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Imprenditore minacciato dalla ‘Ndrangheta denuncia: "la politica mi ha lasciato solo"

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AGI – “Nessun politico finora mi ha chiamato”. È amareggiato e confessa di avere pianto molto insieme alla moglie, Tiberio Bentivoglio, noto imprenditore reggino vittima della mafia, che due giorni fa si è visto recapitare l’ennesima minaccia: una busta anonima contenente frasi ingiuriose con dentro un oggetto, un segnale terrificante nel gergo mafioso, sulla cui natura vige il massimo riserbo della squadra mobile di Reggio Calabria.

Bentivoglio è al momento l’unico imprenditore ad avere accettato dallo Stato un locale confiscato alla ‘Ndrangheta, al defunto Gioacchino Campolo, il ‘re dei video poker legato a doppio filo con il potente ‘casato’ dei De Stefano. Una struttura dove ha riavviato la sua attività nel settore dell’abbigliamento per bambini.

“Nel 1988 – racconta all’AGI Bentivoglio – la mia impresa fatturava oltre due miliardi di vecchie lire, con sette dipendenti diretti. Uno stimolo per ampliare, tant’è che con mia moglie decidiamo di raddoppiare il negozio. Siamo agli inizi degli anni ’90, data che segna ‘l’armistizio di ndrangheta’ tra le cosche cittadine, dopo centinaia di omicidi eseguiti tra il 1985 e il 1991. Quella pace è suggellata dall’imposizione a tappeto del ‘pizzo del 3%’ su tutte le iniziative imprenditoriali a Reggio Calabria”.

“Anche io – prosegue Bentivoglio – entro così nel mirino della cosca di riferimento sul territorio, con le richieste estorsive. La prima ‘ambasciata’ mi giunge attraverso un bambino di 11 anni imparentato con un mafioso, l’ultima settimana di marzo del 1992: ‘Aspetta davanti al portone di casa che questa notte alle due passerà un amico a prenderti’, mi dice. All’orario fissato, arriva un’auto dalla quale un uomo che mi benda e mi fa salire sulla vettura. Dopo circa venti minuti, ci fermiamo in un agrumeto di cui sentivo l’emanazione dei fiori di zagara. Una notte senza luna, tant’è che senza benda non distinguevo i visi dei presenti ma solo le braci delle sigarette accese”.

“Il capo cosca, latitante (le indagini stabiliranno che si trattava di Domenico Libri), inizia a spiegarmi che la richiesta di danaro è necessaria per mantenere le famiglie e i giovani senza lavoro, o per chi è in carcere – spiega ancora l’imprenditore – Io cercai di giustificarmi dicendo che mi trovavo indebitato e non potevo aiutarli. Mi interruppe bruscamente, dicendomi: ‘Abbiamo capito, abbiamo capito. Ricordatevi che vi abbiamo chiesto un favore’. Girò le spalle e si dileguò nel buio fitto. Da lì ebbe inizio la mia via crucis – ricorda Tiberio Bentivoglio – con incendi, bombe e il tentativo di uccidermi mentre lavoravo in un mio podere: mi salvò una borraccia metallica che attutì il colpo che poteva essere mortale. Sei pallottole che mi raggiunsero in varie parti del corpo. Di quei momenti – conclude – il ricordo più forte è di essermi urinato addosso e lo dico senza vergogna”.

Per molti anni, lo Stato ha garantito la presenza fisica di una pattuglia dell’Esercito dinanzi al negozio di Corso Matteotti. “La presenza dei militari è stata soppressa ma nessuno mi ha avvisato del provvedimento”, dice Bentivoglio.
Source: agi


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