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La rivoluzione di Margaret Thatcher

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Vorrei provare a ricordare la figura storica di Margaret Thatcher, i suoi meriti e demeriti, la sua legacy, ovvero l’eredità culturale, politica, economica.

Margaret Hilda Roberts è stata una dei più grandi statisti del 900 e, dopo Churchill, la più eminente leader del partito conservatore inglese.

La rivoluzione thatcheriana – perché di rivoluzione si trattò – le è valsa l’attribuzione del termine thatcherismo, termine che sta a indicare il piglio decisionista, le dottrine economiche monetariste e neoliberista, incentrate sui tagli alla spesa pubblica e alle tasse e le politiche pubbliche a sostegno dell’offerta; e anche una certa dose di populismo: voleva apparire come una del popolo, la massaia figlia del droghiere, e come tale fu percepita.

Una figura estranea alle consuetudini della politica politicante inglese che si appellava direttamente all’opinione pubblica. Il compianto giornalista Paolo Filo Della Torre, che su di lei ha scritto pagine memorabili, notava come il suo fosse “un linguaggio spicciolo, molto elementare, ben comprensibile alle masse, facilmente traducibile, anche visivamente, dalla stampa popolare”.

Due episodi su tutti rendono bene l’idea di quale tempra fosse fatta la Lady di ferro. Il primo, rievocato in passato anche da Montanelli nelle sue ‘stanze’ sul Corriere: Thatcher era ospite di un programma TV e l’intervistatrice le chiese di fare un saltello, come da consuetudine nel programma TV, ebbene lei si rifiutò categoricamente per ragioni di dignità. Il secondo: quando a un comizio fu bersagliata da lanci di uova e farina, commentò sardonica: “segno che lo standard di vita di questa gente è alto. Altrimenti non potrebbero permettersi il lusso di gettare via tanta roba da mangiare”.

L’Inghilterra di fine anni ‘70 era definito il malato d’Europa, attraversava un progressivo declassamento del proprio prestigio e ruolo internazionale, la produttività era la più bassa d’Europa: i sindacati spadroneggiavano nella vita del paese, esercitando  un potere soverchiante. I governi che si succedevano, fossero essi di matrice laburista oppure conservatrice, ne erano così fortemente condizionati da essere tenuti in scacco.

In 11 anni di governo, Thatcher l’avrebbe trasformata nella locomotiva d’Europa: rivoluzionò il Regno Unito diffondendo il verbo dell’efficienza e della competitività nel segno di un’ideologia, il neoliberismo, che propugnava il ridimensionamento del peso dello stato nell’economia e nella società, a favore di un ruolo più attivo dell’individuo. Con lei e Reagan tale dottrina economica divenne l’ideologia dominante negli anni ’80.

Thatcher è stata la prima donna inglese a scalare i vertici del potere, da sempre appannaggio maschile, ed anche colei che ha governato più a lungo nella storia del paese. A consentire la sua sfolgorante ascesa, fu determinante la combinazione di due fattori: una determinazione ferrea e un’incredibile fortuna.

Da parte sua, quella dote che solo i più grandi leader politici possiedono che è l’abilità a volgere ogni occasione, anche quelle in apparenza più sfavorevoli, a proprio vantaggio. Lo storico Peter Clarke ha scritto che La lady di ferro era «un’opportunista politica nel senso migliore del termine: sempre pronta ad afferrare le opportunità che apparivano nel suo cammino e a sfruttarle».

Figlia di un droghiere di Grantham, due lauree (in chimica – a Oxford – e in legge), sposata con un facoltoso imprenditore, Denis Thatcher, con cui ebbe due figli, nel 58, dopo un primo tentativo fallito, decise di intraprendere la carriera politica: secondo la ricostruzione di Filo della Torre, per un anno frequentò assiduamente il suo collegio elettorale, bussava alle porte dicendo: “Sono Margaret Thatcher, la vostra candidata, ditemi quali sono i vostri problemi. Ditemi come posso aiutarvi”.

