Type to search

Il Paese delle “caste”

Share

Non sono né poche né insignificanti le caste di casa nostra. Sono, viceversa, oltremodo radicate nel tessuto sociale e istituzionale della nazione, oltre che parecchio influenti rispetto ai quotidiani rapporti fra il cittadino/utente e i variegati comparti istituzionali, politici e manageriali

 

di Augusto Lucchese

Alla stregua di parecchie altre nazioni, anche l’Italia è contrassegnata, purtroppo, dal fiorire di variegate “caste”. Esse configurano, in seno alla società civile, l’esistenza di una riprovevole tendenza a perseguire l’ottenimento di un sostanziale vantaggio (talvolta poco trasparente), oltre a tutta una serie di agevolazioni e privilegi, in favore di una specifica categoria di soggetti. Tale fenomeno, di natura fondamentalmente “corporativista”, è fondato sulla osservanza di comuni regole settoriali, tacite o più o meno codificate attraverso i vari “ordini”, volte a fare prevalere, magari in contrasto con le effettive occorrenze della collettività, principi e metodi poco discutibili, spesso assolutistici. Per chi fosse all’oscuro del non tanto recondito significato del termine “casta”, basta fare riferimento alla definizione reperibile in qualsivoglia dizionario: – “trattasi di gruppi sociali, rigorosamente chiusi, legati da comuni finalità, interessi e prerogative”.

Il potere delle “caste” è fondato, di massima, sul vario grado di dominio e di privilegi di cui esse godono.

L’ambiguo “modus operandi” degli appartenenti alle “caste” è ampiamente diffuso nelle strutture di gran parte delle nazioni e, nel tempo, ha generato variegate forme di diseguaglianze fra ceti sociali, di abusi, di fanatismo, oltre che, talvolta, di imposizioni e prevaricazioni.

Detto sistema aggregativo, parecchio criticabile rispetto agli intenti e alle finalità, trae origine storica dalla elitistica e per molti versi misteriosa India ove, nel corso dei secoli, ha pesantemente caratterizzato le stratificate collettività ivi esistenti.

Nella tradizione indiana, ad esempio, i “bramini” stanno all’apice della scala sociale. Pur se trattasi di una tradizione che si va esaurendo per effetto delle emergenti nuove classi sociali (uomini di scienza, politici istituzionali, manager industriali e commerciali d’alto livello ecc.), nei tempi passati essi hanno goduto di una indisturbata “prelazione sociale”, come se ogni cosa fosse loro dovuta. La scala piramidale delle caste indiane rappresenta tuttora un retaggio della medievale società da cui esse traggono origine e che seguitano ad avere come base popolare di massa i “Shudra” (“paria”) che costituiscono la parte più bassa ed emarginata della smisurata popolazione indù.

In relazione a quanto detto sopra, vale la pena di attenzionare il problema delle “caste di casa nostra”.

È da dire, innanzi tutto, che non sono né poche né insignificanti.

Sono, viceversa, oltremodo radicate nel tessuto sociale e istituzionale della nazione, oltre che parecchio influenti rispetto ai quotidiani rapporti fra il cittadino/utente e i variegati comparti istituzionali, politici e manageriali, anche in forza delle vigenti normative, dei sistemi operativi, dei consistenti “onorari” percepiti (esosi compensi magari “in nero”), in vario modo acquisiti e gestiti.

Ma l’aspetto poco edificante delle “caste all’italiana” sta nel fatto che gran parte dei proseliti sono spesso affetti da patogene distorsioni concettuali rispetto ai normali valori comportamentali della gente comune. Distorsioni che vanno dalla inveterata prosopopea al logorroico egocentrismo parolaio, dall’istinto di prevaricazione alla smania di superiorità, dalla ostentazione di un certo grado di intellettualismo alla becera ipocrisia, dalla disquisizione in linguaggio tecnico alla strumentale retorica.

Parecchio raramente offrono gratuita solidarietà, altruismo, ideale comprensione.

