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Delocalizzazioni e aiuti di Stato

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Delocalizzazioni e aiuti di Stato

Il presidente di Confindustria, Bonomi, ha lanciato strali di contestazione al progetto di legge del ministro del Lavoro, Orlando, accusandolo di perseguire intenti punitivi nei confronti delle imprese. L’Istituto Bruno Leoni afferma che non è coi sussidi che si crea buona occupazione e non è chiedendoli indietro che si restituiscono al paese le opportunità distrutte dall’eccesso di tasse e di regolamentazione. Ma non c’è alcuna controproposta elaborata in alternativa ai presunti contenuti della bozza Orlando

di Renato Costanzo Gatti

Il Consiglio dei ministri sta per esaminare lo schema di legge Orlando relativa alle delocalizzazioni e già il presidente di Confindustria Bonomi ha lanciato strali di contestazione tali che la sottosegretaria Todde si è sentita in dovere di negare che si tratti di una legge punitiva. Meno becero è l’intervento dell’iperliberista Istituto Bruno Leoni di cui riporto alcuni stralci.
Il documento dell’Istituto Bruno Leoni
La norma sarebbe ispirata a un’analoga legge francese del 2014, la cosiddetta loi Florange. C’è un solo problema: quel provvedimento è stato in gran parte rigettato dal Consiglio Costituzionale transalpino e, nei fatti, è inutile. (…)
All’inizio del 2014, il Parlamento diede il via libera alla norma che ha ispirato Orlando. La legge prevedeva che le imprese con più di mille dipendenti, prima di avviare procedure di licenziamento collettivo, si impegnassero nella ricerca di un acquirente per garantire la continuità produttiva dei loro siti industriali, motivando eventuali rifiuti. In caso contrario, erano previste sanzioni fino a 20 volte il salario minimo per ogni occupato, con un tetto del 2 per cento del fatturato (oltre alla facoltà per il Governo di chiedere la restituzione degli eventuali sussidi ricevuti nel biennio precedente). I giudici costituzionali francesi hanno però fatto cadere una parte cruciale della legge, quella secondo cui l’impresa era obbligata ad accettare le offerte d’acquisto prima di cessare le operazioni, a meno che non compromessero la continuità della produzione stessa. (…)
È davvero bizzarro che il Ministro del Lavoro stia spingendo con tanta forza per una norma (…) eccessiva, punitiva e inefficace. Non c’è alcuna ragione al mondo per pensare che (…) la legge non potrebbe essere censurata sotto quegli stessi profili di tutela della libertà di impresa che ne hanno determinato la bocciatura oltralpe. Perfino la parte meno controversa della norma, relativa alla restituzione degli aiuti di Stato in caso di chiusura – se limitata ai sussidi specificamente finalizzati a creare o mantenere occupazione – rischia di fare acqua. Da un lato, infatti, è già prevista non solo dal Decreto Dignità, ma spesso anche dai bandi con cui gli aiuti vengono erogati. Dall’altro, non ci vuole molto ad aggirare i vincoli attraverso appostazioni contabili che facciano emergere squilibri patrimoniali, magari anticipando l’iscrizione di poste negative. Infine, e più importante, la questione non riguarda solo l’opportunismo delle multinazionali (che c’è) ma il pessimo disegno degli incentivi e, ancor più, l’idea che il potenziale di crescita del Pil nel lungo termine sia figlio della spesa pubblica.
Il Ministro Orlando dovrebbe guardarsi allo specchio e prendere atto della realtà: non è coi sussidi che si crea buona occupazione, e non è chiedendoli indietro che si restituiscono al paese le opportunità distrutte dall’eccesso di tasse e di regolamentazione che, anzi, proprio leggi come questa rischiano di esacerbare.

Alcune riflessioni

Non conosco ancora i contenuti del decreto Orlando, quindi mi limito a focalizzare alcuni punti del documento dell’Istituto Bruno Leoni.
La prima osservazione è che non c’è una controproposta elaborata in alternativa ai presunti contenuti dello schema Orlando; si sostiene che lo Stato, come nella più pura teoria liberista, non debba in alcun modo interferire con la tutela della libertà di impresa. Quindi di fronte a situazioni con importanti riflessi economici e sociali (si fa cenno a imprese con più di mille dipendenti) lo Stato non dovrebbe fare nulla nella certezza che ogni intrusione dello Stato nelle decisioni delle imprese e del libero mercato siano inutili se non addirittura dannose.
Riconoscendo come meno controversa quella parte della norma che potrebbe prevedere la restituzione di aiuti di Stato concessi nel biennio precedente, l’argomentazione dell’Istituto osserva che tale restituzione è già prevista dal decreto Dignità e spesso anche dai bandi con cui gli aiuti vengono erogati. Ed aggiunge una frase agghiacciante “non ci vuole molto ad aggirare i vincoli attraverso appostazioni contabili che facciano emergere squilibri patrimoniali, magari anticipando l’iscrizione di poste negative”. Tradotto in linguaggio corrente l’Istituto dichiara l’inutilità di porre condizioni agli aiuti di Stato, tanto, truccando i bilanci, i vincoli posti si possono facilmente aggirare.
Ma l’iperliberismo dell’Istituto si afferma in tutta la sua linearità quando afferma che le politiche interventistiche sono completamente errate essendo basate sull’idea errata che il potenziale di crescita del Pil nel lungo termine sia figlio della spesa pubblica.
Su un punto però convengo con quanto espresso dall’Istituto, quando il documento parla de “il pessimo disegno degli incentivi”. Il documento ritiene pessimo lo strumento degli incentivi perché tendono a corrompere la purezza delle decisioni del capitale, io condivido la negatività degli incentivi per un’altra ragione.
Gli incentivi, e ricordo che l’ammontare degli incentivi regalati alle imprese sono annualmente pari al gettito IRES, sono un trasferimento dalla comunità al capitale come se un soggetto (la comunità) finanziasse una impresa apportando capitale sociale ma a fronte di questo conferimento a quel soggetto (la comunità) non fosse riconosciuto alcun diritto: né proprietario (azioni societarie), né di partecipazione (all’assemblea dei soci), né di gestione (consiglio di amministrazione), né economico (distribuzione dividendi).
Tutti questi diritti, naturale bagaglio di un normale soggetto che sottoscrive o acquista azioni di una società, sono negati al soggetto comunità e vengono appropriati dal capitale che ha trovato così un ulteriore modo di appropriazione del plusvalore tramite fiscalità.
Ecco allora la mia proposta che ogni euro che la comunità eroga alle imprese, venga erogato nella forma di partecipazione ovvero proprietà sociale nell’impresa.
In caso di proposta di delocalizzazione non ci sarebbe da richiedere in restituzione dei fondi che continuano ad essere della comunità ed anzi la comunità avrà voce in capitolo nel decidere sulla proposta stessa.