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Il ritorno di Paolo Vallesi, 30 anni di carriera e quei favolosi anni '90

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AGI – Chi scrive non se l’è mica mai dimenticato Paolo Vallesi e speriamo pure chi legge, perché a distanza di cinque anni dall’ultimo album, oltre 25 ad essere onesti dall’ultimo degno di nota, “Non essere mai grande”, torna con un nuovo doppio disco. Il primo si intitola “Io” e contiene dieci nuove tracce, il secondo si intitola “Noi” ed è un modo per celebrare i trent’anni di carriera rispolverando successi del passato insieme ad amici e colleghi.

Si, perché di successi Paolo Vallesi ne ha scritti eccome, esiste tutto un nutrito campionario di bellissime canzoni firmate dal cantautore fiorentino; un viziaccio il suo che non si è mai esaurito, anche se la discografia italiana fa presto a spegnerti la luce, infatti in “Io” Vallesi dimostra di possedere ancora quel profondo senso della struttura, di navigare ancora quel mare pop che alle volte sfiora anche l’impegnato.

Perché se è vero, ed è innegabilmente vero, che il nuovo disco, senza mai cadere nel ridicolo come accaduto a certi colleghi, tenta di restare aggrappato a sonorità più fresche, la matrice è anni ’90 (fortunatamente?) e anni ’90 (meravigliosamente?) resta. Ma all’interno abbiamo trovato ottimi brani come “Bentornato”, “Meglio di niente” e “Ritrovarsi ancora”, brani che gli sbiasciconi ragazzini del new pop non sarebbero in grado di scrivere nemmeno con un tutor a bacchettargli le manine ogni volta che pronunciano la parola “baby” come se niente fosse.

“Noi” chiaramente è la parte più divertente di questo progetto discografico, divertente com’è divertente una festa, le versioni insieme a Gianni Morandi de “La forza della vita”, insieme a Enrico Ruggeri de “Le persone inutili”, insieme a Marco Masini de “Il cielo di Firenze” e insieme ad Amara di “Pace” ci ricordano che parliamo di un cantautore vero che ha scritto canzoni meravigliose

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Intanto complimenti per il disco…

Grazie, ho ricevuto delle bellissime recensioni, caso raro, io non le ho mai avute, sarà il rispetto per gli anziani (e ride). Sono molto soddisfatto, devo dire che c’è stata una mole di lavoro enorme, ci ho messo quasi due anni. Rispetto al mercato discografico odierno dove si prediligono i singoli e alle volte fare un album sembra un’operazione complessa, farne due è proprio una follia.

Per questi trent’anni di carriera hai deciso di darti il “Bentornato”

Questa canzone è nata proprio da questa parola, quando un paio d’anni fa ho fatto una trasmissione televisiva che si chiamava “Ora o mai più” tutti mi dicevano “Bentornato!” e mi faceva ridere perché non ero partito, ma vuol dire che ero mancato a qualcuno e c’era un piacere nel risentirmi. Da quella parola è nata una canzone autobiografica, è anche un bentornato che io faccio a me e voglio consideralo un trampolino verso le prossime cose che faremo.

Sei riuscito a fare un disco che suona benissimo nel 2022, spesso colleghi della tua generazione, con risultati alle volte non proprio ottimi, tendono ad inseguire un suono più contemporaneo che non gli è congeniale per ragioni fisiologiche. Ma allora tu che ragionamento hai fatto in questo senso?

È stato un ragionamento infinito, anzi, siamo partiti da quello, infatti grande merito ce l’ha Pio Stefanini; ci siamo ispirati, con tutto il rispetto del caso, agli album dei Coldplay. Alle volte ci sono dei tentativi di ammodernamento che si vede che sono finti; la lavorazione di questo disco è stata complessissima, abbiamo fatto un disco del 2022 con l’entusiasmo produttivo che c’era negli anni ‘90. Perché negli anni ’90, anche per un fatto di budget, potevamo stare anche due/tre mesi in sala di registrazione, quindi se puoi stare due/tre mesi ci puoi stare a pensare sulle cose. Ora, visto che gli album non rendono più, fai un album in quindici giorni, ma poi la qualità ne risente. Noi allora ce ne siamo fregati, stando attenti ai dettagli, io davvero faccio un disco ogni 4/5 anni, vuol dire che questo sarà il mio biglietto da visita per i prossimi 4/5 anni. Dagli amici ai quali ho chiesto di fare i featuring ho ricevuto solo dei gran “si”, e non è che c’è stato dietro un management, le case discografiche che hanno organizzato, hanno accettato solo per rapporti di amicizia, e per me è un riconoscimento, vuol dire che ho fatto solo delle cose degne, fatte bene, e questo è molto importante.

