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Einstein: la differenza tra la teoria ristretta della relatività e quella generale

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Nel 1915 l’equazione di campo di Einstein risolve il conflitto tra la relatività ristretta e la teoria della gravitazione di Newton. Ecco la storia (e soprattutto la portata) di quella scoperta e la differenza tra la teoria ristretta della relatività e la teoria generale della relatività.

Il fisico premio Nobel Albert Einstein.

All’ultimo minuto Einstein ebbe un ripensamento. Mancava qualcosa. Riprese in mano l’articolo che aveva preparato per la prestigiosa rivista scientifica Annalen der Physik, e aggiunse un post scriptum, tre pagine vergate con grafia nitida e ordinata, per illustrare un’ultima, inevitabile conseguenza della sua teoria: l’energia è equivalente alla materia, E = mc2. Così, la formula più famosa dell’intera storia della scienza comparve per la prima volta nel post scriptum di un articolo firmato da Albert Einstein, un oscuro impiegato dell’Ufficio brevetti di Berna.

Questa formula afferma che l’impalpabile energia si può trasformare in concreta materia, e viceversa… un evento quasi magico ma (forse proprio per questo) comprensibile a tutti. Il resto della teoria della relatività, invece, è più difficile da digerire: per comprenderla bisogna capovolgere ciò che ci dicono i sensi, l’esperienza e perfino i vecchi libri di fisica.

LA TEORIA DELLA RELATIVITÀ RISTRETTA. Ma andiamo con ordine. Quando si parla di relatività, in genere, si mettono insieme due diversi scritti di Einstein, uno del 1905 (la relatività ristretta) e uno del 1915 (la relatività generale, poi pubblicato all’inizio del 1916). Come si possono distinguere?

È semplice: la relatività generale si occupa della forza di gravità, quella ristretta no. Perciò, tutti i fenomeni che coinvolgono l’attrazione gravitazionale, come per esempio i buchi neri, riguardano la relatività generale. Ecco invece che cosa dice la teoria della relatività ristretta.

IL TEMPO RALLENTA, LA MASSA CRESCE, GLI OGGETTI SI ACCORCIANO. Scoprire che cosa non varia, però, non è semplice. Il tempo? Il senso comune ci dice che se una campana rintocca a New York e dopo un attimo un’altra campana rintocca a Roma, l’ordine dei due eventi è indiscutibile. La teoria della relatività afferma invece che la velocità dell’osservatore influenza anche la percezione del prima e del dopo, e dunque che lo scorrere del tempo non è universale.

Tutti sanno che i sensi possono ingannarci. Quando osserviamo una lunga strada diritta, per esempio, abbiamo l’impressione che essa si restringa in lontananza, ma non ci sogniamo affatto di confondere questa sensazione con la realtà. La relatività fa la stessa operazione: scarta tutto ciò che dipende dal punto di vista, e conserva ciò che resta costante in qualunque condizione.

Come ha fatto Einstein ad arrivare a una simile conclusione? Lo scienziato tedesco è partito dal fatto, ben noto anche ai suoi tempi, che la luce si propaga con velocità molto elevata ma non infinita, esattamente 299.792 chilometri al secondo.

Le velocità che noi misuriamo, però, dipendono dalla nostra stessa velocità: l’automobile che ci sorpassa, per esempio, a volte sembra lenta in modo esasperante. Se questo valesse anche per la luce, i raggi emessi da una stella dovrebbero sembrarci più veloci o più lenti a seconda che la Terra si avvicini o si allontani dalla stella. Invece ciò non accade, la velocità della luce non varia, e questa stranezza fu dimostrata per la prima volta da due fisici americani, Michaelson e Morley, nel 1891.

L’articolo in cui Albert Einstein enuncia, nel 1905, la teoria della relatività ristretta e la famosa formula E= mc2.

Einstein ne trasse le conseguenze. Se una velocità rimane costante anche quando, secondo logica, dovrebbe variare, allora c’è una sola spiegazione: è il tachimetro a non funzionare come al solito. E non per colpa sua, spiega Einstein, ma perché cambiano gli oggetti che il povero tachimetro deve misurare: spazio e tempo non sono più gli stessi. E lo strumento registra fedelmente il risultato: una velocità che non cambia mai. Ma in che modo spazio e tempo cambiano? Ecco un esempio. Se un astronauta sulla Luna guardasse nella cabina di un razzo di passaggio, vedrebbe i suoi colleghi a bordo del razzo muoversi al rallentatore, e gli oggetti sull’astronave “accorciarsi” lungo la direzione del moto.

