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La “vexata quaestio” delle armi all’Ucraina

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L’Ucraina è stata ingiustamente e pesantemente aggredita dalla Federazione russa di Putin, ma l’invocata “via maestra della diplomazia come soluzione dei conflitti” non si percorre fornendo armi ed equipaggiamenti militari ad uno dei Paesi in guerra, bensì assumendo chiare, concrete e apprezzabili posizioni di equilibrata intermediazione conciliativa. Atteggiamento reiteratamente portato  avanti dall’inascoltato Papa Francesco

di Augusto Lucchese

Fermo restando il massimo rispetto per le argomentazioni che ciascuno ritiene di apportare al dialogo concernente la controversa questione degli aiuti militari italiani alla sofferente Ucraina, ingiustamente e pesantemente aggredita dalla Federazione russa di Putin, ritengo che la “vexata quaestio” sia da attenzionare da una ben diversa angolazione rispetto a quella disinvoltamente portata avanti da taluni settori politici, istituzionali e informativi.

In relazione a ciò mi permetto dissentire dalla ufficiale impostazione data allo scottante argomento di che trattasi, con specifico riferimento alla controversa interpretazione dell’art. 11 della Costituzione che testualmente recita “l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà altrui e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”.

In forza di tale lapalissiana norma costituzionale, l’Italia non dovrebbe mai assumere posizioni di sfida verso altre Nazioni e le FF.AA. italiane in nessun caso dovrebbero perseguire livelli, dimensioni e caratteristiche offensive (cosa invece che, da parecchi anni a questa parte, sta avvenendo con molta disinvoltura, almeno per quanto riguarda Aviazione e Marina) pur nel rispetto formale e sostanziale dei trattati difensivi in atto vigenti.

Checché se ne voglia dire circa le forzate motivazioni addotte per giustificare la fornitura di armi ad un Paese in guerra – armi peraltro utilizzabili contro una Nazione di fatto non nemica dell’Italia – sembra che non rimanga altro da fare che prendere atto dei seri dubbi da più parte sollevati sulla decisione assunta dal Governo italiano (in ossequio all’orientamento NATO o statunitense?) in piena propria responsabilità collegiale, pur se formalmente ratificata dal Parlamento.

Al momento in cui da parte delle massime autorità istituzionali si afferma, con apparente convinzione, che la fornitura di armi all’Ucraina è la strada giusta “per giungere alla pace”, si commette un abuso in termini, specie perché si disattende sfacciatamente la seconda parte del citato articolo 11, nella misura in cui esso afferma, altresì, di ripudiare la guerra “come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”.

La fornitura di armi, inequivocabilmente, non può non essere considerata un atto di palese contributo all’incremento e all’allungamento di una guerra spietata e ingiusta. Senza dire che, in forza di più o meno valide argomentazioni, essa viene presentata, da parte avversa, alla stregua di un “provocatorio intervento offensivo”.

Detto ciò è meglio precisare che per nessun motivo al mondo si vuole, o solo si pensa, di condividere la sfacciata e strumentale utilizzazione, da parte di un certo movimento politico che naviga fra le stelle in cerca di ciambelle di salvataggio elettorale, della errata impostazione di cui sopra. Non si rimedia agli errori dei propri esponenti in seno al Governo impostando e portando avanti un plateale plagio.

La invocata “via maestra della diplomazia come soluzione dei conflitti” non si percorre fornendo armi ed equipaggiamenti militari (specie se già “scarseggianti” nei magazzini di casa) ad uno dei Paesi in guerra, bensì assumendo chiare, concrete e apprezzabili posizioni di equilibrata intermediazione conciliativa, non improntata, ovviamente, a partigianeria per una o per l’altra delle parti in causa.

Tale, fra l’altro, è il preciso, categorico e inequivocabilmente umanitario atteggiamento reiteratamente portato  avanti dall’inascoltato Papa Francesco.

Il Governo italiano, nel recente e dirompente caso del conflitto Russia-Ucraina, non ha saputo o voluto assumere (per ventilata subalternità a taluni vincolanti centri decisionali di marca atlantica) una tale indipendente posizione. Con il risultato di subire larvate minacce e di farsi schernire senza attenuanti. A prescindere dalle ovvie conseguenze socio economiche che si stanno subendo e che vanno acuendosi.

Partendo dal presupposto che non esistono diverse tipologie di “guerra”, buona o cattiva, giusta o ingiusta, che dir si voglia in base alle valutazioni di parte fornite da ciascuno dei contendenti, è bene evidenziare a chiare lettere che qualsivoglia conflitto armato è sicuramente nocivo e riprovevole, specie perché coinvolge, di massima, la indifesa e succube popolazione civile, oltre che i gangli vitali e gli indispensabili “servizi” della odierna società più o meno “civilizzata”.