Devo rimproverarti il fatto che in “Noi” non hai inserito “Piramidi di luna”, “La strade del cuore” e “La nave dei folli”, che sono tre canzoni meravigliose

Sono anche tra le mie preferite, però c’è anche un rovescio della medaglia in questo: siccome anche altre persone mi hanno detto “Perché non hai messo questa e perché non hai messo quella?”, vuol dire che ho più di dieci canzoni conosciute, quindi ben venga! (E ride). In effetti c’era da fare una scelta fatta in base agli artisti che avrebbero duettato con me, al quale davo un range di possibilità.

Ma poi ci sono dei casi, come “Piramidi di luna”, che è forse la canzone tra quelle che ho fatto che più adoro in assoluto, che non vedrei mai fatta in un duetto; nei concerti continuerò a farla, ma non l’avrei vista in duetto.

Guardandoti indietro in questi trent’anni, qual è la prima immagine che ti viene in mente?

Io ne ho sempre una che in qualche modo rappresenta la presa di coscienza che ero diventato un cantante, ed è stata il giorno dopo la vittoria del Festival di Sanremo. Ci furono una serie di coincidenze che ci portarono a quel Festival ed ero talmente poco quotato dagli addetti ai lavori che non avevo neanche la camera fissata per il giorno dopo la finale, era già un miracolo arrivare lì; poi evidentemente la canzone, l’esecuzione, il momento, ci hanno fatto vincere.

Io tutte le mattine attraversavo la strada e andavo a fare colazione al bar, e fino a quel giorno lì l’avevo fatto in totale tranquillità, il giorno dopo fui travolto da una marea di persone che voleva fare una foto o voleva l’autografo. Ecco, in quel momento lì realizzai che qualcosa forse era cambiato. È una fotografia stupida se vuoi, ma mi fece dire “Ce l’ho fatta”.

Erano anni in cui il rapporto con il successo era molto diverso…

Negli anni ‘90 i successi erano più eclatanti, un cantante poteva piacerti più o meno ma tutto il mondo sapeva darti la classifica dalla prima alla decima posizione, ora sfido chiunque a dirla, perché cambia ogni settimana e ci sono anche tante classifiche. Ognuno riesce ad essere nelle prime dieci posizioni di qualche classifica, gli uffici stampa per darti il contentino ti dicono “Sei ottavo nella classifica de…”, una volta la classifica era una e quella era. Infatti chi ha fatto successo trent’anni fa, lo ha fatto più di chi fa successo adesso, e chi lo ha fatto negli anni ‘60 ancora di più.

Una volta poi c’era meno offerta, le persone obbligatoriamente si legavano, certe canzoni sono diventate storiche e mitiche proprio perché le persone hanno avuto il tempo di affezionarsi. Quando mi dicono che la musica di oggi è più brutta, io non penso che sia così, è solo che non c’è il tempo per potersene innamorare, perché dopo una settimana le canzoni sono già vecchie.

Qual è la cosa che ti rende più orgoglioso in questi 30 anni e quella invece della quale ti penti?

Ho scritto canzoni che dopo trent’anni mantengono un’attualità, canzoni che ancora oggi vengono messe nelle storie di Instagram per fermare dei momenti. Il desiderio che un cantautore ha è questa impossibile idea di mettere sul mercato qualcosa che possa rimanere nel tempo, quindi quando hai fatto qualcosa che a distanza di trent’anni ancora ne parli, e non come un vecchio ricordo ma come qualcosa di attuale, questo credo che sia un grande orgoglio.

Per le mille cose che non rifarei ci vorrebbe un libro, perché le cose si sbagliano, errori ce ne sono stati tanti, alcuni di valutazione, altre scelte artistiche magari sbagliate, pochissimi compromessi, questo è un mio orgoglio: di cose che non mi sono piaciute ne ho fatte veramente pochissime. I momenti più lontani dalla musica ci sono stati, ma spesso non è stato un mio errore.