Ma anche gli astronauti in transito vedrebbero il collega sulla Luna muoversi al rallentatore. Come mai? Se da un lato il tempo rallenta, dall’altro non dovrebbe accelerare? Niente affatto. Si pensi a due uomini lontani cento metri: il primo vede l’altro rimpicciolito dalla distanza, ma non per questo il secondo vede il primo ingrandito. La teoria della relatività introduce quindi il concetto di una prospettiva temporale causata dalla velocità.

Tutte le stranezze della relatività discendono da quest’unico concetto, anche l’equazione E = mc2. Secondo le vecchie teorie, infatti, continuando a spingere un corpo la sua velocità dovrebbe aumentare all’infinito, e questo è impossibile: nulla può andare più veloce della luce. Che cosa succede, allora? Semplice: l’energia fornita non incrementa la velocità del corpo, ma la sua massa: il corpo diventa sempre più “pesante”. In questo senso, la massa non è che una forma di energia. E il 6 agosto 1945, con il lancio della bomba atomica su Hiroshima, il mondo ebbe la dimostrazione più convincente di questo principio.

Non tutte le velocità sono relative…

La velocità è una questione di punti di vista. Infatti, nel misurare la velocità di un oggetto (per esempio un proiettile) è impossibile tenere conto della propria stessa velocità. Si pensi a un proiettile sparato da un treno in corsa: se lo strumento di misura si trova sul treno, esso rileva un certo valore, diciamo 200 chilometri all’ora; se invece si trova all’esterno, rileva la somma di due velocità, quella del treno e quella del proiettile. Si può pensare che quest’ultimo valore sia quello giusto, perché viene rilevato “da fermo”. Ma questo non è vero, perché anche il terreno si muove (con il pianeta) intorno al Sole.

Mondo lumaca. Dunque, la velocità è sempre relativa? No, dice Einstein: quella della luce è assoluta, cioè non cambia se viene misurata dal treno né se viene misurata da terra. D’altra parte, con le velocità da lumaca tipiche del mondo in cui viviamo, per la vita quotidiana il fenomeno risulta irrilevante.

Il secondo articolo di Einstein è del 1915. Terminato a novembre venne pubblicato all’inizio del 1916 e contiene la relatività generale.

LA RELATIVITÀ GENERALE. Abbiamo solo accennato, finora, alla relatività generale, una complessa costruzione matematica che richiese dieci anni di studi. Con essa, Einstein intendeva costruire un modello matematico delle leggi che governano l’universo: la relatività ristretta, infatti, funziona bene solo nelle zone di spazio-tempo in cui la gravità è irrilevante, cioè dove c’è poca materia.

I risultati che Einstein ottenne costituiscono un complesso di equazioni che, proprio come un programma per computer, dà risultati diversi a seconda dei dati che vengono inseriti.

Ecco perché la relatività generale non ha mai smesso di fornire nuove informazioni: le sue equazioni possono analizzare qualsiasi situazione cosmica venga concepita, o individuata. Per esempio, le equazioni possono dire se e in quali condizioni è possibile che nel cosmo si formi un buco nero, e che cosa accadrebbe nei suoi dintorni.

Il concetto-chiave della teoria, comunque, si può facilmente esprimere in parole: la gravitazione altera lo spazio-tempo. In altre parole, una concentrazione di materia piega lo spazio (e il tempo), come una boccia da bowling piegherebbe un tappeto elastico. Le conseguenze più ovvie? Quando lo spazio è deformato dalla presenza di una stella, i raggi di luce seguono la deformazione e descrivono una curva. Il tempo, dal canto suo, scorre più lentamente in vicinanza di grandi masse.

Ma perché dovremmo crederci? Anche se Einstein è partito dai fatti, la sua costruzione matematica è arrivata a conclusioni azzardate. Non potrebbe aver fatto un errore? Sì, ma finora nessuno l’ha trovato. Anzi, gli esperimenti hanno sempre confermato la teoria.

A cominciare da quello realizzato dall’astronomo britannico Arthur Eddington, che nel 1919 organizzò una spedizione all’isola del Principe, al largo della costa africana, per verificare (durante un’eclisse) se davvero la massa del Sole incurvava i raggi provenienti dalle stelle. L’ultima conferma in ordine di tempo, invece, è italiana, e risale al maggio scorso. L’ha ottenuta Ignazio Ciufolini, del Cnr di Frascati, che ha analizzato i dati dei satelliti Lageos e Lageos II, misurando per la prima volta la forza “gravitomagnetica” provocata dalla rotazione della massa terrestre: una forza debolissima, ma tanto reale da poter influenzare le orbite dei satelliti.