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FARE FILOSOFIA CON IL NAPOLI

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Uno scudetto sospeso, la radice di una fede, l’unicità delle due curve e la storia della doppia bandiera in piazza, per far vedere le vittorie a chi non c’è più. Indagine su un amore che con il calcio c’entra fino a un certo punto

DI MASSIMO ADINOLFI E DAVIDE GROSSI

Nei riguardi di Kvara l’amore è sconfinato, per il tipo che rappresenta, per l’indole timida, malinconica Questa volta il Napoli è lì ma nessuno può sapere cosa significa se non si è passati per l’inferno e il Purgatorio
Napoli. “Vesuvio erutta, tutta Napoli è distrutta, Vesuvio erutta” recita così il coro, sulle note di “Freed from desire”, che le tifoserie avversarie intonano negli stadi italiani e che i tifosi partenopei hanno fatto proprio, rivolgendo allo “sterminator vesevo” un’invocazione che non solo neutralizza l’originaria intenzione degli ospiti, ma che sembra impetrare la montagna affinché partecipi alla festa per uno scudetto tanto atteso quanto annunciato, e tuttavia impensabile, uno scudetto sospeso, come lo ha chiamato qualcuno dopo il pareggio con la Salernitana. I napoletani credevano di essere preparati a questo momento, e a Capodichino, al rientro della squadra dopo la vittoria a Torino contro la Juve era scoppiata la festa, ma era solo il suo inizio. Ecco perché avvicinatasi alla vittoria reale, Napoli canta la propria distruzione, ovvero il Vesuvio, simbolo di un potere mortifero che la città non contrasta, ma rivendica, in nome di una inscindibilità destinale: è la “napucalisse”. Un bagliore troppo forte non può che essere seguìto dall’estinzione, e tale è la vittoria: un aumento di esistenza, che non si misura in durata ma in intensità. Chi vince è più degli altri. E poi dilegua. Comincia qui, dall’estremo, la fenomenologia di uno scudetto preparato in decenni, “treziato” (che significa: “Assaporato poco a poco con gelosa parsimonia di gesti”) in mesi di preparativi sordi alla scaramanzia che il timore per l’invida degli dèi avrebbe dovuto ispirare; una festa che perfino le istituzioni autorizzavano ancor prima che la matematica potesse sancirla, in vista di un godimento tanto grande da non ammettere limiti. In fondo, dopo aver visto Napoli vincere, si può perfino morire. Vedi Napoli vincere, e poi muori, dunque. Napoli, sì, e non “il” Napoli: perché il legame che stringe l’intera città alla maglia azzurra oltrepassa la fede calcistica. C’è, qui, una identità così forte tra la comunità dei tifosi napoletani e i napoletani, che parlando degli uni si finisce col parlare degli altri. Al punto che diventano “cittadini” napoletani tutti quei “tifosi” che vivono altrove, campani e non: in quanto tifosi del Napoli, si è in un rapporto con la città stessa e non solo con una maglia. Si tratta di una circostanza del tutto eccezionale se pensiamo ai grandi club di serie A: quale tifoso calabrese della Juventus ha mai avvertito un legame con Torino, o un interista casertano con Milano? Il punto è che il tifoso del Napoli non sostiene solo una squadra ma una città, intesa come realtà storica e sociale con la quale intrattiene un sentimento che oltrepassa il calcio, per una prossimità che, al di là della contiguità geografica, è innanzitutto culturale. Si tratta di un aspetto unico, solo in parte spiegabile con la circostanza per cui nessuna altra grande città italiana o europea è monoteista come Napoli, che per questo ha mantenuto i tratti di una squadra provinciale e territoriale, sebbene su una scala globale. Resterebbe tuttavia da chiedersi perché un agglomerato urbano di oltre tre milioni di abitanti, così scisso in sé stesso, non abbia fatto sorgere rivalità intestine, suscitando così anche negli altri la sensazione che vi sia una caratterizzazione in più nel tifoso del Napoli, qualcosa che lo rende diverso dal semplice appassionato di calcio e ne fa l’espressione di una civiltà.
