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VOGLIAMO UN PAESE CHE PENSA RIFORMISTA

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Alessandro Barbano

Care lettrici e cari lettori, abbiamo un’ambizione. Vogliamo essere la piazza delle idee riformiste del Paese. Di più, vogliamo incarnare un modo di pensare riformista. Vogliamo rappresentare un’amicizia intellettuale per tutti i cittadini che non capiscono, e non accettano, il ricatto di una scelta tra il bianco e il nero, cioè la riduzione della complessità della politica e della vita a due opzioni contrapposte, ma in un certo senso simili. Perché figlie della stessa demagogia. Molti di quei cittadini ormai vivono con i tappi alle orecchie. Spengono la tv per proteggersi dalla banalità binaria dei talk e sottrarsi a quello che Giuseppe De Rita ha definito il virus dell’opinione. Cioè un microbo che scolla le idee dalla loro connessione oggettiva con i saperi e i contesti, e da quella soggettiva con le competenze individuali. Si arriva così a discutere del conflitto tra arabi e israeliani, o tra russi e ucraini, come se si trattasse di scegliere tra due canzoni di Sanremo. Dietro l’inganno di una libertà di pensiero aperta a tutti, il virus dell’opinione disegna una democrazia senza qualità.

A quei cittadini delusi promettiamo di prenderci cura del pensiero riformista. Di rigenerarne la densità storica. Di coltivarne la profondità con il metodo del dubbio. Di perseguirne la veggenza. E di farlo valere nelle vicende concrete del nostro tempo, nei modi che più avanti diremo. Noi non rappresentiamo uno o più partiti, e neanche un polo terzo rispetto ai primi due, che a oggi non esiste, al netto dell’interesse elettorale di più soggetti politici a convergere su una lista comune in vista delle elezioni europee. Ma sentiamo una responsabilità che coincide con un’occasione. Nell’ultimo decennio il populismo ha assediato la democrazia europea e ha atterrato quella italiana. Qui è arrivato a Palazzo, ha mostrato tutta la sua inadeguatezza e ha tradito la promessa di inverare una sovranità orizzontale e diretta. Ma, come molte ideologie e pseudoideologie che sopravvivono al loro fallimento storico, si è spalmato nel senso comune. Tanto dell’opinione pubblica, quanto delle classi dirigenti. Ne è specchio la polarizzazione delle idee, che attraversa l’intero quadro politico e declina la complessità in complicazione. Il risultato è un Paese incattivito, e sostanzialmente immobile, nel quale le riforme slittano e, se si fanno, risultano irrilevanti. Perché, quando pure superano la trincea del conflitto politico e sociale, dietro la bandierina sventolata del cambiamento celano lo scambio tra la maggioranza e i gruppi di pressione, portatori di interessi in contrasto con quelli della collettività.

Che siano i balneari o piuttosto i tassisti, i medici di base o gli agricoltori. Il corporativismo e il populismo hanno cronicizzato la crisi della democrazia italiana. Ma, per contrasto, hanno aperto un’autostrada a un’offerta politica autenticamente riformista, che tuttavia non si è ancora materializzata nel Paese con una credibilità e una forza rappresentativa pari al consenso potenziale di cui dispone. Chiedersi perché quest’occasione è stata fin qui mancata è un presupposto irrinunciabile.

Con troppa semplificazione il divorzio tra Italia Viva e Azione è stato spiegato con la presunta incompatibilità caratteriale tra i due leader, Matteo Renzi e Carlo Calenda. Noi riteniamo che le ragioni di questo fallimento non vadano cercate in un eccesso di personalismo, ma in un deficit di cultura politica. Tanto rispetto al metodo, quanto rispetto alla sostanza. Anziché investire in una federazione in cui far convogliare e sciogliere le tante e diverse identità riformiste, ci si è preoccupati di dividere la torta prima ancora di averla fatta lievitare. Ha prevalso una logica pattizia, con l’obiettivo di accaparrarsi, in parti convenienti per ciascuno, gli spazi rappresentativi della nuova alleanza. Ma ciascuno è rimasto nel recinto delle proprie appartenenze, rinunciando a riportare la giusta competizione personale al confronto sui temi dell’offerta politica e a coinvolgere segmenti preziosi della società civile.

