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Trasferimento per assistenza a familiare disabile: vero e proprio diritto, ma non senza limiti

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Il Tribunale di Roma, con sentenza del 30 gennaio 2024, aderisce al filone giurisprudenziale secondo cui il lavoratore che assiste un familiare disabile vanta un vero e proprio diritto soggettivo, benché limitato, alla scelta della sede di lavoro più vicina e non una mera aspettativa: da ciò discende che il datore di lavoro – in applicazione dei doveri di buona fede e correttezza – è tenuto a effettuare una verifica puntuale delle carenze in organico e possa opporre il proprio rifiuto al trasferimento solo se la sua concessione determini un onere, di carattere economico o organizzativo, sproporzionato o eccessivo.

ORIENTAMENTI GIURISPRUDENZIALI

Conformi

Cass. 11/11/2022, n. 33429

Cass. 1/9/2022, n. 25836

Cass. 12/10/2017, n. 24015

Cass. 12/12/2016, n. 25379

Cass. 7/6/2012, n. 9201

Difformi

Trib. Bari 25/10/1999

La sentenza del Tribunale di Roma si inserisce nell’ambito di un dibattito giurisprudenziale avviato da tempo, inerente alla sussistenza di un diritto o meno del lavoratore che assiste un familiare con disabilità a scegliere la sede di lavoro più vicina al domicilio della persona da assistere.

Nel dettaglio, l’
art. 33, comma 5, della
L. n. 104/1992, la cui applicazione costituisce oggetto della pronuncia in commento, pone un limite ulteriore, rispetto a quello delle “comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive” di cui al primo comma dell’
art. 2103 c.c., al potere datoriale di disporre unilateralmente del luogo di esecuzione della prestazione lavorativa.

La compressione di tale potere, che costituisce una delle molteplici declinazioni del principio di libertà di iniziativa economica privata, deriva, secondo detta norma, dall’attribuzione al lavoratore che assista con continuità un parente, o un affine entro il terzo grado, portatore di handicap, dello specifico “diritto a scegliere, ove possibile, la sede di lavoro più vicina al proprio domicilio” nonché del diritto a non essere trasferito ad altra sede senza consenso.

La decisione del giudice capitolino si focalizza proprio sull’inciso “ove possibile” che, nelle intenzioni del legislatore del 1992, mirava a salvaguardare le esigenze economiche e organizzative dell’azienda.

Venendo ai fatti di causa, il ricorrente è un lavoratore assunto con contratto di lavoro a tempo determinato a far data dal 3 ottobre 2003 che, dopo aver ottenuto la dichiarazione di nullità del termine apposto al contratto e quindi la sua conversione a tempo indeterminato, era stato assegnato a una sede di lavoro (Torino) diversa da quella iniziale (Isernia), in una regione lontana dalla sua residenza e da quella della zia, in condizioni di handicap grave, divorziata e senza figli, con la quale conviveva e che assisteva con continuità.

L‘assegnazione alla sede di Torino era già stata, peraltro, oggetto di impugnazione da parte del ricorrente, in relazione alla quale, successivamente alla valutazione di legittimità del provvedimento effettuata dalla Corte di Appello di Campobasso, pendeva separato giudizio innanzi alla Corte di Cassazione.

A tal riguardo, il Tribunale di Roma ha escluso l’esistenza di un rapporto di pregiudizialità in senso tecnico tra i due giudizi ed ha rigettato l’istanza di sospensione del giudizio, proposta dalla società datrice di lavoro, ritenendo che all’esito del secondo giudizio instaurato non si sarebbe, in ogni caso, potuto formare un contrasto di giudicati.

Nel merito, il ricorrente contestava il rigetto della propria domanda di trasferimento presso la regione di residenza, formulata due mesi dopo l’assegnazione alla sede piemontese e motivata dall’esigenza di assistere la zia disabile.

Il datore di lavoro, infatti, aveva respinto la richiesta, fondando la propria decisione sulla mancata adesione da parte del lavoratore alle procedure di mobilità interna previste da appositi accordi sindacali sottoscritti dalla società con le organizzazioni sindacali.

