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Il giorno dopo. Ciò che manca nel dibattito sul salario minimo

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Michele Faioli Universtià Cattolica e Cnel

Roma. La questione più delicata del salario minimo, ciò che può decretarne il successo o il fallimento, è il livello. O meglio, i criteri per fissarne il livello. Fino a poco tempo fa avevamo solo un numero: 9 euro l’ora. Perché così aveva deciso la politica, ovvero il M5s. Una soglia molto elevata, pari all’80 per cento del salario mediano, che farebbe del salario minimo italiano il più alto al mondo rispetto al livello dei salari. Ma ora abbiamo anche una formula, presentata dal presidente dell’inps Pasquale Tridico, che come risultato dà proprio 9 euro. La direttiva europea indica come criteri per individuare il livello giusto il 50 per cento del salario medio o il 60 per cento del salario mediano: “In Italia – dice Tridico a Repubblica – queste due cifre, secondo i dati dell’inps riferiti al settore privato, corrispondono rispettivamente a 10,60 euro e 7,65 euro. Il punto medio tra questi due valori è dunque 9,12 euro l’ora”. Lo stesso ragionamento viene ribadito al manifesto dall’ex ministro del Lavoro Nunzia Catalfo, prima firmataria del ddl voluto dal M5s. Ci sono però due cose che non tornano nei calcoli di Tridico. Il primo è la formula, cioè la media tra salario medio e mediano, che non si sa da dove salti fuori. Non è di certo ciò che indica l’ue. Ma non sarebbe un problema se i due valori fossero, come si supporrebbe, simili. E qui si arriva al secondo problema, ovvero i dati. Perché la differenza tra i due numeri è molto ampia e non si capisce bene a cosa facciano riferimento.
Cosa
accadrà il giorno dopo l’approvazione della direttiva europea sul salario minimo? Quali tutele ulteriori verranno introdotte? Come cambierà la vita dei lavoratori? Quali sono i costi e i benefici per il sistema italiano di relazioni industriali? Il criterio “del giorno dopo” coincide con l’analisi dei costi/benefici dell’introduzione di una misura. Se i benefici superano i costi, allora ha senso perseverare con quella misura. Se fosse vero il contrario, bisognerebbe capire come aggiornare la misura programmata e modellare lo strumento per il raggiungimento del fine, il quale è, almeno nel diritto del lavoro, la tutela della dignità della persona del lavoratore e della lavoratrice. Ecco, a questo punto, non si può non procedere con un secondo giro di domande: il salario minimo legale è davvero lo strumento più adatto per sconfiggere il lavoro povero? Chi e cosa impedisce già oggi di intervenire a favore dei lavoratori poveri?
Diamo qualche prima risposta. Con buona probabilità, quella direttiva verrà anticipata da una norma di legge che è in fase di predisposizione da parte del ministero del Lavoro. La norma di legge permetterebbe di richiamare e applicare i salari definiti dai contratti collettivi nazionali sottoscritti dalle organizzazioni sindacali e datoriali più rappresentative. E’ una buona strategia, ma solo propedeutica per una fase ulteriore. Il che significa, per i tecnici della materia, estensione per via legislativa degli effetti del contratto collettivo nazionale, in attuazione dell’art. 36 Cost. Richiamando nella legge il salario contrattuale, si evita di fissare una cifra (i famosi 9 euro!) che può far correre il rischio di sventrare la contrattazione collettiva nazionale (alcuni datori di lavoro potrebbero decidere di applicare i 9 euro e fuoriuscire dal Ccnl che, invece, impone il pagamento di 15 euro). E’ ovvio che, in una seconda fase, servirà individuare i contratti collettivi da tenere in considerazione, sapendo che presso il Cnel lo sforzo di riordino, anche grazie al codice unico alfa-numerico, ci insegna che i Ccnl, sottoscritti dalle organizzazioni datoriali più importanti con Cgil, Cisl, Uil, sono poco più di 200 su circa 1.000 Ccnl depositati.
Sappiamo che la direttiva né impone all’italia una norma sul salario minimo né potrebbe farlo. Si poteva essere più audaci a livello europeo? Sì. L’occasione sarebbe stata adatta a sistemare, come si fece negli Stati Uniti nel secolo scorso, la materia del salario minimo legale nell’ambito della libertà di circolazione dei lavoratori per bilanciare meglio mobilità geografica e mercato. Ma così non è stato. La direttiva non impone il salario minimo legale perché la percentuale dei lavoratori coperti dalla contrattazione collettiva nazionale è ampiamente sopra quella definita dalla direttiva per far scattare l’obbligo. La posizione del ministro Orlando è, dunque, anticipatoria di un obbligo che non scatterebbe facilmente. L’anticipazione della misura, secondo l’impostazione di Orlando, potrebbe in parte risolvere il problema di chi e come dovrà misurare la copertura contrattuale che potrebbe far attivare quell’obbligo di introduzione legislativa. Cioè, approvata la direttiva, nella norma italiana di attuazione, si dovrebbe decidere, con molte difficoltà, quale istituzione avrebbe il compito di verificare periodicamente tale copertura e quali Ccnl tenere in considerazione per la misurazione.
Sappiamo, infine, che il lavoro povero dipende in larga misura da tre fattori: mancato rinnovo dei contratti, fuga dal contratto collettivo (con conseguente applicazione dei contratti pirata), e mancata applicazione di qualsiasi contratto collettivo. Nel memorandum della commissione ministeriale sul lavoro povero, coordinata da Andrea Garnero, si legge che tra le misure più efficaci c’è il rafforzamento della vigilanza e delle ispezioni. E ciò, oltre a essere condivisibile, ha una conseguenza implicita: se si intende lottare contro il lavoro povero si deve migliorare l’assetto della vigilanza sul lavoro, investendo in personale (il che sta accadendo anche in ragione del Pnrr) e in tecnologia avanzata che permette alle istituzioni di svolgere verifiche mirate (ad esempio nell’uniemens, oltre al codice unico del Ccnl, bisognerebbe permettere l’individuazione del livello contrattuale a cui associare la retribuzione dovuta da Ccnl e quella effettivamente versata).
Pensiamo al giorno dopo, ai costi e benefici per il futuro, evitando il conflitto su misure la cui realizzazione non è materia da tifo sportivo, su cui polarizzare il dibattito. Le opzioni politiche in campo potrebbero diventare così molto più efficaci.

Fonte: il foglio