Il Primo Ministro Anthony Eden ne rimase folgorato e la nominò sottosegretario alla previdenza sociale. Durante l’incarico, Thatcher mise in mostra un’abnegazione totale alla causa, lavorando giorno e notte (tant’è che incorse addirittura in uno svenimento per il troppo lavoro).

Entrata nel Governo Heath come simbolica presenza femminile, anche stavolta si mette in luce come un formidabile ministro dell’istruzione, riuscendo infine a sfruttare in proprio favore la sconfitta del suo premier alle elezioni politiche; si candida, con una certa audacia, alla guida dei tory, sfidando lo stesso Heath e inopinatamente ne diviene leader (siamo nel ‘75). Harold Wilson, all’epoca primo ministro laburista – riferisce Filo Della Torre – “si rallegrò”. “A suo parere, i laburisti avrebbero potuto dormire tra due guanciali fino a che i tory fossero stati sotto la guida di una donna tanto inesperta”. Avrebbe avuto probabilmente ragione, se non fosse intervenuto, a mutare il clima politico, “l’inverno dello scontento”, costellato da continui scioperi e agitazioni promossi dai sindacati.

L’immagine delle montagne di rifiuti non raccolti nelle strade, i morti che non venivano sepolti per giorni e giorni furono episodi che non vennero dimenticati dai cittadini inglesi. Callaghan, il Premier il cui manifesto programmatico era fondato proprio sull’alleanza coi sindacati, veniva sconfitto proprio dalle potentissime trade unions in rivolta contro il governo laburista. Thatcher vince le elezioni del 79 con ampio margine e un programma di governo marcatamente liberista: “salari più alti e prezzi sotto controllo, inflazione in discesa, meno governo, meno tasse”.

Senza voler sminuire i suoi meriti, ancora una volta gioca un ruolo importante la fortuna. Per Della Torre, «la ragione per cui vince le elezioni non è tanto merito suo, quanto demerito dei laburisti, che pur di salvaguardare l’unità del partito con un sindacato molto impopolare, perdono le elezioni».

La fortuna le arride anche in un momento di forte calo di popolarità, durante il primo mandato, quando l’Argentina invade le isole Falkland.

Non hanno nessun valore strategico o economico, abitate da poco più di 2000 sudditi inglesi, sono brulle, buone solo per l’allevamento degli ovini, desolatamente lontane (8000 miglia da Londra). Ma lei lo considera un sopruso intollerabile: dichiara guerra e la vince, infliggendo alla giunta dittatoriale del Generale Galtieri un’umiliante e rovinosa sconfitta. Nonostante gli errori iniziali, l’operazione militare fu portata a termine con efficienza e con un numero di vittime relativamente contenuto. Thatcher assurgeva al rango di eroe nazionale, con un insperato colpo di fortuna che faceva dimenticare i risultati estremamente negativi della sua prima legislatura (aumento record del numero dei disoccupati, la spesa pubblica e le tasse non erano diminuite, i prezzi non erano calati). La stampa le affibbiò da allora in poi il nomignolo TINA, cioè le iniziali del suo motto (“there is no alternative”).

La vittoria bellica suscitò in Gran Bretagna un clima di euforia collettiva e di orgoglio patriottico ed ebbe un effetto psicologico di notevole portata: arrestò la convinzione che il declino fosse un destino ineluttabile e confermò l’immagine di una leader intransigente, disposta a tutto pur di perseguire i propri obbiettivi. Era finalmente possibile, con lei alla guida del governo, invertire quella tendenza al declino che aveva investito la Gran Bretagna dopo la seconda guerra mondiale.

Memorabile fu anche la vittoria conseguita contro il pugnace sindacato dei minatori di Arthur Scargill, in sciopero contro il piano di ristrutturazione dell’industria mineraria. Lo sciopero era formalmente illegale perché Scargill “si era rifiutato di tenere la votazione nazionale che sarebbe stata necessaria in questo caso”.

Durò un anno; più giornate di lavoro andarono perse che in qualsiasi vertenza dal 1926.

