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Kissinger: i cento anni del diplomatico del secolo

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di Nicola Graziani

Si faccia avanti, se ne ha il coraggio, chi tra i contemporanei non ha pensato a lui, guardando il Dottor Stranamore discettare di ricostruzione di un nuovo ordine mondiale dopo l’ormai inevitabile Armageddon nucleare: vuoi per l’accento tedesco, che egli mantenne fino all’ultimo, vuoi per il taglio di capelli e la montatura degli occhiali. E invece no: non è Henry Kissinger, il Dottor Stranamore, no. Lo dimostrano due ordini di controdeduzioni: la prima è che il film risale al 1964, e all’epoca Kissinger era un professore di Harvard (prestigio tanto, notorietà poca) che stentava a farsi ascoltare dai democratici alla Casa Bianca. La seconda, poi, attiene al buon gusto, nel senso che a Stranamore a un certo punto scatta l’entusiasmo e prontamente scatta anche il braccio destro, teso come la mano, in un muto Heil prontamente represso. Sarebbe stato troppo, persino offensivo, l’accostamento essendo Kissinger sì tedesco di Fuerth, ma soprattutto ebreo. Un ragazzo di Baviera costretto ad andarsene nel 1938: non si dica altro, è tutto già chiaro.
Henry, che ora compie cent’anni ed è vispo come un fuso, all’epoca si chiamava Heinz Alfred, ma poi cambiò nome e non tornò indietro. Talmente deciso, a non tornare indietro, che se ci fosse ancora Willy Brandt, che pure il nazismo lo aveva combattuto personalmente, potrebbe raccontare come all’apice della gloria ricevesse le delegazioni di Bonn usando, ostentatamente, l’inglese nonostante avesse mantenuto in efficienza la lingua madre. Un conto è la politica, un altro il fatto personale. Lo stesso motivo per cui, accusato nel 1973 di darsi troppo da fare per la fine della Guerra del Kippur, replicò calmo e seccato: “Di olocausti ne ho già visto uno, non ne voglio un secondo”.
Per questo era giunto in America, proprio come un altro connazionale anch’egli ebreo chiamato Hans Morgenthau. Questi fu massimo teorico del realismo nelle relazioni internazionali, ma nei giorni di Yalta e Potsdam suggeriva ugualmente la riduzione dell’economia tedesca al livello di una sinfonia di Beethoven: quello pastorale

La scuola europea arriva in America

Sulle orme di Morgenthau, Kissinger aprì la strada ad una vera e propria scuola – misconosciuta – di segretari di stato americani, quelli di origine europea. La migliore che Washington abbia potuto mettere in campo dopo la Guerra: lui stesso, Zbigniew Brzezinski, Madeleine Albright. Si notino due cose. La prima: nessuno dei tre è un wasp (un ebreo, un cattolico, un’ebrea convertita al cattolicesimo), e sarebbe materiale a sufficienza per una tesi di laurea sulla vita culturale americana. La seconda: tutti e tre provenienti dall’Europa Centrorientale (un tedesco, un polacco, una praghese). Vale a dire quella fetta di Continente fatta di austrie-ungherie, galizie e rutenie subcarpatiche. Voivodine e bessarabie, Imperi universali e pulsioni nazionali intersecati, gli uni e le altre, in un’eterna sfida di pace e di guerra, di cultura e intolleranza, di ammirazione reciproca e mutua ripulsa per cui l’Europa, nel Novecento, alla fine ne uscì squassata. Qualcosa da non ripetere, e su questo Henry Kissinger costruì la sua unità di teoria e prassi.

 Un Metternich alla Casa Bianca
Per capire l’una e l’altra (la prassi talvolta sembrò incomprensibile, ma era una falsa impressione) bisogna andare a Vienna. Al Congresso, non sulla Kartner Strasse. Fu infatti al Congresso di Vienna che Kissinger mosse i primi passi, sebbene all’epoca ancora si appalesasse con il nome di Klemens Lothar, Principe di Metternich. Il quale aveva due scopi dichiarati: impedire il ritorno della Rivoluzione e impedire che si rompesse l’equilibrio tra le potenze, con conseguente abbattimento dell’ordine mondiale. Fin dal suo primo grande libro (alla fine ne avrebbe scritti a decine) Kissinger quell’eredità la fece propria. Basti pensare al titolo: “A World Restored”. La Restaurazione era se non servita, almeno annunciata. L’Europa andava tenuta in pace con l’equilibrio tra le Superpotenze, la Rivoluzione era sempre presente nella sua forma bolscevica. Attenzione, pertanto, a non farsi cogliere addormentati. E se la Polonia sarebbe rimasta divisa, pazienza. E se l’Italia voleva riunificarsi, si rassegnasse. Anche se ad essere divisa adesso era la Germania: peggio per loro. Quanto all’Italia, diremo tra un attimo.

Il corollario della teoria kissingeriana delle relazioni internazionali, infatti, era che gli equilibri non dovessero essere scalfiti e che, in caso di dubbi a riguardo, si potesse intervenire ognuno nel proprio cortile di casa come a Modena dopo la Conferenza di Troppau. Fu così che, in Cile, Salvador Allende fece la fine di Ciro Menotti.  Quanto alla nota Espressione Geografica, si pensi a quel che l’ex professore di Harvard diceva e scriveva di Aldo Moro. Difficile trovare altrove espressioni di altrettanto profonda impazienza, supponenza, persino dileggio intellettuale. I due non si capivano: se c’era qualcosa di alieno al pensiero di Metternich, questa cosa era il Compromesso Storico. Del resto anche Berlinguer aveva il suo bel daffare a spiegare dall’Altra Parte cosa fosse la terza via eurocomunista.