Non è un caso se negli ultimi giorni siano circolati in tutta Italia, da Bergamo a Milano a Salerno, messaggi intimidatori rivolti ai napoletani “espatriati” affinché non esultino in faccia ai loro ospiti. Una simile intolleranza nei confronti dei napoletani ha a che fare con l’elemento sportivo, ma anche con quello culturale e con il tipo di espressività, di manifestazione emotiva e di assenza di contegno che sembrerebbe definire, tra i molti tratti, il napoletano e come tifoso, e come abitante.
E non occorre essere nati a Napoli: Napoli tanto ama i propri figli naturali quanto quelli adottivi, forse, anzi, questi più di quelli. Nessuno, infatti, è stato amato come loro: Virgilio, Leopardi, Dalla, Maradona (che Carmando, lo storico massaggiatore della prima squadra, baciava prima di ogni partita come un figlio). Perché si può ben “diventare” napoletani. Anzi: si deve, trattandosi di un compito che genera caricature quando è ritenuto assolto. Ma tale è la forza del legame tra città e squadra che occorre una sorta di psicologia storica della festa per penetrare nel significato dello scudetto, per ciò che di Napoli rivela e per ciò che occulta.
La prima figurazione dello scudetto si è manifestata a dicembre, durante il mondiale in Qatar. La città ha cominciato a scorgere nel destino dell’argentina una sorta di prodromo del proprio per naturale affiliazione con gli albicelesti. Nel nome di Diego (nessuno in città lo chiama Maradona, ma solo Diego) ogni napoletano si sente anche argentino per un’adozione giunta fino al punto di rovesciarsi. Così, Diego, da figlio, diventa padre e l’argentina patria. E durante i mondiali, col campionato fermo e gli azzurri in testa alla Serie A, è sembrato quasi naturale considerare le vicende della Selección la prosecuzione naturale del campionato. Nello iato straordinario di dicembre, smarriti e senza neppure l’imbarazzo della Nazionale italiana, che aveva mancato la qualificazione in Qatar, biancazzurro e albiceleste si sono quasi confusi, più che in altri momenti (clamoroso quello di Italia ‘90). Vi era il dubbio che il Napoli, che fino a quel momento aveva tenuto un andamento inarrestabile, non sarebbe tornato dalle vacanze con lo stesso stato di forma. Che la sua marcia si sarebbe interrotta. Vi era il dubbio, e l’horror vacui per l’assenza incolmabile del Napoli sul campo, in quelle settimane di pausa forzata. Argentina, dunque. Anche, forse soprattutto nel giorno della disfatta argentina, all’esordio contro l’arabia Saudita. E’ stato vissuto come un segno: dall’abisso, la rinascita. Messi come Diego, e il mondiale all’argentina come figura dello scudetto al Napoli, analogamente a quanto accaduto dopo Messico ‘86, con il primo scudetto arrivato nell’87. Il tempo mitico avrebbe dovuto scandire il tempo a venire, ripetendosi, secondo un ordine destinale che avrebbe riportato Diego nel secolo e la vittoria a Napoli. Non pochi hanno scommesso allora sulla vittoria del mondiale di Messi e compagni. La vittoria dell’argentina sarebbe stata la manifestazione di un piano già scritto. I napoletani si davano appuntamento per vedere le partite dell’argentina, festeggiando quelle vittorie come fossero loro. La finale con la Francia è stata vissuta in città con il clima di un evento che riguardava la città intera. E Napoli è divenuta l’avamposto continentale dei tanti argentini sparsi in Italia in cerca di un luogo dal quale assistere alla partita: all’ombra del Vesuvio potevano considerarsi a casa, protetti. E la vittoria cadde. La festa degli altri è stata l’inizio della festa del Napoli. Quel primo barlume di gioia ha dato la sensazione che fosse davvero