Lei si dimostrò inflessibile, rifiutando ogni possibilità di accordo. E anche Scargill rimase fermo sulle sue posizioni.

Lo sciopero si spense lentamente e il movimento fu scalfito. Per il governo significò subire un brusco arresto della ripresa economica; ma il prezzo più alto lo pagarono le famiglie dei lavoratori in sciopero (fecero impressione i metodi brutali utilizzati dalla polizia con il placet del Governo). Oggi sappiamo che Thatcher prese in considerazione l’idea di intervenire con l’esercito per stroncare lo sciopero.

La battaglia combattuta strenuamente e definitivamente vinta contro il sindacato ebbe un duplice risvolto: da una parte ne limitò il potere di interdizione, li responsabilizzò (employment act), ottenendo in tal modo un drastico calo delle ore di sciopero e quindi un considerevole aumento della produttività; ma soprattutto sradicò la convinzione che il Regno Unito si potesse guidare solo previo consenso dei sindacati.

Durante gli anni della Thatcher riprese vigore l’azione terroristica dell’IRA (Irish Republican army). Nell’ottobre 1984, a Brighton, dove si trovava per un incontro di partito, Thatcher subì un attentato al quale scampò miracolosomente. Il giorno dopo dette dimostrazione di grande forza d’animo insistendo per continuare i lavori e tenendo, con atteggiamento imperturbabile, un discorso molto coraggioso. L’immagine di lady di Ferro le era stata appioppata con valide ragioni.

In politica estera, l’epoca della Thatcher fu segnata dalla caduta dei comunismi, allo stretto sodalizio con Reagan. Diversi furono gli errori in questo ambito.  Manifestò simpatie per Pinochet, definì Mandela un terrorista.

Ronald Reagan fu un alleato autentico, con il quale si instaurò un rapporto di piena sintonia (Thatcher avallerà la strategia americana delle guerre stellari). Reagan è considerato, dal punto di vista ideologico, il suo omologo americano. I due vengono accostati come simboli di un’epoca; tuttavia i risultati economici conseguiti da Reagan furono assai meno brillanti, per usare un eufemismo. La reaganomics fu fallimentare sotto ogni punto di vista. Durante la sua presidenza, il deficit esplose, la spesa pubblica e il debito, più che triplicato, raggiunsero livelli mai toccati in precedenza, ebbe inizio quel lento declino del ceto medio, che pure era rimasto ammaliato dalle sue promesse di benessere economico. Il raffronto tra Thatcher e Reagan, dunque, è del tutto improprio sotto il profilo economico: al di là della retorica e delle premesse, il presidente americano è stato a tutti gli effetti una specie di “keynesiano di destra”, più che un liberista adamantino, come invece era “la signora Thatcher”.

Non fu la poll tax – come si sente spesso ripetere – la ragione per cui cadde; lo fu il suo atteggiamento nei confronti dell’Unione Europea. Nonostante fosse stata una sostenitrice del sì al referendum del ‘75 sulla permanenza britannica nella comunità Europea, divenne sempre più diffidente e tale diffidenza sfociò entro breve in un’ostinata opposizione al progetto di integrazione europea.

Le sue posizioni anti-europeiste le costeranno la perdita della leadership del partito e della guida del governo. Aveva ormai perso completamente il contatto con la realtà ed era considerata dal suo partito imbarazzante e troppo impopolare. Si trattò di una vera e propria congiura di palazzo ordita dai Tory, analoga a quella che le aveva permesso la conquista del partito ai danni di Heat.

Uscì di scena non prima di aver conseguito un’ultima vittoria: decretare il suo successore. Impose un suo fidato collaboratore, John Major, al posto del cospiratore Heseltine. Scrive Peter Clarke: “così nel novembre 1990, il partito conservatore, colpito e attonito al pensiero di quel che aveva contribuito a far accadere, diede il suo saluto finale alla Thatcher, con alcuni sensi di colpa per il fatto che i suoi undici anni e mezzo come Primo Ministro dovessero finire così”.

