Type to search

No, cari single: Tinder non ha alcun interesse a farvi trovare il vero amore

Share

Pietro Minto Antonio Gurrado Adriano Sofri

Milano. Elon Musk che denuncia Sam Altman per aver “violato” gli accordi che portarono alla fondazione di Openai, nel 2015, è solo l’ultima puntata di una saga che mescola intelligenze artificiali e risentimenti smaccatamente umani. E personali. L’oggetto della disputa è la missione originaria dell’azienda, nata per agevolare lo sviluppo di una IA “sicura e benefica” per il genere umano. Per riuscirci, Openai fu fondata come no profit e pensata per mantenere un approccio aperto, accademico e collaborativo, e smettere le consuetudini da startup tecnologica, fatte di competizione e segreti industriali. La posta in gioco era troppo alta, temevano Altman e Musk, all’epoca sodali: il rischio era che l’umanità si estinguesse a causa delle IA. Non c’era spazio per il business.
Capire l’origine di questa strana impresa è però impossibile senza parlare dell’azienda che turbava i pensieri di Musk e lo spinse a promettere miliardi di dollari alla no profit: Google. Da tempo Google investiva nelle IA: nel 2014 aveva acquisito l’inglese Deepmind, tra le più promettenti realtà nel campo, su cui anche Musk aveva investito. Quest’ultimo provò a bloccare l’accordo con Google, invano. Per rifarsi, l’anno successivo passò all’attacco con Openai. Nel 2018 tentò anche di prendere controllo della stessa OpeNAI, fu respinto da Altman e se ne andò sbattendo la porta.
A questo punto il piano si inclinò definitivamente: Openai, come ente di ricerca, rimase senza fondi e fu costretta a chiedere aiuto a Microsoft. Qualche anno dopo, sempre preoccupata dai progressi fatti da Google nel campo, decise di mettere online un chatbot, CHATGPT, per testare un modello linguistico a cui stavano lavorando. Ma non fu più la stessa, e neppure il mondo. In pochi mesi Openai divenne una delle società più chiacchierate, allontanandosi sempre di più dai valori della missione originale e ricevendo ulteriori investimenti miliardari da Microsoft.
Dopo il boom di CHATGPT, Musk, nel frattempo diventato proprietario di Twitter, tornò anche all’attacco lamentando il tradimento della “mission” originale. Invidioso del successo dell’ex alleato? Forse, ma anche coerente con la costante megalomania che sembra guidare le sue decisioni: compriamo Twitter per salvare la libertà di pensiero; fondiamo una no profit per salvare l’umanità dalle IA impazzite; andiamo su Marte per salvare la Terra.
Nel documento con cui Musk, che non chiede soldi a Openai, ha presentato i motivi della causa, si raccontano i vecchi timori di Altman per L’AGI (Artificial General Intelligence), un tipo di IA per adesso solo teorica, talmente potente da capire e apprendere qualunque compito in grado di essere fatto da un umano. Openai, si legge, “è stata trasformata in una controllata della più grande azienda tecnologica del mondo”, e starebbe sviluppando “UN’AGI per massimizzare i profitti di Microsoft e non per il bene dell’umanità”. Spetterà a un giudice, quindi, tentare di definire in termini legali un concetto sfuggevole e fantascientifico come quello di AGI, e determinare se Altman abbia davvero tradito la promessa originale della società.
occasio legis. Occasione che ha prodotto la legge.
Oggi usiamo anche il latino, cederemo alla cafoneria, semel in anno si può fare. Il latino è la lingua di noi avvocati. Si chiamano brocardi, ce li hanno fatti studiare all’università: sono frasi, mezzi aforismi di un rigo capaci di fissare la complessità in sinossi minima.
Passiamo al marito della coppia Amazon. La ribalta subito dopo è toccata alle società di Fedez. Le Holding, i genitori teste di legno (vulg. per prestanome), la nullatenenza di lui.
Poi il sequestro giudiziario delle quote di Muschio Selvaggio, con varie rettifiche interpretative del provvedimento del giudice, e la clausola roulette russa o clausola del cowboy. Questioni statutarie faticosissime.