possibile vincere. Lo spettro di Diego, eterno nume tutelare della città, santo, re e taumaturgo, divenuto il messia. Messi, il discepolo, ne annunciava il ritorno. E per la prima volta, la naturale resistenza scaramantica della città è stata sconfitta da un presagio di vittoria. La parola scudetto – che prima non si diceva – ha cominciato a circolare. Sulla bocca dei giornalisti, dei commentatori, dei tifosi, perfino dei calciatori. Nel frattempo, il cosiddetto santuario di Maradona sopra i Quartieri spagnoli diventava lo snodo di un pellegrinaggio selvaggio, epicentro simbolico del tifo eletto, dopo la morte del Diez, a luogo di culto e di memoria. E i mercanti sono entrati nel tempio: il murales con l’effige dell’argentino funge ormai da sfondo a un mercatino di cianfrusaglie e paccottiglia in ossequio a un idolo divenuto icona commerciale di una città che quanto più sogna, tanto più si svende. Napoli attrae sempre di più gli sguardi da fuori, e nello specchio deforme del successo turistico spesso offre in ostensione la caricatura di sé stessa.
E intanto prega. Al rientro dalla sosta i peggiori incubi si materializzano a Milano, dove inciampa per la prima volta in campionato. Ma durano pochissimo. La squadra sa che quella sconfitta è dettata dal carico degli allenamenti dei giorni di ritiro, e si riprende subito e alla grande. Prima a Genova e poi in casa, contro la Juventus, nella partita che fotografa la supremazia tecnica del Napoli in modo indiscutibile. Tanto da costringere Allegri a fuggire dal terreno di gioco, senza però trovare scampo alla stretta di mano che mister Spalletti gli offre, anzi quasi gli strappa, con un gesto innaturale e meccanico, da burattino, che lo consegna agli annali del mimo. Anche Luciano è, ormai, napoletano. L’impressione di dominio suscitata da quel 5-1 è tale da portare le dirette avversarie del Napoli a perdere punti, ed è a quel punto impossibile evitare la parola scudetto. E con essa l’idea, che si fa largo come un’ossessione nello spazio mentale e poi fisico, architettonico, dei tifosi: la festa. La parvenza di un contegno magico ancora trattiene il proposito. Spalletti predica pazienza, calma, misura. Ma la città preme, e anche in lui qualcosa ribolle. Assurto a entità totemica, Lucianone somatizza nelle rughe della fronte, nel sorriso idiosincratico, nelle smorfie sornione, la medesima consapevolezza della città: di essere i più forti, Nettamente. Prima della fine del girone d’andata il solco è talmente ampio che solo una caduta rovinosa può determinare un fallimento. Ma non occorre nemmeno la superstizione, per scongiurarla. E quando il 29 gennaio, contro la Roma di Mourinho, in una partita scorbutica ma dominata, l’uomo della provvidenza, il Cholito Simeone, subentrato dalla panchina, insacca la rete con un destro a giro allo scadere, si capisce definitivamente che il 2023 sarebbe stato l’anno. Viene l’ora ed è adesso.
Perché quando ciò che può andare male si aggiusta, invece, ineluttabilmente – ed era già accaduto con il gol di Raspadori a La Spezia, vero e proprio switch stagionale – , il sospetto di essere sospinti da un destino, di essere toccati dal “kydos”, diventa certezza. E’ stato Diego, dalle altezze di un cielo in cui era salito per le preghiere di suffragio dei napoletani, a toccare il piede del figlio del suo amico Simeone. La mano de Dios è sopra gli azzurri. E con sconcerto i tifosi si accorgono che il campionato e le partite avvengono col senso ormai dell’attesa, non più, già, del coinvolgimento. Lo stadio paradossalmente si spegne e la città si addobba. Iniziano così gli ultimi tre mesi: un allenamento per lo scudetto.
