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Trump duro, Biden cambia. Welcome on board, Joe

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AGI – La strategia del candidato su Zoom è evaporata, i democratici cambiano spartito, altro giro, altra musica. La convention repubblicana che di nome era a Charlotte e in realtà era ovunque, i viaggi diTrump negli Stati in bilico, la minaccia sempre più reale di un aggancio e un sorpasso. Troppo. Alla fine, è successo quanto abbiamo anticipato: Joe Biden farà i comizi negli Stati in bilico. La realtà è più forte dei desideri, il candidato dem ha dovuto prendere atto di una cosa ineludibile: la sua campagna è debole, gode dei vantaggi della crisi del coronavirus e del collasso da lockdown, ma con un presidente che fa volare l’Air Force one da un set all’altro, dal Wisconsin alla Pennsylvania, con una sagoma pronta a giocare tutte le palle che passano dalla sua parte del campo, anche quelle più dure (nel fine settimana andrà dove l’uragano Laura ha seminato distruzione), non puoi restare chiuso in casa con la mascherina e raccontare al popolo americano che tu sei il Commander in Chief che lo guiderà in tempi di guerra come questi. Biden ha dovuto prendere atto della realtà e, prima che sia troppo tardi, cambia strategia. La notizia è questa, poi c’è quello che tutti i giorni interpreta un presidente da sottosopra, Trump.

L’accento su economia e ‘Law and Order”

Nomination, discorso di chiusura, agenda. I repubblicani confermano quanto dicono i sondaggi, Trump è forte sull’economia e la sicurezza, sono i due punti d’attacco sui quali i dem hanno il fianco scoperto. Sul primo si materializza con un piano di nuove tasse per 4 mila miliardi in 10 anni e l’espansione delle norme ambientali che per la business community sono un regalo ai concorrenti globali (leggere alla voce Cina); sul secondo sta arrivando il boomerang della violenza nelle zone suburbane guidate da governatori democratici. Biden e Harris hanno cominciato a rispondere alla campagna repubblicana che “aggancia” i dem alla guerriglia urbana. In questo scenario, anche schierarsi con la nobile protesta anti-razzista diventa un problema di comunicazione, percezione del messaggio e uso strumentale che può farne l’avversario. La campagna presidenziale in America non è il regno del fair play, è un match di wrestling dove i colpi sono veri. Kamala Harris fa la sua battaglia in nome dei diritti, è il suo ruolo, ma più andrà avanti la campagna, più emergerà il problema dell’equilibrio del suo messaggio, sta emergendo come un’isola vulcanica il tema della moderazione dei dem, della necessità di assumere (anche) una posizione centrista nello spazio politico e la Harris sembra finora non aver colto in pieno questo aspetto importante: più sposta a sinistra la campagna dei dem, più i repubblicani hanno un argomento forte per dire agli americani che quella del ticket Biden-Harris è una presidenza “socialista” e morbida nei confronti dei violenti. È l’antico tema della legge e dell’ordine. Nella vecchia e dormiente Europa tutto questo fa sorridere, si liquidano questi argomenti con uno sbuffo incipriato, ma stiamo parlando dell’America, un posto dove l’immaginario si è fatto, si fa (e disfa) con la Bibbia, la forca e la Colt. 

La scenografia alla Casa Bianca

South Lawn della Casa Bianca, mille ospiti sul prato, Stars and Stripes sormontate dall’aquila dorata, coccarde, lo scenario ammobiliato per una campagna presidenziale. Ivanka Trump ricorda che “Washington non ha cambiato Donald Trump, è Trump che ha cambiato Washington”, chiama il padre, “a warrior in the White House”. Trump scende le scale con Melania, mano nella mano, tutti in piedi, cravatta regimental azzurra e rossa per il presidente, abito verde per la First Lady, la regia fa uno stacco di telecamera dal basso verso l’alto, tappeto rosso, è l’entrata in scena che ti aspetti, tutto “Made in America”.

