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GLI STUDI RIDOTTI A UN MERCATO

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Di Silvio Suppa

Il rettore del Politecnico di Bari, Francesco Cupertino, si è aumentato di quattro volte il suo compenso, portandolo a una cifra di oltre 120 mila euro annui. Non sono ancora chiare le procedure né le motivazioni di questa decisione, analoga a quella nell’ateneo salentino, poi rientrata per le proteste di studenti, sindacati e di alcuni docenti. Tornando a Bari, la “promozione” attribuitasi dal rettore del Politecnico non sembra dipendere direttamente da conclamate valenze scientifiche o da diretti benefici per il territorio, quanto da un pericoloso processo di trasformazione delle università in agenzie economiche, dove il “capo” possa guadagnare in ragione dei risultati materiali conseguiti, sul modello delle industrie.
Già Berlusconi aveva insistito sulla trasformazione aziendale degli atenei e degli istituti di ricerca. Successivamente, la legge Gelmini del 2011, consacrò il modello della concorrenza fra le università italiane, e lo impose secondo i due parametri, pur non esclusivi, del numero degli studenti e del numero dei laureati assunti al lavoro. Il Politecnico di Bari vede in crescita gli iscritti e anche i “collocati” al lavoro, ed ecco la sua trasformazione della ricerca scientifica in numeri di mercato, come si fa con il computo delle saponette smerciate, per esempio. Se il sistema formativo si contrae nelle cifre, allora prevale la logica della pura merce, e chi vende di più ha ragione sempre, di contro a chi cura la qualità del prodotto scientifico, la sua utilità pubblica e la sua capacità di costituire un volano per gli studi e per i metodi critici, condizione indispensabile per ogni politica di riforma.
Alla fine, fra prestigiose università private (per i ricchi), e antiche sedi pubbliche, la differenza è modesta al Nord, ma immensa al Sud, dove laurearsi e lavorare è un esito sempre in sofferenza. Inoltre, il primato dell’economia (quanti laureati e tecnici hai “sfornato”?), ignora la ricerca umanistica, con effetti devastanti in ambito educativo e nelle grandi mediazioni sociali, dai rapporti di genere, oggi tragici, a quelli fra lavoro e impresa, quasi senza regole.
Tutto dipende dal compenso di un rettore? Certo che no; ma se i nostri studi non si misurano con un avanzamento sociale complessivo e con un parametro etico della remunerazione nella pubblica amministrazione, ben presto i dirigenti apicali si sganceranno dalle valutazioni oggettive, e diventeranno inseminatori del privilegio, senza nemmeno immaginare che il merito dirigenziale vale di più se incide sull’intera società, e non sul portafogli individuale.

Fonte: Corriere del Mezzogiorno