Le frotte di turisti si ingrossano, e quanto più i flussi aumentano tanto più i napoletani si prestano al gioco, incarnando lo stereotipo cripto-razzista che tutti vogliono vedere: il circo dell’antimodernità. “Mare fuori”, la serie, già da qualche tempo imperversa ma ora, dopo Sanremo, è una mania fuori controllo. Alla Pignasecca spuntano i cuscini con l’immagine di Rosa Ricci ed Edoardo a fianco a quelli con Osimhen e Kvara. Gli artisti di strada africani ripetono i ritmi dei cori del fu San Paolo; a via Toledo si spacciano sempre più fritture, sempre più rancide, sempre più antiche. L’allegria simulata diventa un riflesso: bisogna fare i napoletani e fare i napoletani significa tifare Napoli ad ogni ora, per strada, nei vicoli, sui balconi. Lo scudetto diventa così il pretesto per una esibizione permanente dalla quale ricavare piccoli profitti, economici o peggio, narcisistici. L’osmosi tra squadra e città innesca allora un cortocircuito, la città si riduce tutta alla sua manifestazione di tifo per la squadra. In questo contraccolpo la tradizione si riduce a macchietta, a espressione sentimentale e vuota. Ma è quella la domanda, la stessa che alimenta la curiosità di quanti vogliono venire a Napoli per vederla festeggiare, per vederla esultare. Dietro l’apparente empatia però è nascosto forse un profondo disprezzo: vogliono che la diversità non li riguardi e che possano però goderne nella forma di uno spettacolo, di uno zoo. Questo chiedono ai napoletani, ed è ciò che ricevono. E’ il mercato, bellezza. Ma chi lo chiede: loro chi? Quelli da fuori, che poi fuori è sempre al nord, come se a sud di Napoli fossero non del tutto fuori Napoli. E invece non è così, perché i primi consumatori di questa messa in scena dei napoletani che recitano la parte di essere napoletani, sono proprio loro: i napoletani. Dalle periferie, dal centro, dall’hinterland, sono loro quelli che chiedono alla marionetta di esibirsi, a pulcinella di diventare macchietta, recitando la confortante e oscena parodia in cui amano riconoscersi: perché nello stereotipo acquistano una posizione, una identità, che altrove è loro negata. E’ una pantomima tragica e grottesca insieme. Può capitare allora di vedere qualcuno con accento settentrionale percorrere i vicoli del centro in cerca di un coro da stadio al quale accodarsi, o comitive di ragazze venete abbandonarsi al degrado etilico per addii al nubilato che finiscono come sperato: tra motorini sfreccianti, magliette false “spase” per finta, ovvero stese ad asciugare su fili tra palazzi che nessuno ritira, e botti e rumori e grida: “limonata a cosce aperte”, “prego favorite”.
Eppure, non tutto va così, la città è più complessa e sorprendente dell’immagine che trasmette di sé. Poche settimane fa, risalendo Vico Giardinetto, una ragazza argentina si rivolgeva euforica, alle tre del pomeriggio, verso le finestre dei bassi del vicolo, piena di entusiasmo e veemente: “yo soy argentina, yo soy argentina”. Si aspettava, la creatura, di essere applaudita, di ricevere le congratulazioni dei residenti, forse. Ma una voce, una di quelle che sembrano tuonare dai più profondi recessi della controra risponde lucida, razionale, severa, cartesiana: “e cacace o cazz”. L’esperienza dello scudetto come realizzazione storica della città scade insomma, ancora prima di avvenire, nell’inerziale ripetizione di un modello di napoletanità plastificato. Ma questo dà luogo a una spaccatura: quella tra una Napoli euforica per coercizione a inscenare, e una Napoli prostrata dal peso della banalità. Banale è sembrato a qualcuno perfino il campionato. Il Napoli scende in campo con il Milan, ma tutti pensano alla Champions. E nel clima di una contestazione che nessuno ha capito, saldamente in vetta, il Napoli prende quattro gol. Non una partita rea
le, ma un’allucinazione, una sospensione del calcio: “non sono neppure scesi in campo”, dicono in molti. In verità, non erano scese in campo le curve.
