sua fama proprio ai colori rossoblù, ai quali era così legato da aver assunto anche la presidenza del club per pochi mesi, nella stagione 1986-1987, per poi essere nominato presidente onorario a fine 2019. Mancino naturale, numero 11 stampato sulla pelle come un tatuaggio, ala sinistra di ruolo adattatosi poi al mestiere di centravanti, Riva iniziò il suo percorso di fuoriclasse nelle giovanili del Laveno Mombello (1960) per poi passare al Legnano (1962), con cui esordì in pratica nel calcio che conta. Il salto, ovviamente, nel Cagliari, con cui militò dal 1963 al 1976, un’intera vita calcistica, bandiera e capitano di un popolo così geograficamente distante dalle sue terre ma assai simile alle sue doti di tenacia e abnegazione. Forse ha solo un rammarico, Riva, guardandosi alle spalle. Non certo il secondo (dietro Rivera) e terzo posto (dietro Muller e Moore) nelle edizioni 1969 e 1970 del Pallone d’Oro, e nemmeno l’aver solo sognato Bologna e Inter, le corazzate dell’epoca, prima dell’approdo in Sardegna, che non volle lasciare nemmeno per le lusinghe della Juventus di Boniperti, ma forse quella piazza d’onore ai Mondiali di Messico 1970. E non solo per la finale persa con il Brasile, ma anche per quelle due reti valide nella sfida con Israele che un guardalinee distratto gli tolse. Dandogli però la rabbia giusta per la doppietta nei quarti ed il gol in quella semifinale storica con la Germania, quella del momentaneo 3-2. Una delle tante prodezze di una vita sempre in prima linea. L’amore per la Nazionale, poi, lo porterà poi a ricoprire il ruolo di team manager dai primi anni Novanta fino al 2013, accompagnando gli azzurri fra trionfi – il Mondiale del 2006 vinto a Berlino – e delusioni, come le due finali perse agli Europei (2000 e 2012) prima di decidere di farsi da parte, dopo essere stato un punto di riferimento per generazioni di campioni. Lo stadio di Cagliari porterà un giorno il suo nome: un modo per rendere immortale chi l’immortalità se l’era però già guadagnata in campo e fuori. (AGI)
RED/CAR