La sfida del Vietnam
Quando giunse finalmente ai piani alti dell’amministrazione americana (Consigliere per la Sicurezza Nazionale, 1969) Kissinger commise l’errore tipico dei professori universitari: credere nella rigida applicazione pratica delle sue teorie. C’era la guerra in Vietnam e Nixon aveva vinto le elezioni promettendo una via d’uscita – se non vittoriosa, almeno onorevole – da quelle fangose risaie. Kissinger lo convinse che sarebbe stato tutta una questione di Linkage, di collegamento di una questione all’altra. Tradotto: cari sovietici, sappiate che una mossa in un settore equivale ad una contromossa in un altro. Mollate Saigon, voi e i vostri scherani nordvietnamiti, e noi vi lasceremo stare, altrimenti ci muoveremo. La Rivoluzione, per tutta risposta, continuò a progredire. Fu qui che Kissinger, e Nixon insieme a lui, ebbe il colpo di genio e fu roba davvero degna di un Metternich. Il Linkage all’incontrario. Cioè: non faccio io una contromossa come azione necessitata di una mossa altrui, ma una mossa che sia necessitante della contromossa avversaria. E questa volta la teoria, perché in realtà di pratica politica vecchia di mill’anni si trattava, funzionò.

Per uscire dal Vietnam c’era bisogno di spiazzare Mosca, e per spiazzare Mosca si presentarono, i due, a Pechino. I russi, presi di sorpresa, sbloccarono le trattative di Parigi e Nixon poté presentarsi alle elezioni del 1972 come quello che aveva rimediato ai guasti di Johnson. McGovern, il povero agnello sacrificale democratico, riuscì a vincere solo in Massachussetts, per il resto furono 49 stati tutti ai repubblicani. Kissinger sarebbe stato ricompensato con un nuovo salto di carriera: Segretario di Stato.
Anche la sua teoria politica ne trasse giovamento. Aveva capito che l’equilibrio tra le potenze lo si mantiene anche con la carota, anzi con il grano: la Distensione con il Cremlino prese la forma di colossali esportazioni di cereali in un’Urss alla fame, anche se non lo si poteva dire. Contenti i bolscevichi, contentissimi i contadini del Midwest. Era il processo di Helsinki, che avrebbe portato anni dopo al 1989.

Un’eredità tradita
Il 1989: fine della Rivoluzione, il trionfo di Metternich che non a caso aveva scritto all’alba di due secoli fa che “Napoleone mi appariva come la Rivoluzione e nella potenza che io dovevo rappresentare vedevo la più sicura custode della pace sociale e dell’equilibrio politico”. E se Metternich aveva in mente l’Austria, il suo Doppelgaenger  novecentesco non poteva che pensare lo stesso dell’America.  Nel frattempo Nixon se n’era andato, colpa del Watergate. Ma lui, Kissinger, era rimasto lì più potente che mai. Ford non era certo un presidente in grado di fargli ombra. Quando dovette lasciare a sua volta la Casa Bianca, Kissinger aveva comunque seminato per il futuro: con tutto che era un robusto democratico, Daniel Patrick Moynihan ne avrebbe trasmesso la lezione ai futuri neoconservatori.

    Non vuol dire, questo, che la sua lezione sia durata inalterata nei decenni: Warren Christopher, per dirne uno, fece sotto Clinton il contrario di quello che avrebbe fatto lui e persino Obama, che teneva sul comodino i non disprezzabili testi di Fareed Zakaria, si faceva un punto d’onore di tornare a quel multilateralismo che in apparenza (il discorso è in realtà ben più difficile) rappresentava l’esatto contrario della Realpolitik kissingeriana. Ma il vero oltraggio gli venne da chi si sarebbe meno aspettato: un’amministrazione iperrepubblicana dominata proprio da quei neocon che avrebbero dovuto essere i suoi eredi naturali. Di più: da un segretario alla difesa chiamato Donald Rumsfeld, anch’egli reduce dell’Amministrazione Ford. Uno che aveva dirazzato.
Fu lui a infilare gli americani in quel ginepraio che era l’Iraq, cuore del Medioriente. Saltato Saddam, saltarono gli equilibri di tutta la regione e venne giù il mondo. Letteralmente: anche la crisi in Ucraina ha la sue lontane origini nel vuoto creatosi a causa del caos iracheno. Il vecchio Metternich una sciocchezza del genere non l’avrebbe mai fatta. Ma che ci si può fare? Rumsfeld era uno cui si deve anche l’enunciato secondo il quale “gli americani vengono da Marte e gli europei da Venere”. Kissinger, anche in questo, la pensava all’opposto: a lui Venere piaceva proprio. Tanto da enunciare il celebre brocardo: “Il miglior afrodisiaco è il potere”.
E, a proposito di potere, ci fu anche chi gli ricordò come il suo non essere americano dalla nascita gli precludeva il più alto dei premi, la Presidenza. Non si scompose e rispose: “Non escludo di divenire Imperatore del Mondo”. Poi chiediti perché ti scambiano ancora adesso per il Dottor Stranamore. (AGI)