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«L’ANTISIONISMO È ROBA VECCHIA, BUONA SOLO PER GLI ESTREMISTI»

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«Rivangare ancora la questione della legittimità dello Stato di Israele è come polemizzare sulla nascita degli Stati uniti. Per alcuni serve a camuffare l’antisemitismo. Estrema destra ed estrema sinistra hanno i conti in sospeso con l’ebraismo…»
Umberto De Giovannangeli ·

Idue volti dell’antisemitismo. Il rapporto tra la diaspora ebraica e Israele. Sinistra e Israele, una ferita ancora aperta. Il Riformista ne discute con Carlo Vercelli, storico, che su questi temi ha una vasta produzione saggistica. Tra i suoi libri, ricordiamo Tanti Olocausti, La deportazione e l’internamento nei campi nazisti (La Giuntina, (2005);
Israele. Storia dello Stato. Dal sogno alla realtà (1881-2007), (Giuntina, 2007); Breve storia dello Stato d’Israele 1948-2008, (Carocci, 2008); Storia del conflitto israelo-palestinese (Laterza, 2010); Il negazionismo. Storia di una menzogna (Laterza, 2020);
Neofascismo in grigio. La destra radicale tra l’Italia e l’Europa, (Einaudi 2021). Ed è da pochi giorni nelle librerie Israele. Una storia in dieci quadri (Laterza, 2022).
Israele e la diaspora ebraica: la totale identificazione non finisce per portare acqua al mulino dell’antisemitismo?
Direi di no. Nel senso che l’antisemitismo non si nutre di elementi o di riscontri strettamente razionali. Da questo punto di vista, quand’anche l’ebraismo della diaspora esprimesse, in modo concorde, una dissociazione o comunque un distanziamento dalle politiche dei governi e dello stato d’Israele, l’antisemitismo avrebbe comunque elementi, da parte sua, per giudicare in maniera pregiudizievole gli ebrei in quanto tali, o comunque negherebbe, nel qual caso, qualsiasi riscontro di verità e di realtà. L’antisemitismo da questo versante vive di luce sua propria, nel senso che si crea una sorta di “spettro” dell’ebraismo su cui costruisce le sue deliranti teorizzazioni complottistiche. Mentre invece la domanda ha una sua pertinenza se si rivolge più che all’antisemitismo al discorso sul rapporto tra mondo ebraico, estremamente sfaccettato a livello mondiale come a quello italiano, e politiche di uno Stato, per l’appunto Israele, che si autodefinisce come Stato ebraico ma che è uno Stato che interagisce nel consesso degli altri Stati. A che punto stanno le coscienze ebraiche nella modernità, rispetto a un fattore di forte attrazione identitaria qual è Israele, che rimane uno Stato malgrado tutto. L’antisemitismo è un discorso a sé. Diaspora e il rapporto con Israele è un altro discorso che ha delle implicazioni anche con i non ebrei. In questa ottica, non parliamo più di antisemitismo ma di concezioni e percezioni delle cittadinanze, che è un altro tema molto spinoso.
Rimanendo su questo solco. Il Presidente emerito Giorgio Napolitano ebbe ad affermare che l’antisionismo è forma moderna dell’antisemitismo. È ancora così?
Asserzioni così impegnative vanno argomentate. Io posso dare la mia opinione. Riscontro che molte manifestazioni, non solo di antisionismo preconcetto ma avverse all’esistenza d’Israele a prescindere da qualsiasi riscontro di fatto, ricalcano a pieno titolo i pregiudizi antisemitici. Diventano da questo punto di vista un modo più “elegante”, apparentemente più consono allo spirito dei tempi, per ripetere vecchie formule che non sono mai venute meno. Su questo versante, l’antisionismo senz’altro aderisce all’antisemitismo o comunque ne è una forma coperta. Io francamente trovo anche molto vecchia la polemica nei confronti del sionismo, laddove si ritorna di nuovo a rinvangare sulla legittimità o meno d’Israele. È come se facessimo, per certi aspetti, polemica anche sulla legittimità dell’esistenza della Repubblica italiana. O ancor di più, fatto clamoroso per le sue evoluzioni e le sue trasformazioni, la formazione degli Stati Uniti, dove comunque sono avvenuti processi clamorosi e anche eventi drammatici che hanno comportato frizioni con le popolazioni native fino anche ad eventi particolarmente drammatici. Il punto è: che senso ha dichiararsi oggi antisionisti? Ancora una volta non diventa una copertura rispetto all’effettiva incapacità di tradurre il proprio dissenso in qualcosa di politicamente significativo? Un po’ come una volta ci si diceva di appartenere ad una ideologia per poi di fatto avere delle condotte di comportamenti completamente diversi da quell’ideologia che si professava, per fortuna in alcuni casi. Questa polemica è molto vecchia. Non è vecchio, invece, il fatto che l’antisionismo può per certuni diventare un camuffamento dell’antisemitismo. Nella mia esperienza, io ho registrato due aree fortemente antisioniste che rivelano di avere conti in sospeso con l’ebraismo…
Quali sono queste due aree?
L’estrema destra, per la quale l’antisemitismo è moneta corrente, un tessuto connettivo. Ma anche segmenti di una estrema sinistra che si autodefinisce ancora come terzomondista e antimperialista, fuori tempo massimo, perché il mondo è cambiato, non necessariamente in meglio ma è cambiato, e in questo modo qua ritiene che facendo la guerra al sionismo fa la guerra al capitalismo per interposta figura. E lì c’è uno spazio di grandissima ambiguità. Perché l’anticapitalismo di vecchia data, che attraversa l’800‘900, e che si manifesta come anticapitalismo etnico, antiebraico, che porta con sé una chiara matrice antisemitica, in alcuni piccoli segmenti della sinistra estrema, queste cose, non solo in Italia ma anche in Europa, sono molto presenti e radicate. E il legame tra le due cose ancora sussiste.