“Four more years”. Applausi. “U-S-A”. Le prime parole sono per chi è in Texas, Louisiana, Arkansas e Mississippi, per le popolazioni colpite dall’uragano Laura, “sarò là nel fine settimana”, annuncia. Ringraziamento alla famiglia, parole di zucchero filato per Melania, amore per i figli “più di quello che posso esprimere”, ringraziamento per il lavoro di Mike Pence. Accettazione della candidatura, “I profoundly accept this nomination for President of the United States”. Approvazione del pubblico, ancora e sempre “U-S-A”. Preludio del programma del secondo mandato: “Il partito di Abramo Lincoln è unito, determinato, pronto per milioni di americani”, nel mio secondo mandato ricostruirò l’economia, tornerò velocemente all’occupazione piena, e proteggerò l’America da tutti i pericoli, conducendola verso nuove frontiere e scoperte, un nuovo spirito d’unità per la nostra grande nazione”. Torna il registro biblico che abbiamo registrato in tutte convention, l’opposizione tra la luce e le tenebre, quel passaggio che segna la distanza tra la cultura politica dei democratici e quella dei repubblicani: “L’America non è nelle tenebre, è la torcia dell’intero mondo”. La torcia della Bibbia, Zaccaria, 12:6: “In quel giorno farò dei capi di Giuda come un braciere acceso in mezzo a una catasta di legna e come una torcia ardente fra i covoni; essi divoreranno a destra e a sinistra tutti i popoli vicini. Solo Gerusalemme resterà al suo posto”. Ogni parola usata s’addensa di simboli, la torcia è quella della Statua della Libertà, al centro della baia di Manhattan, la fiamma sul fiume Hudson, “La Libertà che illumina il mondo”, quella che stringe la torcia nella mano destra, mentre porta sulla sinistra una tavola con una data,  4 luglio 1776, il giorno dell’Indipendenza americana. 

Luce e tenebra

Il racconto di Trump è l’America libera, l’America trasformatrice, l’ottimismo, questa è la direzione scelta dai repubblicani, in netto contrasto con il paese che muore nell’oscurità su cui hanno puntato i democratici. Il 3 novembre vedremo quale racconto dell’America sarà quello vincente. 

La Casa Bianca è il luogo della Storia, Trump ne richiama nomi e figure, la casa di Teddy Roosevelt e Andrew Jackson , di Grant e Eisenhower, di Thomas Jefferson, di Abraham Lincoln, di Franklin Delano Roosevelt che qui accolse Winston Churchill per preparare “la vittoria nella Seconda guerra mondiale”. La costruzione di una nazione, le guerre e la scoperta, la sfida del domani e la parola libertà che si lega in maniera indissolubile. E ora, l’ultima battaglia, il nuovo “nemico invisibile”, il coronavirus che “sconfiggeremo per emergere più forti di prima”. C’è un passaggio che segna un distacco totale dai dem, una linea di demarcazione, una faglia culturale profonda che segna questa campagna presidenziale: “Quello che unisce le generazioni è una incrollabile fiducia nel destino dell’America e una infrangibile fede nel popolo americano”. La collisione dei due mondi, da una parte i dem del “noi e voi”, il dipinto di un paese in inesorabile declino, le tenebre, dall’altra gli Stati Uniti che continuano ad avere “una missione speciale nel mondo”. La storia galoppa nella retorica del discorso di Trump: “È questa convinzione che ha ispirato la formazione della nostra unione, la nostra espansione verso ovest, l’abolizione della schiavitù, il passaggio dei diritti civili, il programma spaziale e il rovesciamento del fascismo, della tirannia e del comunismo”. La risposta americana che nel presente si traduce in una promessa:”Produrremo il vaccino forse prima della fine dell’anno, forse anche prima”. Questa parte del discorso di Trump sulla grandezza americana serve a introdurre un’ombra che incombe, il nemico in questa campagna, il partito democratico di Joe Biden: “Eppure, nonostante tutta la nostra grandezza come nazione, tutto ciò che abbiamo raggiunto è ora in pericolo. Questa è l’elezione più importante nella storia del nostro Paese”. Compare la guerra dei due mondi, le due Americhe: “In nessun momento gli elettori si sono mai trovati di fronte a una scelta più chiara tra due partiti, due visioni, due filosofie o due agende. Questa elezione deciderà se salvare il sogno americano o se permettere a un programma socialista di demolire il nostro amato destino. Deciderà se creare rapidamente milioni di posti di lavoro ben pagati o se schiacciare le nostre industrie e inviare milioni di questi posti di lavoro all’estero, come è stato stupidamente fatto per molti decenni. Il vostro voto deciderà se proteggere gli americani rispettosi della legge o se dare libero sfogo alla violenza degli anarchici, degli agitatori e dei criminali che minacciano i nostri cittadini”. È la chiamata di Trump alla battaglia, i contenuti da Armageddon della convention democratica e la cronaca da guerriglia di queste ore hanno fornito il chiodo per appendere il quadro dei repubblicani. Sono le conseguenze inattese della campagna dei dem sulla catastrofe già consumata. E sono diventate un problema per un partito che guida la corsa ma improvvisamente sente un terreno fragile sotto i piedi.