Riportando il discorso al citato art.11 e soffermandosi sull’asserto “come strumento di offesa”, sembra ovvio che esso, più correttamente e coerentemente, andrebbe letto e interpretato – e questo ritengo che era il pensiero dei “Padri e delle Madri costituenti” – né più né meno che alla stregua di una sostanziale puntualizzazione esegetica del perentorio termine “guerra”.

Men che meno può essere addotto come appiglio per giustificare i tanti, svariati e impegnativi impieghi, talvolta in lontani teatri di guerra, di consistenti “reparti organici delle FF.AA”, dotati di armi individuali e di gruppo, oltre che di sofisticati e costosi mezzi, il tutto rispondente a tecniche facilmente inquadrabili fra sistemi operativi aventi caratteristiche “offensive”.

Sono circa 40 (erano 49 sino a poco tempo addietro) le “missioni” che hanno comportano l’impiego fluttuante di circa 7300 uomini (precedentemente hanno raggiunto quota 11.700 circa), in aggiunta ai corposi organici addetti, in Patria, al confacente supporto logistico dei vari contingenti.

In forza di quali “segreti” accordi l’apporto della Italia alle missioni militari internazionali, in relazione alla importanza delle stesse, risulta in ordine di grandezza al 2° posto fra le Nazioni europee partecipanti, solo dopo la Francia e con notevole distacco da Germania, Spagna e altre Nazioni?

Non basta dichiarare a mo’ di paravento giustificativo che trattasi di “operazioni di pace” con precise “regole d’ingaggio”.  Gli oltre 100 morti e le diverse centinaia di feriti e invalidi (con relativi alti costi di risarcimento a carico della comunità) dimostrano che non trattavasi e non trattasi di una gita scolastica. Si è pur sempre impegolati nella impegnativa condivisione di un quadro operativo militare che, come detto, assume spesso caratteristiche di natura “offensiva”, pur se svolto sotto l’egida ONU, NATO o EU.

È risaputo, peraltro, che parecchi insigni giuristi e costituzionalisti, magari confutando taluni “colleghi” che, nella qualità di difensori d’ufficio di certa politica si sono pronunciati in termini diversi, hanno sollevato nel tempo, in chiave chiaramente dubitativa, svariate e fondate perplessità circa la rispondenza costituzionale o meno dell’impiego di contingenti militari italiani all’estero.

Ciò non contrasta, ovviamente, con il sacrosanto diritto alla “difesa” dei confini e del patrimonio territoriale della Nazione, ove effettivamente corressero il rischio di essere oggetto di altrui aggressione.

I trattati internazionali riguardanti taluni altri settori del complicato quadro degli instabili rapporti internazionali, a parte quelli aventi specifici risvolti di natura tecnologica e di uniformità di armamenti, hanno viceversa tutt’altra valenza e ci obbligano ad adempimenti e oneri parecchio gravosi.

L’adesione al “Patto Atlantico” poi “NATO”, che vede l’Italia addirittura fra i Paesi fondatori, riguarda, in particolare, il delicatissimo campo della “solidarietà fra Nazioni” in caso di aggressioni “nemiche”, solidarietà che in ogni caso non dovrebbe mai derogare dalla sostanzialità “difensiva” degli accordi sottoscritti e degli impegni assunti.  Men che meno dovrebbe essere una forma di tacita approvazione e condivisione dell’allargamento a tappeto delle “zone di influenza NATO”, magari in contrasto con pregressi equilibri e intese internazionali.

Ove una Nazione aderente alla NATO, specie se con preponderante incisività in seno ad essa, assume, nei confronti di un qualsivoglia Paese collocato in altri schieramenti o ricadente in diverse aree di influenza, iniziative non concordate o agisce e opera in forza di esclusive determinazioni o di propri interessi economici, magari incentivando tensioni diplomatiche e risposte aggressive (vedi, ad esempio, l’escalation del pericoloso braccio di ferro fra Stati Uniti / Cina – fra Biden / Xi Jinping – circa l’inconsulta visita (19 ore) di Nancy Pelosi a Formosa (Taiwan), una evitabile quanto inutile “provocazione”), non sembra ammissibile che le Nazioni consociate a soli fini difensivi siano “obbligate” ad intervenire in suo favore. Ne andrebbe di mezzo la sovranità dei singoli Stati aderenti.

La solidarietà non significa subordinazione  e tanto meno complicità.