Obscurum per obscuris. Spiegare una cosa oscura con cose ancora più oscure, ma il popolo voleva sapere, e tutti si sono informati su Google di quest’espediente giuridico per superare le fasi di stallo in società.
Non ci credevo, all’egemonia di questi due ricchi digitali. La bacchetta magica aveva poteri limitati, secondo me: potevano vendere rossetti e gazzose, basta così. Fino a quando ho visto sotto i miei occhi l’effetto Ferragnez su un titolo bassissimo in Borsa. Hanno resuscitato l’impossibile: il mio lavoro. Rendere quello dell’avvocato un mestiere avvincente, valevole delle mille pene che costa. Gli iscritti a Leg
E’la
superstizione del piccione. La trovate su Wikipedia: nel 1948, lo psicologo Burrhus Skinner chiuse un piccione in una gabbia collegata a un timer. Quando il timer scadeva, il piccione riceveva del becchime; essendo però completamente ignaro del timer, si convinceva che l’arrivo del cibo dipendesse da un movimento che aveva compiuto a caso prima della somministrazione. Ragion per cui continuava a ripetere compulsivamente quel movimento, aspettandosi che gli arrivasse del becchime; che, il più delle volte, non gli arrivava.
Tinder, Match e le altre più o meno celebri app di dating funzionano secondo questo esperimento. Lo ha ammesso lo stesso Jonathan Badeen, inventore del meccanismo dello swiping: se su Tinder vediamo una faccia che ci piace, col pollice la trasciniamo verso destra; se ne vediamo una che non ci convince, swipe a sinistra e avanti la prossima. Se non che, proprio il giorno di San Valentino, in California è stata intentata una class action contro queste app, accusate di indurre negli utenti un comportamento compulsivo, causa di dipendenza. In sostanza, le app promettono all’utente di trovare il vero amore scegliendo fra un catalogo infinito di potenziali candidati; ma proprio l’infinità del catalogo insuffla l’idea che nessun potenziale candidato possa essere all’altezza del successivo, e che quindi accontentarsi possa far perdere occasioni migliori. Così il vero amore non si trova mai e ci si consegna a una scommessa senza fine.
Esperti di legge e di psicologia storcono il naso di fronte all’ammissibilità della class action; vedremo. E’ tuttavia rilevante notare che si appunta proprio sul paradosso intrinseco a queste app. Tinder e compagnia sono fatte per essere disinstallate: in teoria il loro utilizzo è finalizzato a raggiungere il momento in cui, espletato il loro compito, non serviranno più. In pratica, invece, come tutte le app mirano a continuare a essere usate (l’app che ti consegna vino a casa non vuole renderti alcolizzato, ma solo farti arrivare del vino tutte le volte che ti serve), e sta all’utente stabilire quando e se fermarsi.
Lee Mckinnon, specialista di Scienze del comportamento, ha spiegato al Guardian che la gamification degli appuntamenti invale nella vita reale indipendentemente dall’utilizzo delle app. E’ vero. Un paio d’anni da single è stato sufficiente a dimostrarmi che i pretendenti a un partner si dividono in sedevacantisti e cercatori di petrolio. I sedevacantisti ritengono necessario stare con qualcuno, quindi stilano (alcuni inconsapevolmente) una classifica in cima a cui collocano il meno peggio, pronti a sostituirlo non appena si presenta qualcuno con migliori requisiti. I cercatori di petrolio lanciano il cappello a casaccio, iniziano a scavare e poi, appena vedono le prime gocce nere, vengono assaliti dal dubbio che lo zampillo sarebbe stato più intenso se il cappello fosse caduto altrove: quindi lo lanciano da un’altra parte e ricominciano da capo, per sempre. Le app si limitano ad accelerare e moltiplicare questi meccanismi.
