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IL CINEMA DI LEONARDO SCIASCIA

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100 anni fa nasceva a Palermo il grande scrittore di Racalmuto, i cui romanzi e racconti hanno fornito al cinema italiano abbondante materia letteraria di trasposizione sul grande schermo

di Franco La Magna

Polo negativo dello scanzonato filone sessuale, quello mafiologico raggiunge tra gli anni sessanta-settanta il culmine dell’escalation cinematografica, riconoscendo nonostante vistose ambiguità, flussi e riflussi, Cosa Nostra come fenomeno internazionale (già dalla fine dell’800 i contatti con gli Stati Uniti, tra mafiosi locali e succursali d’oltre oceano, diventano una prassi) contribuendo non poco a formare una coscienza del fenomeno fino ad allora impensabile. Il cinema – appena sfiorato dall’organizzazione criminale delle coppole storte stretta in una rappresentazione localistica, paesana, limitata perlopiù alla sola Sicilia – avvia dunque, proprio negli anni del boom, un processo di revisione che spiana la strada all’idea di una mafia vista finalmente come intreccio d’interessi nazionali e multinazionali, fortemente legata ai tragici riferimenti dell’attualità e camaleonticamente in rapida trasformazione.

Un capovolgimento di prospettiva dovuto principalmente agli scrittori isolani e segnatamente a Leonardo Sciascia (Racalmuto, Agrigento 1921-Palermo 1989). (Da Sciascia sono stati tratti anche quattro film televisivi e un “docudrama”). Sciascia scrive di mafia e in fondo scrivendo di mafia, di quella mafia che tracima verso nord spostando più in alto la linea della palma afro-siciliana, egli non fa che superare, in modo abbastanza singolare – pur restando profondamente ancorato alla realtà siciliana – quel “mondo cupo, aggrondato…chiuso tutto in sé, non relazionato al mondo della storia” che resta uno dei tratti tipici di una buona parte degli scrittori isolani (cfr. Sebastiano Addamo, “Vittorini e la narrativa siciliana contemporanea”, Caltanissetta-Roma, Sciascia, 1962, pag. 78). In questo nuovo clima di ricerca di connivenze e connessioni, di tentativo d’inserimento della “Sicilia nel moto di cultura che attraversa l’Europa e il mondo” (S. Addamo, op, cit., pag. 83, l’autore cita in particolare “Le parrocchie di Regalpetra” i tre racconti-saggio de “Gli zii di Sicilia” e “Il giorno della civetta”), nasce l’inquietante parabola di A ciascuno il suo (1967) di Elio Petri, dall’omonimo romanzo, al centro del quale si muove la figura anomala (perché indigena) di un ingenuo intellettuale costretto a soccombere quando inevitabilmente andrà a cozzare suo malgrado, con il potere mafioso.

Il giorno della civetta

Ambigui legami politici e legge ancora umiliata e offesa sono al centro  dell’incalzante Il giorno della civetta (1968) regia di Damiano Damiani, in cui alla fine don Mariano – il locale boss biancovestito – ritrova rapidamente la libertà per mancanza di prove, mentre il bel capitano dei carabinieri Bellodi (ispirato alla figura del generale Dalla Chiesa) viene rapidamente traslocato in altra sede. Entrambe impastate di retorica, di descrizioni romanzate e folcloristiche, le due opere si sforzano nondimeno  di descrivere per così dire un salto di qualità: un’organizzazione mafiosa che partendo dalla Sicilia è già dilagata in un contesto geopolitico nazionale ed internazionale, con ciò confermando una presa di coscienza e un radicale giro di boa del cinema di denuncia civile. Il punto di contatto tra Sicilia e Italia attraverso Bellodi è traumatico. Quanto alla vittoria dello Stato siamo ancora a distanze stellari. I don Mariano allignano ormai dappertutto, sebbene si perda nell’anonimato dei protagonisti e nel gusto di una narrazione gialla – avvincente ma lontanissima dall’intelaiatura critica – quel senso di denuncia necessario alla comprensione critica, come invece avviene per esempio  ne Il sasso in bocca (1970) di Giuseppe Ferrara. E siamo ancora, nonostante l’innegabile salto di qualità, saldamente ancorati dentro i territori di quella visione, dura a morire anche tra gli intellettuali, d’una mafia romantica, tutta infiorettata di codici d’onore, di “voscenza binirica” e di “baciamo le mani”, d’ammirazione mista a paura, che restano i veri capisaldi del potere mafioso.