Nello specifico, tali accordi stabilivano che il trasferimento presso una regione diversa da quella di assegnazione operasse sulla base di una graduatoria nazionale, formata in base ai punteggi totalizzati secondo diversi criteri, tra cui condizioni familiari e anzianità di servizio, e senza la previsione di alcuna eccezione e/o diversa procedura di mobilità/trasferimento per coloro che risultassero interessati dall’applicabilità della
L. n. 104/92, essendo già previsto un percorso agevolato per dipendenti e familiari affetti da particolari patologie.

Dopo un’attenta disamina delle disposizioni contenute negli accordi sindacali sopra citati, il Tribunale di Roma ha correttamente ritenuto tali previsione nulle, considerando che le stesse prevedevano un titolo di priorità a veder soddisfatta la propria richiesta di trasferimento solo in favore dei genitori, del coniuge o convivente more uxorio del disabile, a differenza della più ampia previsione normativa che attribuisce il diritto alla scelta della sede lavorativa più vicina al domicilio dell’assistito anche in capo ai parenti sino al secondo o, in presenza di determinate circostanze, fino al terzo grado.

In ragione di quanto sopra, il Tribunale ha pertanto escluso che la mancata partecipazione del ricorrente alla procedura di mobilità interna potesse incidere sulla valutazione di fondatezza della sua domanda.

Come anticipato, infatti, a parere del Tribunale, la risoluzione della controversia in esame doveva dipendere dalla sola interpretazione dell’
art. 33, comma 5, della
L. n. 104/1992, come risultante sia a seguito dei molteplici interventi del Giudice delle Leggi, secondo cui il diritto a scegliere la sede di lavoro più vicina alla persona da assistere non potrebbe considerarsi illimitato, come si evince dalla presenza dell’inciso “ove possibile”, che della Corte di Cassazione, che ha ulteriormente interpretato tale inciso come espressione della necessità di effettuare un bilanciamento con le esigenze economiche e organizzative datoriali.

Secondo la sentenza in commento il lavoratore caregiver ha un vero e proprio diritto soggettivo al trasferimento, benché limitato, e non una semplice aspettativa. Ciò determina che il rifiuto datoriale non può tradursi in arbitrarietà, ma l’applicazione dei principi di buona fede e correttezza impongono al datore di lavoro un esame approfondito delle esigenze aziendali ostative al trasferimento e delle quali, pertanto, il datore è onerato in termini di necessaria allegazione e prova.

Nel caso deciso dal Tribunale di Roma è stato ritenuto provato, sulla base della documentazione prodotta in giudizio nonché dei chiarimenti forniti dai testi escussi, che al momento della richiesta di trasferimento da parte del ricorrente nella sede in cui egli era stato assegnato esisteva una notevole carenza di organico, a fronte delle minori carenze presenti nelle sedi di Isernia e Campobasso.

In virtù di tali evidenze, il Tribunale ha riconosciuto la legittimità del diniego datoriale nonostante nella sede di Isernia vi fossero alcuni posti vacanti. La pronuncia in commento, dunque, aderisce al consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui non è sufficiente una carenza di organico per fondare, in capo al lavoratore caregiver, un diritto di scelta della sede di lavoro, ma è necessario dimostrare che il trasferimento non pregiudichi l’efficienza del servizio nella sede in cui il lavoratore era stato originariamente assegnato.

La pronuncia in esame dimostra anche che l’onere della prova in capo al datore di lavoro in merito alle ragioni che giustificano il rifiuto al trasferimento non possa essere qualificabile alla stregua di una probatio diabolica, come invece ritenuto da una certa dottrina, essendo evidente che ciò che si chiede al datore di lavoro di provare è di aver effettivamente condotto un’analisi puntuale della situazione aziendale nelle diverse sedi e, quindi, di aver valutato in buona fede l’opportunità di assecondare la richiesta e di averla rigettata solo laddove effettivamente non perseguibile a fronte delle legittime esigenze aziendali.

Fonte: Altalex -quotidiano giuridico