Dietro la class action, ma anche dietro tutta la retorica romantica, si nasconde infatti un’ipocrisia di base. E’ ovvio e inevitabile che qualsiasi scelta individuale in materia di sentimenti sia finalizzata al miglioramento del proprio status, o quanto meno alla gratificazione. Lo stesso egoismo, ci mancherebbe, è il motore del funzionamento delle app nonché la loro ragion d’essere. Al Washington Post, la psicologa Jo Hemmings ha fatto pragmaticamente notare che qualsiasi app, di dating o meno, è un business. Pertanto la gamification, lo swiping e tutto l’armamentario di trucchetti che inducono al loro utilizzo compulsivo servono solo e soltanto a far soldi. Questa, dunque, potrebbe essere la soluzione. Anziché perder mezze giornate sulle app di dating – mediamente dieci ore a settimana, dicono le statistiche – lavorate sfruttando quel tempo per farvi venire un’idea geniale e fatturare. Magari diventate ricchissimi; a quel punto sì che lo trovate, il vero amore. tre supponenti, sulla decisione di Alexei Navalny di tornare, ospite libero e ammirato com’era in Germania e nel resto d’europa, nella Russia che era la sua terra e la Cosa Nostra del suo avvelenatore mancato. Qualcuno pensa che Navalny avesse troppo sopravvalutato il proprio seguito in patria e la tutela straniera, e se ne sentisse protetto: Putin non avrebbe osato ripetere il suo crimine. Non credo se non in minima parte a una simile ingenuità o a una simile presunzione. Non penso che Navalny fosse perdutamente dedito al martirio, e non confidasse al contrario in una propria forza. Nel gesto dell’inerme che si consegna alla balìa manesca del suo nemico c’è una fiducia nell’intimidazione della nonviolenza. Deve, può, aver considerato che la propria estrema debolezza fosse il suo scudo. Ma non può esserne stato sicuro: conosceva il suo nemico, e ha fatto un suo calcolo del rapporto fra il costo – dalla galera dura fino alla vita – e il ricavo: un esempio che si sarebbe inciso nei cuori rassegnati o induriti dei russi. Chi pensa che avesse presunto troppo di sé e non avesse messo nel conto la determinazione assassina di Putin e dei suoi squadristi, non può che considerarlo uno sconfitto, e così indulgere alla propria stessa sconfitta per abbandono. Io credo che Navalny abbia saputo quello che faceva. E che la sua sfida e la sua ironia lo dimostrassero. Stava alzando il proprio prezzo.
Ieri, nella periferia moscovita in cui aveva abitato, è venuta una risposta. Che fossero centinaia, o mille, o duemila, o più, i cittadini russi che si sono messi in fila per il suo funerale, tutte, tutti, dal primo all’ultimo, sapevano perfettamente che cosa facevano, a quale rischio. Hanno scandito il suo nome, si sono mostrati alle telecamere, hanno esibito i documenti, si sono fatti intervistare – soprattutto le donne. Una sola si è mostrata magnificamente sicura di una personale immunità. Alla domanda rivolta a tutte, “Ha paura?”, ha risposto quasi ridendo: “Io ho un’età in cui non si ha più paura di niente”.
Un autore di teatro, uno all’altezza dei tragici greci che tanto sono stati evocati nei giorni scorsi di fronte alle vicissitudini del corpo rubato e occultato, della resistenza intrepida della madre, della consegna della spoglia alla condizione della sepoltura segreta, del rifiuto e della denuncia e della maledizione della madre e delle sue accompagnatrici, infine della resa dell’autorità al funerale e alla cerimonia in una chiesa per ciò stesso invisa ai suoi capi, avrà il suo memorabile materiale. Ai nostri giorni, con le migliori intenzioni – c’è una libertà da noi – si è tornati a rivendicare la ragione di Creonte contro quella di Antigone, questione mai conclusa. Ieri Antigone ha segnato un altro gran punto. Navalny sapeva quello che faceva. Le migliaia di fedeli alla sua memoria e a se stessi che ieri – anche grazie alle televisioni internazionali, sia pure bendate, e ai diplomatici di paesi liberi – l’hanno salutato, lo sapevano a loro volta, e l’hanno fatto sapere ai tanti che rimpiangono o rimpiangeranno di non esserci stati. Il 30 maggio 1924, nel Parlamento italiano, il deputato Giacomo Matteotti pronunciò, più volte interrotto, un suo famoso discorso. Alla fine, disse ai colleghi: “E ora potete preparare il mio elogio funebre”. Dieci giorni dopo era morto ammazzato. Sapeva che cosa faceva.

Fonte: Il Riformista