Facciamo un passo indietro e ragioniamo del rapporto che la città ha stabilito con i protagonisti di questo scudetto. Non c’è, difatti, un solo calciatore di questa annata straordinaria che non sia oggetto di venerazione. A differenza del Napoli di Maradona che era di Maradona, questo Napoli conta perfino più calciatori di quelli che ha in organico. Hanno concorso a questo risultato senza precedenti, per il distacco maturato, per la qualità del gioco espresso che colloca il Napoli tra le grandi del calcio europeo, tutti quei calciatori che in questi anni hanno contribuito a costruire la fisionomia di una società costantemente al vertice. Radunati nella festa oggi partecipano i grandi simboli del Napoli degli ultimi dieci anni, a dir poco, come se questo scudetto fosse stato raggiunto anche da loro: da Callejon a Koulibaly, da Lavezzi a Insigne. Perché l’exploit di questo Napoli non è frutto del caso ma di una progettazione e di una idea tecnica che Giuntoli, cui saggiamente si è affidato De Laurentiis, ha perseguito con intelligenza e genio. E sono questi aspetti non banali che la città ha compreso e apprezzato e che pesano oggi sull’affiatamento e sul debito di riconoscenza che i napoletani accordano ad una dirigenza che da sempre anima polemiche e dibattiti in seno alla tifoseria partenopea, ma che ha dimostrato di poter smentire il luogo comune rassicurante per le sue avversarie di una Napoli fatta di estemporaneità e improvvisazione, piuttosto che di progettualità razionale, paziente, accorta. Eppure, questa stagione era iniziata nel peggiore dei modi, con la contestazione in ritiro seguita all’addio di alcuni grandi giocatori delle scorse annate; veri e propri eroi della città, come appunto Ciro Mertens, che fra tutti è quello che più avrebbe meritato di essere parte dello spogliatoio di quest’anno. Ed è per questo che oggi, nella festa c’è anche lui, divenuto napoletano a tutti gli effetti e già residente nel palazzo dove aveva vissuto La Capria. Ma, appunto, privati del loro pupillo e della spina dorsale del Napoli delle passate stagioni, ad agosto i tifosi si sentivano defraudati. Poi sono arrivati i colpi in serie con gli innesti di Simeone e Raspadori, protagonisti di alcune delle imprese che hanno fatto la differenza quest’anno. Se Osimhen può ben essere considerato l’attaccante più forte della Serie A, e tra i più forti d’europa, e il trascinatore carismatico di questa squadra, assieme al veterano dello scontro Mario Rui, non di meno è impossibile non menzionare il difensore migliore del campionato, Kim Min-jae, o l’artefice del gioco Lobotka. E la classe di Anguissa, e il capitano Di Lorenzo, la cui tempra agonistica e morale costituisce il fondamento della coesione di questo Napoli. Ma c’è una figura, una figura che fra tutte ha suscitato la meraviglia incidendo, almeno quanto il capocannoniere Osimhen, su questo scudetto. E’, ovviamente, il georgiano Khvicha Kvaratskhelia. Pescato dagli osservatori del Napoli nella Dinamo Batumi: è probabilmente il più grande debuttante che la Serie A abbia mai avuto. Non sono solo i numeri a parlare per lui, tra dribbling, assist, gol, ma la qualità del gioco espresso e la capacità di essere determinante in ogni azione finalizzata dal Napoli. Nei suoi riguardi l’amore della città è sconfinato, per il tipo di calciatore che rappresenta, per l’indole timida, quasi malinconica, per la dolcezza del suo sguardo, ma soprattutto per le sue finte, che nella loro asciuttezza contrastano le forme del dribbling moderno. La sterzata con la quale il numero 77 fa sedere gli avversari è un gesto semplice, che però, anche quando è assolutamente prevedibile, resta sorprendente. L’esecuzione avviene con una velocità e con una chiarezza abbacinante. La finta di Kvara rivela tutti i suoi segreti, non nasconde niente, eppure non lascia altra possibilità che cascare. Qualche volta è stato chiamato Kvaradona, ma i napoletani hanno resistito alla tentazione di istituire il paragone, preludendo alla possibilità di assegnare a Kvara una grandezza che sarà solo sua e non di altri.