Tra i lasciti più importanti della sua stagione di governo, ed è ciò per cui è maggiormente ricordata (e celebrata), ci sono le sue ricette economiche.

Alla base della sua concezione economica vi è una profonda componente etica, quella dell’individuo come soggetto libero e responsabile. Tale visione del mondo, che si traduce in un individualismo esasperato («non esiste la società; esistono gli individui») – anche se è sbagliato considerare il suo individualismo come grettamente utilitarista -, era fondata sul ruolo decisivo dell’individuo nello sviluppo economico. In questa logica, era per lei un obbiettivo dirimente incoraggiare l’iniziativa individuale e nel contempo scoraggiare la dipendenza dallo Stato, combattendo l’assistenzialismo (favorito dai governi laburisti e causa del declino economico inglese).

Dal punto di vista morale non era fautrice del laissez-faire, inteso come licenza di fare ciò che si vuole, ma piuttosto di un ritorno ai valori vittoriani. Per dirla con Francesco Forte, nella visione della Thatcher “assistenzialismo statale e permissivismo etico sono due facce della stessa medaglia”.

L’intuizione, ancora oggi valida, è che per redistribuire la ricchezza, occorre prima crearla. Le politiche economiche della Thatcher (e di Reagan) si basavano però sul presupposto fallace della trickle down economy (in italiano detto effetto sgocciolamento”): se i ricchi beneficiano di una tassazione più lieve, l’effetto che si produce è quello di creare ricchezza e benessere per tutti, comprese le classi sociali più derelitte.

Mise mano al sistema fiscale, aumentando la tassazione indiretta e riducendo quella diretta. Si trattò di scelte economiche fortemente sperequative: i ricchi divennero molto più ricchi; i poveri relativamente più poveri.

In questo senso si inquadra la poll tax, un’imposta locale sugli immobili che prevedeva un contributo uguale per tutti, al posto della precedente tassazione proporzionale al livello catastale degli immobili. Il fatto che i soli a guadagnarci vistosamente fossero ancora una volta i più abbienti suscitò un’autentica reazione di sdegno e risentimento nella popolazione, con disordini di piazza, feriti e arresti.

Se l’imposta di capitazione fu percepita come assolutamente ingiusta e iniqua, essa era perfettamente coerente con il principio thacheriano che vedeva l’efficienza e la competitività come valori superiori all’equità e all’eguaglianza. Fu però un errore politico clamoroso che contribuì, in un momento difficile della sua carriera, a comprometterne l’immagine e la popolarità presso il suo popolo.

Nel libro La politica economica di Margaret Thatcher Cosimo Magazzino ha così efficacemente riassunto l’azione economica dei suoi governi: «politiche fiscali improntate al rigore attraverso la riduzione della spesa pubblica, con tagli ai suoi capitoli tendenzialmente improduttivi; il ridimensionamento del potere delle Trade Union; l’incoraggiamento alle forze di mercato ad agire il più liberamente e flessibilmente possibile; politiche della concorrenza e delle privatizzazioni; politiche di deregulation e semplificazione burocratica; infine l’arretramento dell’intervento pubblico in materia di politica industriale».

Dal punto di vista economico, gli anni della Thatcher al governo segnano il passaggio della Gran Bretagna da un’economia manifatturiera ormai antiquata a una moderna economia di servizi.

Il programma di privatizzazione divenne la politica più dinamica del premierato della Thatcher e quella a cui il suo nome venne associato in tutto il mondo.

Le privatizzazioni sono la parte più sostanziosa di ciò che è rimasto in concreto della sua eredità. Per dirla con Magazzino, «le imprese privatizzate sono oggi (con l’eccezione del settore automobilistico) molto efficienti e di rilevanti dimensioni».

Le dismissioni riguardarono il settore automobilistico, energetico, siderurgico, aereo e aereonautico, telefonico, le compagnie di trasporto ferroviario.