La zampata a Biden

Trump sfodera l’artiglio, dà la zampata, non usa giri di parole, fa Trump al suo meglio che per gli avversari coincide con il suo peggio: “Questa elezione deciderà se difenderemo lo stile di vita americano o se permetteremo a un movimento radicale di smantellarlo e distruggerlo completamente. Non succederà. Alla Convention nazionale dei Democratici, Joe Biden e il suo partito hanno ripetutamente assalito l’America come terra di ingiustizia razziale, economica e sociale, quindi stasera vi faccio una semplice domanda: Come può il Partito Democratico chiedere di guidare il nostro Paese quando ha passato così tanto tempo a distruggere il nostro Paese?“. Sono le domande che circolano tra gli elettori moderati, quelli che guardano le immagini della devastazione, muovono il piccolo e grande business americano. I repubblicani hanno l’obiettivo chiaro, puntare sui centristi indecisi, convinceranno gli elettori a andare a votare per loro e non per Biden-Harris? Una cosa è certa, il messaggio è talmente minaccioso che ha indotto i democratici a cambiare strategia. Contenere Trump è impossibile, gli eventi stanno cambiando il contesto della campagna più rapidamente di quanto immaginavano gli strateghi democratici. L’idea originaria era quella di giocare di rimessa, ma con la speranza di rimandare la palla indietro stando fermi, immobili. Con Trump questa è un’illusione, hanno sottovalutato ancora una volta il carattere dell’uomo, The Donald, piaccia o meno, è un combattente, copre tutte le parti del campo e il problema con un soggetto simile è che manda sempre la palla ai lati del campo, la fa viaggiare veloce, scende sotto rete in un lampo e assesta lo smash. È un animale politico strano, sulla terra rossa è un passista, fa lunghi scambi e cerca di buttare giù l’avversario per sfinimento, sul prato verde è infido, pericoloso, da numero che non t’aspetti. Tennis. Guardate l’uso che fa dei poteri presidenziali: s’accende la telecamera, parte lo show, la grazia concessa, la cittadinanza per chi sognava l’America, l’Air Force One che diventa il simbolo della velocità, la reazione, il movimento, la Casa Bianca che si trasforma in set del potere. Tutto ha una logica narrativa stringente, le località scelte con cura dai repubblicani per lanciare il loro messaggio (il vicepresidente Mike Pence ha parlato da Fort McHenry, a Baltimora, “la città dei pirati”, il baluardo di chi si era ribellato al dominio inglese, la conquista dell’Indipendenza. Sono elementi essenziali del discorso politico americano, chi pensa di poterne fare a meno compie un errore, non conosce la storia o la piega secondo i suoi desideri) scorrono tutte inesorabilmente nel fiume della gloria, della potenza, della storia, della solidità della fortezza America, un luogo permanente della cultura, della letteratura, del cinema degli Stati Uniti.  

Il duello tv

Nancy Pelosi ha fiutato il pericolo e avvisa Biden di non accettare appuntamenti al buio. Fosse per lei, il dibattito tra Biden e Trump non si farebbe mai: “Non credo che ci dovrebbero essere dibattiti, non legittimerei una conversazione con lui né un dibattito in termini di presidenza degli Stati Uniti”. Quello che è un ovvio attacco a Trump è in realtà un avviso delicato a Biden: non scendere nell’arena con Donald. Biden ha detto che farà l’esatto contrario: “No, ho intenzione di dibattere con lui. Sarò il fact-checker sul palco mentre discuto con lui”. Sarà una serata da pop-corn.