La Sinistra, Israele e il mondo ebraico. Un rapporto complesso, in certi momenti anche drammatico. Se andiamo indietro nel tempo, la memoria torna a quella manifestazione sindacale del 1982, a cui partecipava anche la Cgil, con quella bara deposta davanti all’antica Sinagoga di Roma…
Dovremmo interrogarci su i soggetti chiamati in causa: la sinistra e gli ebrei. Due soggetti molto eterogenei. Il primo punto da cui partire è la constatazione che non abbiamo a che fare con una sinistra ma con molte sinistre o con qualcosa che non è identificabile in un unico soggetto, tanto più oggi. L’82 è lontano, nel senso che era ancora una rottura che si consumava in un’epoca dove c’erano ancora delle distinzioni storiche che nel corso del tempo sono venute meno, a partire dal bipolarismo proprio della Guerra fredda. Di certo, però, quella vicenda lì dice alcune cose, come altre vicende più o meno eclatanti che si sono ripetute nel tempo. Ci dice che non c’è assolutamente nulla di assodato nel definirsi di sinistra, oggi più genericamente progressisti, e non nutrire sentimenti antiebraici. Lo dico con ancora maggiore nettezza: non è assolutamente un viatico alla lotta contro l’antisemitismo, dirsi progressisti e di sinistra. Lo può essere a certe condizioni. Laddove si fa chiarezza con se stessi oltre che il mondo circostante. Altrimenti, e l’ho riscontrato personalmente in tantissimi incontri fatti nel corso del tempo, possono riemergere in alcune persone atteggiamenti oi condotte che rivelano vecchie incrostature che portano a quel tipo di condizione. Sul piano più politico, il cambiamento dei soggetti in camsuo po, a partire dalla sinistra medesima, modifica certe condizioni. All’epoca, nel 1982, la ferita aperta era quella del Libano, dove la divisione era molto netta, non soltanto nell’ambito della sinistra ma anche all’interno d’Israele, nel mondo ebraico, su cosa fare o non fare e così via. Era anche un quadro dove stava emergendo in maniera molto significativa la questione palestinese, una questione relativamente giovane. E aggiungo un’altra cosa: il fatto che il Sud Est asiatico era stato “normalizzato”, nel senso che non c’era più passione per le lotte indipendentiste di quei popoli, mentre invece il Medio Oriente era qualcosa che tornava all’attenzione collettiva perché sembrava essere una delle aree dove i movimenti di liberazione nazionale potevano ancora avere uno spazio per manifestarsi, a partire da quello palestinese. E lì c’è stata una identificazione di quella variegata galassia di soggetti che chiamavamo sinistra, o per meglio dire quel mondo militante che pensava di portare avanti le cause degli oppressi, con alcuni aspetti del mondo palestinese. Fraintendendo peraltro cos’era quella storia lì. Che è anche una storia nazionalista, una storia di richiesta di giustizia sociale da parte palestinese etc., ma che non può essere risolta con l’adesione a una concezione manichea, per cui il “giusto” era tutto in una parte, quella palestinese, e “sbagliato” era tutto nell’altro campo, quello israeliano ed ebraico. Oggi abbiamo a che fare con una sinistra che non ha più visioni palingenetiche delle quali farsi portatrice, che non parla più di lotta all’oppressione sociale ma parla più genericamente di temi più terra terra. Molto meno legati all’idea evangelica di trasformare il mondo che un tempo la sinistra aveva.
In questi giorni è nelle librerie il suo ultimo libro Israele. Una storia in dieci quadri. Un “quadro” aggiuntivo data 19 luglio 2018, il giorno in cui la Knesset, il Parlamento israeliano, vota a maggioranza la legge su Israele “Stato nazionale del popolo ebraico”. Non è questo l’anticamera di una deriva fondamentalista?
No. Non è l’anticamera di una teocrazia né di una ex democrazia, ma rischia di dare forma a una democrazia etnica. E non è roba da poco, lo scrivo nel libro, perché può diventare un modello su cui altri Stati possono appoggiarsi. Non è un problema solo per Israele. È un problema delle democrazie. La democrazia si basa su un concetto di cittadinanza che è universale e non particolare. Il secondo passaggio: le democrazie moderne, contemporanee – liberali e sociali – non si basano su di una identità etnicizzante. Si basano invece su una dimensione che non omologa ma che tiene insieme parti diverse, distinte, quand’anche la grande maggioranza delle persone appartenga essenzialmente a una storia comune, condivisa. Da questo punto di vista il problema è di accentuare un elemento che più che unire tende a diventare divisivo. Non solo nei confronti delle minoranze interne, a partire da quella arabo-israeliana, ma anche nei confronti di quella stessa maggioranza ebraica che in realtà è fortemente differenziata dalle sue storie e che vive l’ebraicità d’Israele come un elemento di cittadinanza unificante, non come un elemento distintivo e discriminante, nel senso di affermare che gli altri non ci sono, se non in parte formale e non sostanziale.

fonte: il riformista