Questo metodo denuncia una sostanziale sfiducia per le forme della politica, archiviate come obsolete da chi immaginava che la forza della leadership ne fosse il sostituto storico. È vero il contrario: i partiti, con le loro articolazioni territoriali, le loro procedure e i loro congressi sono da sempre il naturale contrappeso del leader e il mezzo per declinare il consenso in partecipazione, trasformando le rivalità da tossine distruttive in linfa vitale del sistema.

Per lo stesso motivo la crisi rappresentativa che investe tutte le democrazie e, in specie, quella italiana, non si risolverà con la verticalizzazione del potere, ma con la rilegittimazione della politica. Non sono il presidenzialismo o piuttosto il premierato la panacea della governabilità, ma anzitutto la regolamentazione e il finanziamento dei partiti, il ripristino delle immunità parlamentari e le preferenze sulla scheda elettorale. Ma ciò che vale per la politica vale anche per la società: alla crisi dei corpi intermedi, divenuti agenzie distributive di rendite, il riformismo non risponde azzerandoli, ma restituendoli alla funzione virtuosa di filtrare gli interessi di cittadini e categorie e trasferire a valle responsabilità collettive.

Il nostro riferimento non sarà uno o più soggetti partitici, ma prima di tutto quella parte di società che pensa riformista e che vuole ridare forma e spessore alla politica, reintermediare una democrazia caduta in ostaggio delle corporazioni, ricostituire una pedagogia che rivaluti in forme nuove la funzione e la stessa estetica della delega, ricomporre la frattura tra poteri e saperi, rilanciare le competenze, coltivare doveri e ambizioni adeguati al rango di un grande Paese.

Quanto alla sostanza, il Riformismo si definisce con una pregiudiziale, che riguarda il giudizio sulla globalizzazione. Al netto delle sue non marginali asimmetrie – pensiamo alle diseguaglianze e all’indebolimento del ceto medio nelle democrazie occidentali -, questa resta il processo attraverso cui le libertà economiche e politiche e i diritti civili si sono diffusi sul pianeta, sottraendo alla fame e all’isolamento intere popolazioni. Noi diffidiamo tanto di chi l’abiura in nome di un presunto primato del sovranismo, tanto di chi la idolatra in nome del progresso inteso come un’evoluzione indipendente dalle scelte e dagli errori dell’uomo.

La storia non è un destino ma un processo da governare, dosando visione e realismo. Ciò è tanto più vero nel cuore delle tre transizioni che investono la contemporaneità, quella ecologica, quella digitale e quella demografica. L’Europa fin qui le ha affrontate a singhiozzo, tra fughe in avanti e ritirate strategiche. Che riguardassero la riconversione dell’automotive o piuttosto il futuro dell’agricoltura intensiva. Ma l’essenza del riformismo sta nell’idea che grandi cambiamenti sociali conseguano a piccoli cambiamenti dei meccanismi regolatori. Poiché la misura è l’unica vera leva che resta alla politica per imprimere alle società avanzamenti reali e non fittizi.

La stessa misura risolve la storica contraddizione tra mercato e politica. In una fase di riflusso statalista, qual è quella che viviamo, noi riaffermiamo la libertà del primo, in nome di un primato della persona e della società, e la potestà regolatrice della seconda, rifiutando la pregiudiziale di tipo ideologico che vuole mantenere in capo allo Stato la gestione di tutti i servizi pubblici. Separiamo il concetto di pubblico, inteso come funzione di un interesse collettivo, dal concetto di statale, inteso come appartenenza organica all’istituzione. Noi riteniamo che sia giusto rafforzare, con specifici interventi legislativi, la dimensione plurale dell’economia, opponendo gli stessi antidoti del mercato a ogni sua deriva monopolistica. Pensiamo inoltre che sia l’innovazione l’occasione per estendere le responsabilità collettive e le nuove forme di tutela sociale. La flessibilità che questa introduce nel lavoro e nelle relazioni economiche va incentivata e governata, non rifiutata a priori.