Il risultato fu di ridurre di oltre la metà la quota delle aziende pubbliche nell’economia, di diminuire il numero di occupati del settore pubblico dell’economia da 8 a 3 milioni di unità. Si crearono così oltre 9 milioni di piccoli risparmiatori e azionisti.

I dati economici dell’era thatcher sono strabilianti e ci forniscono un quadro molto positivo della sua azione al governo: il debito pubblico passò dal 54% al 34,9, il tasso di inflazione dal 18 al 5,8.

Sotto i suoi governi calò drasticamente il totale della spesa pubblica su Pil (dal 43,1% al 39,7%, cioè 8 punti percentuali in meno della media europea) e aumentò la produttività del lavoro, il Pil crebbe mediamente del 2,7% contro l’1% del precedente decennio, superando abbondantemente nello stesso periodo quello americano (1%), tedesco (1,9%), francese (2,2%). La pressione fiscale al termine del suo premierato era pari soltanto al 36,75% del Pil rispetto a una media europea del 40,76%.

Anche il tasso di disoccupazione, quando fu spodestata, era il più basso tra le maggiori economie della comunità europea (6,2%). Il tasso di inflazione, come detto, fu più che dimezzato (facendo meglio sia di quanto fatto dai predecessori che dagli altri paesi ad economia avanzata). Fa notare un grande storico come Ennio Di Nolfo che durante la sua epoca, “le spese sociali in Gran Bretagna non sono nel complesso diminuite, ma sono solo amministrate in maniera diversa”. Questo per puntualizzare che la vulgata della sinistra per cui Thatcher smantellò il welfare state del Regno Unito è del tutto infondata.

I limiti della sua politica economica sono ravvisabili nel fatto che «le privatizzazioni precedettero le liberalizzazioni», che poca fu l’attenzione riservata alla ricerca e allo sviluppo, e nell’aumento imponente delle disuguaglianze sociali.

Mai prima di allora si era assistito nella storia inglese a un ripudio così esplicito del keynesianesimo (o meglio della tralignazione di tale dottrina).

Il partito che la destituì la rimpianse a lungo. Quando si succedettero i governi laburisti dal 1996 al 2007, i conservatori cercarono a lungo una nuova Thatcher, un politico capace di esprimere una leadership forte, energica, indomita come quella impersonata da “the iron lady” (come venne battezzata da un giornale sovietico). Blair venne considerato all’inizio l’erede politico della Thatcher (senza esserne minimamente all’altezza) e cercò esplicitamente di interpretare un “thatcherismo dal volto umano”, cioè un’ideologia che mitigasse le asprezze di quella concezione economico – sociale nella consapevolezza che quella era l’unica politica possibile per far crescere l’economia. Ma i risultati dell’era Blair furono deludenti.

L’influenza del thacherismo sul labour fu tale da mutare l’identità politica: abbandoneranno l’armamentario ideologico del passato fatto di politiche filo-keynesiane per virare verso il liberalismo: il New Labour rimase tuttavia un esperimento controverso e incompiuto (come dimostra l’attualità).

Mai nessuno ha diviso la Gran Bretagna come lei negli ultimi 30 anni: come tutte le grandi personalità il suo destino era di essere odiata o ammirata, tertium non datur.

Ha avuto l’indubbio merito di imprimere una svolta radicale al paese e si è battuta tenacemente e con grande coerenza per realizzare le sue idee. Combatteva esclusivamente per affermare le sue idee, senza alcuna sete di potere (questo era concepito non come un fine in sé, ma per l’appunto come un mezzo per realizzarle). Rifiutando i compromessi cui erano soliti i suoi predecessori, ha risollevato e reso più prospera una nazione decadente, sfiduciata.

Agli storici spetterà il giudizio definitivo (la riabilitazione?) di questo personaggio politico così discusso, ma che lascia un ricordo indelebile di sé e, a distanza di decenni, seguita ad affascinare, dividere, ispirare. Una figura storica imprescindibile per qualunque destra moderna.

Di Elia Dall’Aglio fonte @immoderati.it/

 

 


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