Il paradosso sciasciano sta tutto qui, in questa “…osmosi di motivi illuministici e razionalistici e di motivi romantici…In realtà, attraverso Bellodi, è Sciascia che cerca una comprensione umana anche per il mafioso mandante di crimini, e si direbbe…che l’amore per la Sicilia porti Sciascia ad amare anche gli aspetti più cruenti e negativi” (Sebastiano Addamo, op, cit., pag. 143). Un altro processo è però in atto. Il realismo, considerato fino ad allora il metro di misura più idoneo a mostrare la realtà, perde il suo primato e comincia a lasciare il posto all’allegoria, ai simboli. A prevalere sarà ora l’affabulazione fantapolitica della realtà e la sua metaforizzazione. I film politici diventano metafore dell’esistente ed il luogo fisico dell’azione in molti casi si riduce ad un mero pretesto scenico, ad un semplice dosaggio tecnico di elementi formali.

I film più censurati

Nasce così Todo modo diretto Elio Petri nel 1976, fantascientifica ipotesi di distruzione della classe dirigente rappresentata dai notabili dell’allora creduta eterna Democrazia Cristiana, degenerazione e sgretolamento dello Stato imputridito nella corruzione e nella spartizione del potere. Catturato dalla suggestione metaforica anche Francesco Rosi, di formazione realista, nel non meno impressionante ed apocalittico Cadaveri eccellenti (1976, dal romanzo “Il contesto”) traccia un “labirintico apologo politico sulla strategia della tensione”, dove l’anemico messaggio sulla riformabilità del potere scopre proprio all’interno dello Stato le macchinazioni più aberranti. L’ispettore Rogas incaricato delle indagini su una catena di morti mette a nudo un complotto, ma viene ucciso insieme al segretario del Partito Comunista e spacciato per suicida (“La verità non è sempre rivoluzionaria”, dirà alla fine l’esponente di un immaginario Partito comunista). Al loro apparire entrambi i film suscitarono aspre polemiche, ma ad evitare guai vengono ancora tenuti ben lontani dal piccolo schermo sia pubblico che privato. Catone il censore non è affato morto, vive anzi nelle forme subdole del falso permissivismo, quello innocuo del frastornante intrattenimento televisivo delle gare canore, dei balli, del chiacchiericcio, delle false liti, della massificazione e del controllo delle emozioni.

Da “Un caso di coscienza” al “Consiglio d’Egitto”

Ad un racconto di Sciascia il cinema presta nuovamente attenzione per ricavarne l’atipico ed amaro giallo-rosa, narrato secondo i moduli dominanti della commedia, Un caso di coscienza (1970) regia del catanese Gianni Grimaldi (Catania 1917-Roma 2001), giornalista, scrittore, autore di commedie musicali di largo successo. In un immaginario paese della Sicilia (il film è girato a Zafferana Etnea) si scatena il putiferio quando un settimanale femminile pubblica la lettera di una donna che confessa d’aver tradito il marito. Gli uomini riuniti in “cartello” iniziano una forsennata ricerca dell’adultera alla fine della quale nessuno si salverà dall’ignominia pubblica o privata.

I limiti del film (e della regia) sono evidenti ma la materia letteraria, nonostante tutto, li travalica. In anni più recenti ancora un romanzo di Sciascia è il forte tramite di Porte aperte (1990), rivelatosi il primo grande successo di pubblico del calabrese Gianni Amelio (qui anche sceneggiatore insieme a Vincenzo Cerami), che conquista anche una nomination, tenebrosa storia ispirata ad un fatto realmente accaduto nella Sicilia del 1937. Uno dei film più intensi e sofferti tratti dalla narrativa dello scrittore di Racalamuto, da qualcuno considerato <<il miglior dramma giudiziario italiano>> anche per le straordinarie e misuratissime interpretazioni dell’ottimo cast.  Il giallo Una storia semplice (1991) di Emidio Greco (un caso di falso suicidio fa scoprire un commissario disonesto implicato in attività criminali) si risolve in un tentativo andato a vuoto di conquistare un pubblico più vasto e Il Consiglio d’Egitto(2001) di Emidio Greco si rivolge ad un’opera di Sciascia per pro sublime impostura dell’umile abate Vella che, fingendosi arabista, nel 1782 riesce a far credere al parassitario e usurpatore ceto aristocratico siciliano d’aver tra le mani un vecchio codice arabo, chiudono la presenza di Sciascia nel cinema, con l’assoluzione dell’abate alla fine smascherato, ma  graziato solo per non gettar discredito su coloro che gli hanno così ingenuamente creduto.

Una metafora della “storia come menzogna” del potere che impunemente reprime. Un film purtroppo eccessivamente verboso, intellettualistico e troppo aristocratico per conquistare un largo gradimento.


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