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LA MIA VERITA’ SU FALCONE

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Claudio Martelli racconta in un libro la storia inedita e dolorosa di Giovanni Falcone al tempo in cui non era ancora un mito.

Aldo Torchiaro

Claudio Martelli, allora vicesegretario del PSI, fu ministro della Giustizia dal febbraio 1991 al febbraio 1993. Fu lui a individuare in Giovanni Falcone l’uomo a cui affidare la Direzione Generale degli Affari Penali. In quel periodo Claudio Martelli e Giovanni Falcone lavorarono al progetto di una Superprocura Antimafia. Sulla storia e l’autentica persecuzione del magistrato antimafia, l’allora Guardasigilli ha pubblicato con La Nave di Teseo “Vita e persecuzione di Giovanni Falcone”.
Il dialogo tra lei, Martelli e Falcone fu un dialogo eminentemente politico.
“Politico nel senso che ci rendemmo conto di quale salto di qualità criminale avesse compiuto Cosa nostra, e ci rendemmo conto di come le istituzioni fino ad allora avessero sottovalutato il problema”.
Il rapporto stretto tra Martelli e Falcone diede modo a molti di attaccare entrambi. Perché?
“Avevo capito che il toro andava preso per le corna e individuato in Falcone il miglior interprete della lotta alla mafia. Per questo lo avevo voluto fortemente a capo degli Affari Penali del Ministero. Ed eravamo tutti e due bersagli di feroci attacchi. Ricordo a questo proposito le parole di Borsellino: “La magistratura, che forse ha più colpe di ogni altro, ha cominciato a far morire Falcone…”
Si riferiva alla bocciatura da parte del Csm?
“Non solo. Certo, la bocciatura del Csm pesò molto ma non è ascrivibile a quello l’aver esposto Falcone alla mano armata dei suoi assassini. Ne scrivo nel mio libro a pagina 107…”
Ecco la pagina. “Dopo il verdetto in cui D’Ambrosio telefonò per comunicare l’esito del voto. Coraggio, andrà meglio la prossima volta, nomineremo te”. Parola alle quali Falcone replicò: “Non ci sarà una prossima volta. Hanno ingaggiato una battaglia”.
“Sì, Falcone capì che se il suo avversario
ufficiale era la mafia, quello ufficioso era seduto tra i banchi dei suoi colleghi”. Un mese dopo la morte di Falcone, Borsellino fa una conferenza stampa a Palermo e dice quella frase famosa sulla magistratura che ha bocciato Falcone al Csm. ‘Mi avete crocefisso, mi avete inchiodato come bersaglio. Avete eseguito la sentenza di morte che la mafia ha pronunciato da tempo. La può eseguire adesso perché sa che non mi vogliono neanche i miei’, mise agli atti”.
Ed è andata così?
“Quello che succede a Palazzo di giustizia, la mafia lo sa il minuto dopo. Appena avranno saputo, immagino abbiano brindato a Champagne. Avranno detto: adesso lo facciamo fuori. Era come un generale che tre settimane prima aveva vinto con il maxiprocesso, ottenendo la sentenza di condanna di tutta la cupola mafiosa, e da tutto il mondo viene riconosciuto come giudice antimafia numero uno. Si candida semplicemente per fare il capo dell’Ufficio Istruzione, perché Caponnetto si era dimesso, era stanco e andava sostituito. Falcone in realtà era già da un po’ capo dell’Ufficio istruzione. E quelli, non solo non ratificano questa situazione di fatto ma dopo che Falcone aveva ottenuto il suo successo storico, gli tolgono il comando dell’Ufficio istruzione. Affidandolo a un signore che si chiama Tonino Meli. Un giudice che non aveva mai fatto l’investigatore in vita sua, e apparteneva a quella corrente maggioritaria della magistratura – anche siciliana – che non voleva saperne delle idee di Falcone. E così si torna all’antico, ciascun Procuratore fa la sua indagine come vuole, non c’è più un coordinamento. E quelle Procure che non avevano abbastanza magistrati, Termini Imerese, Gela, se con Falcone erano spinte a concentrare tutto su Palermo, adesso riprendevano ciascuna la propria attività. Magari andando a rilento, con il rischio di perdere pezzi lungo la strada”.
Perché concentrare e non decentrare, per un fatto di mezzi, di uomini?
“Anche per una idea generale, una visione di Cosa nostra diversa. Qualcuno pensava che Cosa nostra fosse un pulviscolo di mandamenti che si potevano affrontare uno per uno. Falcone capì che era una unica organizzazione globale e che c’era bisogno di un’unica centrale di contrasto alla mafia. L’interpretazione che ne ha dato Giovanni Falcone era di una organizzazione unitaria, gerarchica e militarizzata”.
Perché invece voi due vi siete trovati così vicini, così uniti?
“Ero straconvinto, così come Falcone, della grande sottovalutazione della mafia, frutto di una filosofia sbagliata, rinunciataria, rassegnata. Non bisogna rinunciare mai, neanche davanti alle più grandi battaglie. Quando arrivai io al Ministero, l’aria era ferma. “Non bisogna esagerare con la repressione e la mafia non esagererà con la violenza”, si diceva. Io pensavo il contrario, che bisognava riorganizzare tutto e puntare sulla figura di Falcone che si era dimostrato un investigatore formidabile”.
Lei e Craxi eravate consonanti, su Falcone?
“Sì, su tutto e su Falcone sicuramente. Il Psi voleva candidare Falcone alle elezioni della primavera 1992. L’idea nacque in Sicilia, dai nostri compagni siciliani. E la voce iniziò a circolare. Falcone venne da me un po’ turbato, a chiedermene conto. Gli dissi che io lo volevo Procuratore nazionale antimafia, non deputato. Nel suo ruolo avrebbe inferto alla mafia i colpi decisivi che seppe assestare, da parlamentare no. E ci trovammo anche su quello d’accordo”.
La polemica dell’epoca anticipava quella sulla Trattativa che ha interessato, per dirne uno, il generale Mario Mori.
“Lo avevo già scritto dieci anni fa nel mio libro Ricordati di Vivere. L’ipotesi della Tratattiva Stato-mafia ha consentito a persone come Travaglio di costruire una fortuna sul niente. Hanno creato un format su una speculazione suggestiva che non ha né capo, né coda. Se si intende il fatto che qualche ufficiale dei Carabinieri ha trattato con qualche emissario della controparte, certo. Lo ha spiegato Mori, sono accorgimenti che gli investigatori usano con i confidenti, facendo balenare qualche vantaggio e ottenendo in cambio delle informazioni importanti per le indagini”.
In quegli anni nacque il 41 bis, non sarebbe tempo di fargli un tagliando?
“Assolutamente sì. Il 41bis nacque come norma transitoria per sottolineare un passaggio importante della lotta alla mafia. La linea dura, a contrasto delle bombe e della strategia stragista di Cosa nostra. Quando divenne legge ci fu molta polemica, soprattutto da parte del Pci e di alcuni giuristi progressisti tra i quali ricordo Cesare Salvi e Luciano Violante. Si gridò alla soppressione della libertà. Dissi che doveva servire nell’emergenza ed essere rivisto nel tempo. Come molte misure temporanee, divenne definitiva. E con chi? Durante l’ultimo governo Berlusconi, per mano dell’allora Guardasigilli, Angelino Alfano”.
E’ tempo di rivederla, quindi?
“Direi proprio di sì. Perché la lotta alla mafia la stiamo vincendo noi. Grazie al sacrificio di uomini come Giovanni Falcone, magistrato che dovette combattere contro una parte della magistratura”.

Fonte: Il Riformista