E però, nel clima di crescente euforia, tra gigantografie in cartone dei calciatori che affollano i vicoli, torte dalle fattezze di Osimhen con tanto di mascherina, palazzi, balconi, lampioni, spartitraffico, perfino alberi “arravogliati” nella plastica biancoazzurra e con la città tracimante di entusiasmo a ridosso degli ultimi due mesi della stagione, con il Napoli ancora in corsa per la Champions dopo un sorteggio fortunato, succede, tuttavia, qualcosa di imprevisto: una forza interiore contrasta lo spirito di deflagrazione. Torniamo, così, alla contestazione del tifo organizzato concomitante alla partita casalinga contro il Milan. Per comprendere il significato del terzo scudetto o di ciò che sta succedendo a Napoli in queste ore bisogna ripartire da qui, da quel match e quest’ultimo mese, dal dissidio.
C’è una forza che tiene unito lo stadio e che ne indirizza il tifo: sono le curve, e a Napoli sono due, fatto unico in Europa, forse nel mondo. Da entrambi i settori i gruppi organizzati dirigono il canto plasmando lo spazio sonoro, che diventa fisico, del Maradona. Senza di loro lo stadio diventa un’arena spettrale perché un agone sportivo non è solo uno spettacolo, ma una sfida in cui chi assiste è implicato. Da sempre De Laurentiis dichiara ostilità al loro mondo. Fatto di prepotenza e intriso di violenza, ma anche di sue proprie regole e fortissime solidarietà. Il Presidente non cede alla pretesa di accordare privilegi sulla base di minacce e ricatti; i club non si vedono riconosciuti il loro storico ruolo. Per questo, ma non solo – di mezzo c’era il caro biglietti, i meccanismi di distribuzione dei titoli d’ingresso per le gare in trasferta, l’autorizzazione di striscioni e tamburi – smettono di cantare. E’ dentro uno stadio ammutolito e depresso, in un’atmosfera di incredula impotenza, che il Napoli perde malamente. La disfatta deve lanciare un messaggio anche nei confronti della città: “Senza la nostra militanza, senza il nostro impegno il vostro folklore non porta a niente”. Gli Ultras, infatti, non stanno semplicemente dentro l’autocelebrazione partenopea: svolgono anzi una funzione ambigua, di katechon, ossia di freno, che trattiene e ritarda. La loro dottrina ha un nome: mentalità. Lo sa bene chiunque frequenti con assiduità il Maradona: senza mentalità non solo non si vince, ma lo stadio diventa un luogo ostile e buio. Se ne è accorto Spalletti, che ha avuto il merito di richiamare alla responsabilità dirigenza e tifoserie affinché trovassero un accordo per riportare gli Ultras sulle gradinate poco prima dello scontro di ritorno col Milan ai quarti di Champions. De Laurentiis, intelligentemente, ha trovato un’opportuna mediazione con gli esponenti dei maggiori gruppi, e s’è fatta la pace. Tardi per la Champions, ma non per il campionato, dove sono tornati cori, bandiere e striscioni. Lo abbiamo visto domenica scorsa, in un clima di festa totale e di ritrovata unità tra la società e i gruppi. E con un bel comunicato della Curva A, a poche ore dall’inizio della partita contro la Salernitana, nel quale si raccomanda a tutti i napoletani di recarsi allo stadio con una maglia azzurra senza imbrattare la città. Perché, scrivono, se loro difendono la città, tutti gli altri sono chiamati a rispettarla: si vede qui la funzione critica svolta dai gruppi rispetto alla massa del tifo.