Lo scopo di una politica per l’Italia e per gli italiani coincide con la capacità di coinvolgere la società civile e le sue migliori risorse attorno ad alcuni obiettivi specifici:

1. Rilanciare la crescita, agendo con una nuova più incisiva spinta riformatrice sui fattori di efficienza, innovazione, sviluppo e attrattività, con una più ambiziosa riduzione fiscale sulla libertà d’impresa, e con una nuova politica industriale sui fattori della produttività;

2. Ridurre il debito attraverso una rigorosa ristrutturazione della spesa pubblica, che va disancorata una volta per tutte dalla ricerca del consenso, spostando il fuoco della politica di welfare dall’assistenza sociale allo sviluppo;

3. Rimettere in moto l’ascensore sociale e la crescita demografica, e ribaltare l’asse della responsabilità tra le generazioni;

4. Far crescere in equilibrio libertà individuali e doveri sociali.

Parte di questa sfida è la ridefinizione del merito, la sua misurazione e la sua giustificazione. Un Paese senza élite meritocratiche è la democrazia dei furbi e dei mediocri. Che calpesta l’orgoglio di far valere il proprio talento e i propri sacrifici, discrimina i più deboli, innaffia il nepotismo. Lo racconta Adrian Wooldridge, editorialista dell’Economist, nel suo libro «The Aristocracy of talent», dimostrando come il merito sia il volto più autentico della giustizia sociale e stia alla democrazia esangue e corporativa come un’energia rivoluzionaria che la sfida e, perciò, fa paura. Due motivi per farne una risorsa della solidarietà e non consegnarlo alla soffitta della storia o, peggio, all’individualismo di chi vorrebbe sfruttarlo solo per sé. Il riformismo adotta il merito come leva di ogni processo civile ed economico, e come fonte di maggiori responsabilità della classe dirigente, legittimando i migliori ad assumere la responsabilità di scelte decisive in nome e per conto della società. Ciò vuole dire anche azzerare un racconto del Paese scritto con il diritto penale e surrogarlo con una retorica pubblica centrata sulla promozione dei doveri sociali e sull’obiettivo di valorizzare i talenti e affidare loro le sorti dell’Italia.

La riforma della giustizia è parte centrale di questo progetto. Noi ci proponiamo di rendere effettivo il principio costituzionale del giusto processo, fondato sull’acquisizione della prova in dibattimento, sulla parità d’armi tra accusa e difesa, sulla terzietà del giudice. Ciò vuol dire rimettere in discussione la posizione del pm nell’ordine giudiziario, rispetto alla sua carriera e alle sue funzioni. Riformare il Csm, ridefinendo i confini di un’indipendenza a vantaggio di principi di efficienza organizzativa. Limitare l’abuso della custodia cautelare. Riportare il diritto penale dal reo al reato, tipizzando alcune vaghe fattispecie prive di offensività. Cancellare la mostruosa legislazione speciale antimafia. Ridurre l’invadenza del processo penale nella vita della democrazia, depenalizzando e riducendo i tempi dei processi. Restituire concretezza ed effettività alle garanzie difensive, mortificate da una prassi inquisitoria che si afferma contro gli stessi codici. Limitare l’uso degli strumenti investigativi, e in primo luogo delle intercettazioni, alla stretta finalità probatoria, scongiurando le prassi distorsive della polizia giudiziaria e le sue derive securitarie. Garantire nella sostanza la presunzione di innocenza per l’indagato e l’imputato fino al giudicato. Restituire alla pena la sua funzione rieducativa, constrastando la sola idea di un carcere a vita e di una detenzione in forme contrarie al principio di umanità.