Si è in presenza, in linea di massima, di una sorta di generalizzato quanto riprovevole stato di fatto volto all’ottenimento di più o meno leciti profitti e di vantaggi personali e settoriali.

Le “caste” italiane, di norma, trovano copertura sostanziale e giuridica nella esistenza dei chiusi e variegati “ordini professionali”, oltre che, in taluni casi, nella poco trasparente attività di specifici organi rappresentativi.

Fra di esse primeggiano, tanto per citarne alcune, quelle dei “politici di professione”, dei “manager” della finanza, della industria, del commercio, dell’alta burocrazia istituzionale, dei giornalisti, dei docenti universitari, dei militari di carriera.

Un caso a sé è inoltre rappresentato, notoriamente, dalle chiuse strutture operative e sindacali dei magistrati e degli avvocati.

In questa sede, evidentemente, non è facile tentare di analizzare per singola categoria i riflessi non proprio positivi che l’esistenza di taluni diffusi schemi comportamentali, fatte salve le pur esistenti eccezioni, apporta alla collettività.

A prescindere dalla eterogenea e affollata “casta” dei volponi politici, sul cui conto non occorre soffermarsi, vale la pena, però, attenzionarne qualcuna e, in particolare, quelle riguardanti i militari, i magistrati, gli avvocati, i giornalisti.

Per quanto riguarda il mondo delle caserme e dei “super gallonati” della scala gerarchica militare, basta e avanza riferirsi a quanto l’estroverso e osannato – pur se parecchio discusso – Curzio Malaparte (Curt Erich Suckert / 1898 – 1957), l’errabondo delle ideologie, l’avventuroso cronista di guerra, il viaggiatore instancabile, ha lasciato scritto in uno dei suoi elzeviri pubblicati sul settimanale “Tempo” del dopoguerra, nella battagliera rubrica “Battibecco”.

Chiaramente riferendosi al periodo del suo tormentato servizio militare di fante e di ufficiale della Brigata “Cacciatori delle Alpi”, un periodo che per fortuna non è più attuale pur se in seno alla “casta militare” permangono tuttora atavici vizi e anacronistiche vedute e storture, egli così si esprime: “…. l’esperienza insegna che la peggiore forma di patriottismo è quella di chiudere gli occhi davanti alla realtà e di spalancare la bocca in inni e in ipocriti elogi, che a null’altro servono se non a nascondere a sé e agli altri i mali vivi e reali. […] Vi sono due modi di amare il proprio Paese: quello di dire apertamente la verità sui mali, le miserie, le vergogne di cui soffriamo, e quello di nascondere la realtà sotto il mantello dell’ipocrisia, negando piaghe, miserie, e vergogne […] Tra i due modi, preferisco il primo”.

Gli anni scorrono, le generazioni si sovrappongono, ma la controversa mentalità di una certa classe degli “uomini in divisa” seguita ad essere quasi inamovibile, ineluttabile.

In merito alla “casta” dei Magistrati, senza alcuna velleità di generalizzazione e prendendo atto che, di massima, si è in presenza di molti uomini integerrimi, scrupolosi e professionalmente d’alto livello, è da dire che il sistema di auto gestione della categoria difetta parecchio. Esso permette una sorta di inviolabilità del vasto campo della giustizia, oltre che la diffusa incomunicabilità dei suoi esponenti con il comune cittadino, reso quasi estraneo a qualsivoglia spirito di critica costruttiva. Ciò in palese difformità a quasi tutti gli altri settori istituzionali. Come se i Magistrati appartenessero ad una diversa nazione e non fossero anche loro “dipendenti pubblici”.

Passando poi alla “casta” della avvocatura, vale la pena prendere lumi, oltre che dalla esperienza di un gran numero di cittadini spesso trovatisi, per un motivo o per un altro, alle prese con le farraginose e multiformi anomalie del sistema, da un meditato libro di Franco Stefanoni, “Il codice del potere” (pubblicato nel maggio 2007 presso l’editore Melampo), che svela i metodi, talvolta poco trasparenti, e i vari sotterfugi adottati da parecchi influenti, ricchi e intoccabili personaggi della categoria i quali, nell’ambito dell’olimpo forense italiano, operano talvolta ai limiti di ogni etica morale e professionale.

