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Riforme a metà, istituzioni nel caos: la coda del diavolo

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Giuseppe Benedetto

In questi giorni, preparando la lezione per la scuola di Liberalismo della Fondazione Luigi Einaudi dal titolo “la Riforma InCostituzionale”, ho fatto una riflessione che non mi sembra sia stata oggetto di approfondimento nel profluvio dei commenti succedutisi alla proposta di riforma costituzionale presentata dal governo. Parliamo del cosiddetto premierato. Non condivido metodo e merito della prospettata riforma. Ho avuto già modo di illustrarne i motivi e, probabilmente, avrò modo di tornarci.
La Fondazione Luigi Einaudi, ormai da tempo, martella su una questione di principio: è un errore proporre di continuo piccole o grandi riforme per cambiare la Costituzione italiana. Così facendo si finisce per sbrindellarla senza una visione d’insieme. Comunque, al di là delle buone intenzioni, il diavolo ci mette sempre la coda. La coda consiste nello scaricare su qualunque proposta le contingenze politiche, l’interesse del momento di questo o quel partito, di questa o quella coalizione.
Per tali motivi abbiamo proposto una snella assemblea elettiva, composta da cento costituenti, finalizzata a una revisione complessiva e sistemica della Costituzione. In nome di un principio di buonsenso che ha guidato i padri costituenti: mettiamoci d’accordo prima sul metodo da seguire, per poi eventualmente confrontarci e, perché no, eventualmente scontrarci nel merito. Ma, come dicevo, il discorso ci porterebbe lontano e non è quello che voglio affrontare in questa sede. La riflessione che emerge dalle modalità proposte dal governo per procedere alla riforma è di altra natura. Dal testo licenziato dalla prima Commissione permanente del Senato si evince che la sorte stessa di tale provvedimento e probabilmente di qualunque altro provvedimento della stessa natura, nato con le medesime finalità, risulta legata a eventi successivi e imponderabili. In una parola, poniamo il caso, che l’iter di approvazione della legge costituzionale trovi la maggioranza necessaria in Parlamento e, successivamente, superi l’ostacolo del referendum previsto dall’articolo 138 della Costituzione. Come è stato formulato il testo, almeno nell’ultima versione a disposizione, magari in attesa di nuove prospettazioni, la Costituzione così modificata, per trovare compimento, nello spirito e nella lettera della previsione ivi prevista, avrebbe bisogno di un ulteriore passaggio: una nuova legge elettorale. Legge i cui principi ispiratori sarebbero però sanciti nella riforma in quel momento già in vigore. La coda del diavolo. La legge elettorale è infatti una legge ordinaria, dunque con ogni possibilità, e comunque con alto grado di probabilità, sottoposta a referendum abrogativo, previsto dall’articolo 75 della nostra Carta fondamentale, dopo l’approvazione in Parlamento.
Dal combinato disposto di tali norme, e dal più che probabile intreccio politico, si verrebbe con ogni probabilità a configurare un vero e proprio caos istituzionale. Avremmo una Costituzione già modificata in un aspetto strutturale essenziale, l’elezione diretta del Presidente del Consiglio. E una conseguenziale legge elettorale, necessaria al compimento della riforma ancora sub iudice, i cui principi sono previsti nel testo a quel punto consolidato, che letteralmente recita: “La legge disciplina il sistema per l’elezione delle Camere e del Presidente del Consiglio, assegnando un premio su base nazionale che garantisca una maggioranza dei seggi in ciascuna delle Camere alle liste e ai candidati collegati al Presidente del Consiglio, nel rispetto del principio di rappresentatività e di tutele delle minoranze linguistiche”. Potremo permetterci su una questione cruciale per la nostra democrazia questo inestricabile nodo gordiano? Una proposta armonica sulla legge elettorale probabilmente andrebbe fatta, logicamente e cronologicamente, prima o contestualmente alla riforma costituzionale.

Fonte: Il Riformista