Questo progetto riformatore non ha nessuna possibilità di superare le resistenze di un sistema refrattario a qualunque modifica, se non è sostenuto da una retorica autenticamente liberale, alternativa e opposta a quella del giustizialismo. Negli ultimi tre decenni ogni cambiamento si è fermato sulla trincea corporativa della magistratura associata, capace di spaccare le maggioranze politiche facendo leva sul consenso dell’opinione pubblica. Questi fallimenti insegnano che, prima ancora che nel Parlamento e nell’universo del diritto, la riforma va costruita nel Paese. C’è un punto della nostra storia repubblicana in cui la notte della giustizia ha gettato l’Italia in un buio asfissiante, in cui l’indagine, il sospetto, l’ansia della punizione sono diventati la grammatica di una «democrazia penale». Questo non ha coinciso con un singolo provvedimento legislativo, ma con il prevalere di un’idea nella società: che conoscere il contenuto delle intercettazioni penalmente irrilevanti fosse giusto e doveroso per illuminare il lato oscuro del potere. Quando un simile convincimento si afferma come una religione civile, di marca illiberale, perfino il valore della trasparenza muta in ipersorveglianza e la stanza di vetro della democrazia somiglia a una stanza dell’orrore. La riforma della giustizia coincide perciò, più di ogni altro obiettivo politico, con una convincente pedagogia civile, diretta a ricostituire nell’opinione pubblica le ragioni dello Stato di diritto. Sarà questo per noi un impegno prioritario e indefettibile. Scriviamo mentre la guerra continua a seminare morte dentro i confini geografici e simbolici della nostra civiltà. In questo clima il riformismo è un grido d’appello a fare quello spicchio di Europa che manca. Vuol dire costruire un sistema di difesa comune. Vuol dire, ancora, emettere debito per sostenere i costi delle transizioni e prendersi cura dei cosiddetti perdenti. Vuol dire imboccare la via stretta che porta a un inedito modello di società e di equilibrio geopolitico globale, cioè realizzare il nuovo conservando ciò che di buono c’era nel vecchio ordine in disfacimento. Tuttavia non basta fare l’Europa perché Putin smetta di essere un fattore di destabilizzazione e di minaccia per tutti, o perché il Medioriente ritrovi una tregua credibile e un percorso di riconciliazione e convivenza. Nelle condizioni date, diventare protagonisti può voler dire, almeno in un primo momento, dover rischiare di più e assumere responsabilità supplementari. Molti potrebbero non volere che l’Europa esista per davvero e che esprima in atto ciò che è già in potenza, cioè il concentrato più grande di forza militare, politica, economica e civile del mondo.

Una volta fatta l’Europa, potremmo doverci sporcare le mani più di quanto le opinioni pubbliche e alcune élite europee sembrino disposte a fare. Maturare la coscienza dei tempi che viviamo vuol dire anzitutto tornare a sentirsi europei e occidentali, senza iattanza ma anche senza sensi di colpa, e tenere per buona la pregiudiziale liberale che distingue nettamente tra aggredito e aggressore, su cui sui si fondano la civiltà del diritto e la pace costruita in Europa dopo le tragedie del XX Secolo. Questa distinzione non mancherà su queste pagine.

Care lettrici, cari lettori, assumendo la direzione del Riformista, rivolgiamo un saluto a Matteo Renzi e Andrea Ruggeri, da cui riceviamo il testimone. Proviamo in questo momento un’emozione non comune. Questa prestigiosa e ormai storica testata è consonante, come un abito cucito su misura, con la cifra culturale e civile di chi vi scrive in questo momento. Per questo una gratitudine sincera va all’editore, Alfredo Romeo, per l’occasione che, con la sua fiducia, ha voluto accordarci. Promettiamo di ripagarla con la dedizione che si deve alla cura di un bene prezioso.

Fonte: Il Riformista