L’autore, giornalista del settimanale economico “Il Mondo”, nel sottotitolo del citato libro, “Avvocati d’Italia. Storie, segreti e bugie della più influente élite professionale”, esprime già in partenza la circostanziata sostanza delle sue ricerche e analisi.

Lo Stefanoni ha ritenuto utile citare, ad esempio, la sintomatica frase a suo tempo pronunciata da John Pierpont Morgan, fondatore di una delle più grosse società finanziarie del mondo: – “non voglio un avvocato che mi dica quello che non posso fare; lo pago perché mi suggerisca come fare quello che voglio”.

È chiaro che il discorso è più che altro riferito ai ricchi, quotati e altolocati “luminari del foro”, la ben nota classe dei cosiddetti “avvocati dei ricchi”, consiglieri e difensori dei vari potentati economici, finanziari e politici. Una “casta” che ha ottenuto “notorietà e denaro” ma che ha anche posto in luce “convivenze (o connivenze) pericolose” e che, in molti casi, è in grado di esercitare una funzione parecchio determinante, non sempre positiva o ottimale, nel complessivo ambito delle varie centrali del potere.

Un discorso che, di contro, riguarda solo marginalmente l’esercito degli oltre 150.000 iscritti all’Ordine, nell’ambito del quale, purtroppo, emergono figure di “avvocati” non tanto bravi, svogliati, disattenti e più o meno affidabili.

Soffermandosi, alla fine, sulla variegata “casta” del giornalismo, va rilevato che all’interno della stessa trovansi “personaggi” più o meno “liberi” e attendibili, un po’ tutti permeati dalla presunzione di avere raggiunto un alto rango e di potere esprimere pensieri e giudizi “ex cathedra”. Nell’ambito della stessa, esistono tuttavia parecchie nutrite e sbilanciate “sotto caste di iniziati”, quasi sempre relegati al ruolo ben poco soddisfacente e ripagante di “portatori d’acqua”, di cronisti di paese, di lettori di preconfezionati notiziari, di improvvisati e spesso impreparati “reporter”, e chi più ne ha più ne metta. Senza dire della numerosa congerie degli pseudo giornalisti contagiosamente “disinformati”. Una autentica giungla in cui s’annidano “predatori” d’ogni specie e belve feroci pronte ad attaccare e sbranare ogni ipotetico competitore.

Qualcuno, giustamente, si porrà la domanda del perché, fra le tante variabili delle “caste italiane”, si fosse data precedenza a quelle prima evocate, quelle dei militari, dei magistrati, degli avvocati, dei giornalisti.

Sostanzialmente perché sono quelle che più d’ogni altra incidono profondamente sulla quotidiana vita della gente. Cosa che attiene ben poco, ad esempio, alla classe dei molti saccenti “docenti universitari”, dei ricchi “manager” d’alto bordo.

Per chiudere sembra pertinente esternare una personalissima riflessione: nell’ambito di quasi tutte le “caste italiane” abbondano i “chiacchieroni” (talvolta logorroici e invadenti) che prediligono permeare la loro più o meno confacente e utile attività lavorativa e operativa con discorsi di presunto alto livello professionale o tecnico, pur se poco o nulla divulgativi, specie fra i “non addetti ai lavori”, quando non trattasi addirittura di autentiche ciance ostentative o riempitive.

Se si potessero esportare, in “tonnellate”, le diuturne chiacchiere che straripano dai pulpiti laici e non, istituzionali e politici, dai molti obbrobriosi canali TV, dagli osessivi “video” e “sms” di rete, dalla “carta stampata”, l’Italia migliorerebbe di parecchio la sua bilancia commerciale, accrescendo di parecchi punti il famigerato PIL.

 

(Nella foto: “Corporate Italia” di Mario Sironi)