In questi trent’anni hai visto passare davanti agli occhi almeno diverse ere della musica italiana, a partire da quella di inizio secolo: la musica che passava esclusivamente dalla tv

Non è che io abbia una particolare avversione per i talent, anzi credo che fondamentalmente abbiano dato a molte più persone la possibilità di mettersi in mostra, però è sempre stato un format non fatto in favore degli artisti o della musica ma della televisione. Per un periodo di tempo, che non è stato breve, le etichette non hanno più avuto il coraggio di fare una scelta, ma hanno sempre delegato ai talent, quindi alla scelta televisiva, ogni tipo di nuovo prodotto.

Ma in televisione in tre minuti fanno successo un certo tipo di cose, eclatanti, che ti stupiscono; se arriva uno con tre gambe fa successo subito, però questo toglie ogni possibilità a chi ha un discorso appena appena più intimo, meno eclatante, di potersi esprimere, e questo io l’ho trovato una rovina. Una volta uno si comprava il disco e si affezionava alla traccia 7, questo meccanismo dei talent, dei singoli usa e getta, non ha fatto il bene della musica, ha fatto il bene della televisione. Ho vissuto quel periodo apprezzando che possono esserci cose nuove, ma una volta spente le luci della tv quasi tutti questi artisti erano abbandonati a loro stessi, salvo rari casi.

Questo non è stato un periodo che ha fatto bene alla musica, le persone oltre il talent che hanno costruito una carriera, su cento si contano sulle dita di una mano, perché sono stati ancora più bravi a capire che quello non era l’arrivo ma poteva essere la partenza; per molti era l’arrivo, perché una settimana dopo, finita la trasmissione, tutti abituati ad avere le migliori luci, le migliori camere, i migliori musicisti, i migliori coreografi, poi si sono ritrovati a combattere nella vita reale e hanno trovato un po’ delle difficoltà.

La rivoluzione indie al contrario ha mostrato un disperato bisogno di intimismo…

Si perché le persone si sono rotte le scatole di sentirsi imporre cosa dovevano apprezzare, perché di questo si trattava fondamentalmente. Allora hanno cominciato ad abbandonare le televisioni generaliste, le radio generaliste, per andarsi a costruire una propria cultura musicale. E lì andando a scegliere sono venute fuori tante cose, e più erano lontane dal mainstream più potevano interessare.

Poi indie è un termine che comprende e non comprende, io non avendo una major sono un indipendente, la parola “indie” è un po’ come la parola pop, vuol dire tutto e il contrario di tutto. Ora basta dire “indie” e fa figo, però indubbiamente è stato un ulteriore scossone alla musica. Ognuno ha il suo piccolo grande spazio e non c’è più qualcosa che non va bene, c’è molta libertà nella scelta musicale, è un periodo di estrema confusione ma anche di estrema libertà.

C’è qualcuno di questa nuova generazione di cantautori che ti piace particolarmente?

Calcutta l’ho sempre apprezzato, anche Ultimo, per l’importanza dei testi, per il coraggio di chi fa una canzone che dura anche cinque minuti. Ci sono tanti prodotti interessanti, tante parole buone, sicuramente con dei canoni diversi, con dei codici diversi e delle velocità diverse. Scordiamoci le poesie di De Andrè e di Guccini, perché non c’è più tempo, però si può ancora dire qualcosa.

A proposito di indie, nel disco hai coinvolto i Legno

Con loro siamo amici, amavano questa canzone da tempi non sospetti.

Invece qual è il tuo rapporto col rap? Come vivi un momento in cui tutti tentano di mettere elementi urban nei loro pezzi?

È sempre il solito discorso, ognuno è bene che faccia quello che sa fare. Non è che per forza bisogna essere dei tuttologi, io non riuscirei a fare rap, proprio per incapacità tecnica, è una cosa difficile da fare, e tutto sommato mi piace, ma non mi appartiene. Tutto ciò che è commistione è bello, poi tutte le cose devono avere una logica, non è che basta mettere A accanto a B per farla diventare B, alle volte sono cose un po’ accozzate, in questo periodo si sente veramente di tutto.

La canzone del tuo repertorio alla quale sei più affezionato è quindi “Piramidi di luna”….? Qual è la storia di questo brano?