Biden continua a guidare la corsa con 7.1 punti di vantaggio nella media nazionale di Real Clear Politics, ma i segnali di un suo cedimento si moltiplicano. L’ultimo sondaggio di Reuters/Ipsos (svolto tra il 19 e il 25 agosto) mostra una flessione in alcuni strati dell’elettorato e un effetto zero della convention democratica sui consensi. Dopo quello pubblicato da Politico, un altro certificato del “No Bump”. Biden guida la corsa 47 a 40 su Trump, ma ci sono segni preoccupanti di flessione nelle zone suburbane (-4 punti) e in questi numeri non c’è l’effetto della convention repubblicana. Ci sarà? Sulla corsa di Biden non s’è visto, attendiamo i numeri di Trump.

Sta succedendo quanto abbiamo anticipato nelle nostre cronache su America 2020: Biden cambia strategia elettorale. Era chiaro che sarebbe accaduto, era più che sufficiente guardare i dati economici e i corsi azionari di Wall Street, la curva dell’epidemia. Il contesto della corsa non poteva essere solo quello del Giudizio Universale con l’Arca di Noè di Joe. Poi è arrivato il colpo di cannone della convention repubblicana, la campagna di Trump è partita il 24 agosto. E da questo momento è un’altra corsa, Joe Biden non ha più la vittoria in tasca. È in netto vantaggio, se si votasse oggi, vincerebbe. Ma non si vota oggi, ci sono due mesi di tempo. Chi legge le cronache locali, quello che raccontano gli strategist democratici e repubblicani, vede che Trump è di nuovo nella fase MAGA, osserva sul territorio i segnali che dicono che la base repubblicana è motivata e si riconosce in Trump. Basta scorrere i titoli per rendersene conto: “Il Gop di oggi è il partito di Donald Trump” (Npr); “Il partito di Trump regna supremo alla RNC” (Los Angeles Times); “Il partito repubblicano ora è il partito di Trump” (BBC); “Una cosa è chiara, questo ora è il partito di Donald Trump” (CNN). Serve altro? Un radar sugli Stati della Rust Belt. Ecco perché Biden esce dallo scantinato. Fa la mossa che non può più rinviare, quella che (forse) eviterà ai dem di perdere una gara già (in)decisa. 

Due Americhe a confronto

Lavoro e sicurezza, “Jobs”, “Law and Order”, “l’America socialista” di Biden e la “terra della prosperità” di Trump. Due Americhe, una Casa Bianca. Siamo di fronte a una corsa di dragster che sputano fuoco. Biden andrà negli Stati-chiave perché la sua strategia dell’assenza è diventata un pericolo mortale. Fin dal primo giorno della convention repubblicana è apparsa la fragilità, la rottura come uno specchio dei pixel dello Zoom democratico. Il cambio di Biden era un fatto scritto, la campagna nel “basement” della sua abitazione, in Delaware, si è trasformata in un picnic sulle sabbie mobili, mentre Trump bombardava tutte le postazioni dei dem. Il modo più rapido e efficace per dissipare un vantaggio elettorale che resta ancora grande, ma sempre più in bilico. Biden, saggiamente, cambia quello che non si poteva più sostenere, una campagna presidenziale da segregato in casa. Ieri sera, intervistato da MSNBC ha cominciato dicendo che stava prendendo in considerazione l’idea di andare a Kenosha, in Wisconsin, il teatro dove si è spostata la protesta del Black Live Matters, poi ha inserito la chiave sul cruscotto, acceso il navigatore e annunciato che andrà dove balla il voto e si decide la presidenza, in Wisconsin, Minnesota, Pennsylvania e Arizona. “Battleground States”, Stati in bilico.  

Biden sa che questo è un giro di giostra che non passa inosservato, tutta la comunicazione dei democratici era giocata sulla compostezza – fino all’immobilismo – mascherina e distanziamento sociale, niente viaggi, stop alla campagna fisica, “go online” e lasciamo che Trump sia consumato con il coronavirus. Finora aveva funzionato, poi è partito il treno di The Donald. Biden sottolinea in perfetto stile igienista che la sua campagna si svolgerà “nel rispetto della regole stabilite dai vari Stati per la pandemia”, ma il fatto politico è quello del candidato dem che improvvisamente.. “si muove”. Un dettaglio? Gli americani notano i dettagli e si fanno una domanda: può il futuro Commander in Chief stare chiuso in casa? No. “Welcome on board, Joe”.

Vedi: Trump duro, Biden cambia. Welcome on board, Joe
Fonte: estero agi


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