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Vabbè, il supergiovane Attal non s’è detto liberale. Ma il suo discorso sovranista e gay, con sospetto di riformismo, complica la vita ai populisti

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DI GIULIANO FERRARA

Se anche Cesare, l’idolo del generale Vannacci, si sottopose alla libido di Nicomede re di Bitinia, che cosa volete che sia la dichiarazione pubblica, nel discorso di politica generale davanti al Parlamento francese, di Gabriel Attal? Dieci anni fa ci dividevamo sul matrimonio per tutti, ha detto, ma ora – ha aggiunto – è un elemento di distinzione del carattere e dell’identità francesi l’avere un primo ministro apertamente omosessuale come me. Ben scavato, giovane talpone (parafrasiamo Marx che parla della talpa ovvero della rivoluzione e del suo lavorio sotterraneo). Per la verità Attal subì un outing, il suo è un coming out personale solo in seconda battuta, la sua nemesi Juan Branco, un ossesso che gli era compagno di scuola e milita in modo poco ortodosso contro chiunque appartenga alle classi dirigenti, denunciò il suo legame amoroso con l’attuale ministro degli Esteri Stéphane Séjourné. Seconda battuta ma sontuosa, solenne, tra gli ori e gli stucchi di Palais Bourbon, sede dell’assemblea nazionale. Eper quanto la cosa in sé sappia in certa misura di wokismo, l’ideologia americana che trasforma i diritti in bandiera pedagogica e in obbligazione di stile e di vita, non ha detto di essere “gay”, perché gli anglismi nella vita politica e culturale francese si evitano per quanto possibile, quasi sempre. Ma qualcosa questa rivendicazione dell’orientamento sessuale significa.
Il discorso di politica generale del nuovo supergiovane primo ministro scelto da Emmanuel Macron era impeccabile per come era scritto e pronunciato malgrado i frizzi, i lazzi e le sonore scortesie d’aula di opposizioni imbaldanzite dall’ultima rivolta dei contadini contro il potere e dal carattere di maggioranza solo relativa della base parlamentare del governo. Il suo centro ideologico era però nella coppia concettuale di sovranità e identità, due neologismi, diciamo così, della politica nazionale in Francia (e altrove) che si iscrivono nel circolo dei vecchi valori rivoluzionari di fraternità, libertà e eguaglianza, e risultano più attuali e febbrili, a disposizione di molte borse populiste e ora anche di quel centro liberale e riformista che, come diceva Oscar Wilde dell’amore omofilo, non osa dire il suo nome. L’omosessualità degli arrivati e soddisfatti, dei bravi e competenti, dei giovani stimati e applauditi nello stato di grazia dell’inaugurazione di un nuovo potere, salvo la malacreanza delle opposizioni, diventa allora l’ersatz, il sostituto ideale del liberalismo, un morbo anglosassone che a Parigi non sta bene evocare nemmeno con la sola forza delle parole. Questo è un po’ un peccato, perché se Attal avesse scelto di tralasciare il riferimento al suo modo privato e individuale di amare, e si fosse invece schiettamente detto liberale, l’effetto sarebbe stato più sincero, genuino e forse addirittura rivoluzionario.
Certo, la gay culture, perché questo è, esprime nuovi criteri di tolleranza e comprensione e accettazione senza riserve che vanno festeggiati, visto come eravamo messi solo pochi anni fa, quando Fini negava a un prof. della scuola immaginata di suo figlio o di sua figlia uno statuto professionale eguale se omosessuale. La gay culture può essere criticata, in nome di altri criteri di vita, ma è un’impresa sempre più difficile, direi spericolata, dopo il Patriarca Kirill, l’autocrate Putin e il vannaccismo strisciante della provincia italiana. La cosa migliore è il ricorso al motto spinozista, né ridere né piangere ma capire. E intanto, mentre si sbriciolano matrimonio tradizionale e famiglia, che sono gli idoli contro cui la gay culture ha combattuto e vinto le sue battaglie, rallegriamoci del fatto che dopo il discorso sovranista e gay, con un sospetto che va generosamente concesso di genuino riformismo politico, sarà più complicato il lavoro di ipersemplificazione populista. Almeno questo.

Fonte: Il Foglio