È una storia che non potrei mai dimenticare anche se non è felice, ma è il motivo stesso per cui io faccio musica. Si tratta di un brano in memoria del mio più caro amico fraterno che a sedici anni scomparse, promisi al cielo che avrei portato avanti il suo ricordo, il suo nome; quando cominciai a fare canzoni, nel primo album inserì “Piramidi di luna”, questo ragazzo si chiamava Claudio, la sua morte è un evento che mi ha cambiato e solcato la vita, a sedici anni sono quelle cose che ti fanno riconsiderare il mondo, con tutto ciò che non vedi, in un modo un po’ diverso.

Purtroppo non è un evento bello, però credo che poi si cresca anche grazie a queste cose, ognuno nella vita ha dei dolori da dover in qualche modo colmare, ricoprire, ricucire e guarire, certo a sedici anni sono cose che ti colpiscono, ma sono quelle cose che poi ti danno anche la forza per volerti proporre con quello che veramente vuoi fare.

Dal momento in cui hai capito che la musica sarebbe stata la tua vita ad oggi, l’hai mai vista modificarsi la tua passione in qualche modo?

Si, ad un certo punto la musica mi ha disgustato, perché quando poi sono arrivato ad avere certi risultati era diventato un mondo lavorativo che lasciava poco spazio all’arte e lì mi sono disgustato, forse anche per appagamento. Non c’era più quella fame per riuscire a fare qualche cosa e sono entrato in un mood che era lavorativo e mi apparteneva meno.

Allora mi sono volontariamente allontanato, per tre anni smisi proprio di scrivere, di cantare, di suonare, di fare musica, tre anni di totale assenza. È chiaro che questo mi ha creato problemi quando mi sono riaffacciato, perché per me erano passati tre anni, per il mondo è come se ne fossero passati trenta, per cui quando ho ribussato ho trovato diverse porte chiuse. Ma anche per questo poi ogni piccola vittoria l’ho riassaporata.

Ti sei fatto un’idea più precisa dopo questi due anni di pausa della considerazione che le istituzioni hanno di te come lavoratore dello spettacolo?

Purtroppo ce l’abbiamo chiaro tutti il discorso di Conte quando dice “Diamo 600 euro ai nostri amici artisti che ci fanno tanto divertire” cosa che è rimasta stampata nella testa. Io non sono un amante delle istituzioni, ma non per negare niente, non sono uno scemo, ma credo ci sia stata una buona dose di “paraculaggine”, era più facile fermare che andare a capir meglio le cose, facendo un danno incalcolabile non solo nel settore musicale ma anche nella mente delle persone.

Quando durante il primo lockdown cantavamo dalle finestre ho pensato che forse la gente avesse capito che facciamo un lavoro vero e non, come capita spesso, che quando chiedono “Che lavoro fai?” e si sentono rispondere “Il musicista” la seconda domanda è “Si, ma di lavoro vero cosa fai?”. Ecco purtroppo siamo a questi livelli, ma in realtà finito il momento dei balconi è tornato tutto come prima, limitazioni assurde e comunque una poca considerazione di tutto ciò che è l’arte in questo mondo e in un paese come l’Italia, che se è nobile lo deve a chi ha fatto arte nei secoli prima di noi, non certo grazie a questa classe dirigenziale.

Tu hai scritto delle canzoni che resteranno per sempre, hai vinto Sanremo, sei nella storia…cos’altro insegui nella tua carriera? Cos’altro pensi di poter raggiungere?

La mia dimensione di artista l’avevo raggiunta ma la devo riraggiungere, sento di pubblicare album di un certo tipo e questo per adesso l’ho fatto, adesso voglio comunque fare una lunga serie di concerti. Io quello che voglio fare è produrre dischi e fare concerti e vivere della mia musica, che comunque in questo periodo non è proprio la cosa più scontata del mondo, perché non è un periodo facile.

Sogno di suonare tanto e portare questo disco in giro il più possibile, poi ho sempre avuto un mercato internazionale che per me è stato importante, come quello della Spagna e dell’America Latina e mi piacerebbe tornare alla dimensione che più amo, perché le cose che più amo sono suonare e viaggiare, girare il mondo suonando è la cosa più bella che possa fare.

Source: agi


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