Dal Corriere – Antonio Polito
«Sparire perché rimanga Cristo, farsi piccolo perché Lui sia conosciuto e glorificato». Chi si chiedeva che Papa sarà Prevost ha avuto ieri una prima risposta dalla sua stessa voce. Non è Francesco. Tenderà a sparire. Proseguirà la sua opera, non ne seguirà lo stile.
Le grandi oligarchie, e quella dei cardinali lo è per eccellenza, conoscono solo due modi di procedere nelle loro decisioni: rinnovamento nella continuità, o continuità nel rinnovamento. Francesco rappresentò la prima scelta, Leone la seconda. A chi temeva che la Chiesa del predecessore finisse col mettere troppe cose terrene, tutte giuste e importanti per carità, davanti al «core business» della trascendenza, nella sua prima messa Leone ha chiarito: «Anche oggi non mancano i contesti in cui Gesù, pur apprezzato come uomo, è ridotto solamente a una specie di leader carismatico o di superuomo, e ciò non solo tra i non credenti, ma anche tra molti battezzati, che finiscono così col vivere, a questo livello, in un ateismo di fatto».
A chi temeva invece che il primo Papa americano, eletto neanche due settimane dopo la visita di Trump in Vaticano, fosse un passo indietro, persino una concessione all’arroganza del nuovo potere imperiale, ha dato una risposta sferzante sul piano culturale.
«Anche oggi non sono pochi i contesti — ha detto Leone — in cui alla fede cristiana si preferiscono altre sicurezze, come la tecnologia, il denaro, il successo, il potere, il piacere». In ventiquattr’ore il Conclave ha fatto una scelta che ha sorpreso perfino i cardinali rimasti fuori per limiti di età. Ma in ventiquattr’ore il nuovo Papa sembra aver (ri)fatto già l’unità della Chiesa. Mozzetta rossa e stola ricamata in oro, puntualità liturgica, rispetto delle forme, sono state apprezzate dai conservatori. Il solido legame con Francesco, e la reazione furiosa del mondo «Maga» negli States (Bannon l’ha definito un «marxista convinto»), hanno rassicurato i progressisti. La sua sarà una Chiesa per i cattolici, come voleva Ruini; ma sarà anche una Chiesa missionaria come è stata quella di Bergoglio. D’altra parte, questo agostiniano è il meno statunitense dei cardinali a stelle e strisce, visto che ha vissuto tra Chigago e Chiclayo, la città del Perù dove è stato vescovo per più di vent’anni. Un Papa che viene dal Nord, ma ha fatto il pastore nel Sud del mondo.
La sua scelta sancisce certamente la primazia assoluta che gli Stati Uniti stanno assumendo nel nuovo Occidente, forse anche la crisi dell’egemonia culturale dell’europa; e questo non può che far piacere a Trump. Gli farà meno piacere, a lui che si sogna con la tiara, essere affiancato da un altro cittadino americano sul proscenio del mondo: sarà difficile dargli addosso, alla prima divergenza, come nemico dell’america.
Il collegio che l’ha eletto ha giudicato Prevost un uomo libero. Registrato più volte come elettore repubblicano nell’illinois, sui suoi social abbondano le critiche aperte alla nuova destra trumpiana. E tra i cardinali gira voce che nel 2016 si iscrisse alle liste elettorali per votare alle primarie un repubblicano che non fosse The Donald.
L’opzione a stelle e strisce è stata certamente anche un atto di realpolitik: le donazioni dalle diocesi e dai benefattori americani saranno certamente più generose di quelle che sarebbero arrivate, per dire, dalle Filippine. Ma è anche la conferma di una proiezione universale. Ammettiamolo: una Chiesa guidata dal capo della Curia romana o dal capo dei vescovi italiani, a prescindere dalle loro qualità personali, sarebbe sembrata in ritirata dopo un pontefice argentino. Si può anzi dire che aver guidato su richiesta di Francesco il Dicastero per i vescovi, che è un po’ l’equivalente dell’«ufficio quadri» della Chiesa, gli ha dato un radicamento «global» risultato decisivo per l’elezione.
Nel cordoglio di questi giorni, sono emersi infatti anche i limiti del pontificato di Francesco nella gestione degli affari ecclesiastici. Un uso dell’autorità spesso personale e talvolta ai limiti dell’arbitrario, seppure giustificato da una forte esigenza di cambiamento e sorretto da una grande simpatia umana, hanno acceso una spia che spiega in parte anche l’ottima accoglienza ricevuta dal nuovo Papa. Sulla Loggia delle Benedizioni ha usato un aggettivo, «sinodale», che a noi laici dice poco, ma è un riferimento esplicito a una gestione collegiale, in cui la Curia non governa per usare il potere, ma viene però usata per governare. «Non è un Papa che deve fare tutto lui», aveva detto prima del Conclave il cardinale Filoni: in molti sperano che metta un po’ d’ordine nei tanti dossier lasciati aperti dall’irruenza di Bergoglio.
Ma attenzione: tutti questi attributi di equilibrio riconosciuti a Leone XIV non sono la profezia di un papato di compromesso. Mettere la barra al centro non è segno di codardia per la Chiesa. Quello vale solo nel club dei macho-men che comandano la politica globale dei nostri giorni, e che infatti ci stanno portando sull’orlo di un baratro. Non sarà facile per il nuovo Papa alzare, come ha promesso, la bandiera di una «pace disarmata e disarmante». Ma qualcuno, in questo mondo di matti, ci deve pur provare.