Vi è però un altro aspetto della mentalità Ultras che può aiutarci a penetrare il segreto riposto in queste ore di gioia ed eccesso. Ha che fare con il legame dei napoletani con i morti, un legame ben espresso dal messaggio che la Curva B ha diffuso tra venerdì e sabato della scorsa settimana. Chiedono, gli Ultras, a tutti i tifosi, di portare allo stadio e nelle piazze due bandiere, una per sé e una per i propri padri o per gli amici del cuore che non ci sono più, che non avranno la fortuna di vivere questa felicità grandissima. Perché nessuno, nemmeno i morti devono perdersi la gioia di questo scudetto (non è forse quella scritta apparsa dopo il primo scudetto sulle mura del cimitero “e che ve site perso” un modo per raccontarglielo lo scudetto ai morti?). E i napoletani allora, ieri, hanno ricordato “quand’erano fanciulli e sognavano una maglia e un pallone”, e oggi ricordano chi li accompagnò per la prima volta allo stadio, da chi sentirono i primi racconti del grande Napoli, si ricordano di un tempo prossimo, ma remoto e formidabile. Come nel caso di quanti, nati tra gli anni ‘80 e ‘90 del Napoli di Maradona non possono che avere ricordi sbiaditi o in VHS. Oggi, nella gioia incontenibile si ricordano il dolore e la sofferenza dei fallimenti, della speranze deluse, della rovina in Serie B, degli anni senza futuro, degli anni dei Naldi e Corbelli, degli anni di Calderon, Stojak, Edmundo, Graffiedi, delle attese per autobus, cumane, circumvesuviane che non passavano, che si usciva di mattina alle 11 e si rientrava dopo cena, di domeniche sterminate, perdute, buttate per amore di una città più che di un gioco, di uno stadio come di una maglia, anche se poi vincevano gli altri. Non questa volta però. Questa volta il Napoli è lì ma nessuno può sapere cosa significa se non si è passati per quell’inferno e per questo lungo Purgatorio, nessuno può sapere che questa felicità non si può festeggiare perché resta sepolta nel pianto a volto coperto che ha sorpreso tutti coloro che ieri hanno ricordato l’infanzia. E quel ricordo non si può inscenare, non va su Tiktok, non ci puoi tappezzare la città, non lo puoi sparare in alto come un fuoco d’artificio, non deflagra e non si fa immagine. Lì, però, sta il senso inattingibile della gioia che nessuno saprà dirvi se non come farsa, come simulazione e recita di un godimento che è quasi un dolore profondo, tanto profondo da restare incassato dietro il palmo della mano, in fondo alle lacrime e in orrore della luce, la stessa luce in cui oggi Napoli si perde abbagliata di azzurro e in altissima vetta sventolando. Si perde quel ricordo, si perde allora il senso profondo di quella gioia che con i morti è condivisa, per un attimo, per quel tanto che basterà a raccontarla ai venturi, più che a coloro venuti a vedere i festeggiamenti. Perché sì, è qui la festa, la più grande che si sia mai avuta, ma la gioia è altrove, è oltre, dentro, e non la vedrete. Morite, e poi vedrete Napoli.
Massimo Adinolfi e Davide Grossi
(A mio padre, che non sapeva niente di calcio ma mi portò al San Paolo per la prima volta. E al mio amico del cuore Vincenzo, di cui porto la bandiera).
ordinario di filosofia teoretica dell’università Federico II di Napoli, scacchista, salernitano (ebbene sì) frequenta il San Paolo-maradona dal 1994. E’ editor responsabile delle collane di Storia della Salerno (ebbene sì) Editrice. Scrive e insegna filosofia

Fonte: Il Foglio