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Fondata sul lavoro

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di Antonello Longo

direttore@quotidianocontribuenti.com

La celeberrima espressione “l’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”, che apre (articolo uno, primo comma) la nostra Carta costituzionale, non si riferisce al diritto-dovere al lavoro per tutti i cittadini, principio enunciato, invece, dall’articolo 4.
Nell’incipit della Costituzione, le madri e i padri costituenti intesero dire, piuttosto, che nella nuova Repubblica, nata dalla Resistenza al nazifascismo, il principio ispiratore della legislazione e del governo, la funzione dello Stato, non doveva (più) essere la mera salvaguardia del capitale, con la sua dinamica fatta di accumulo, di fluttuazioni, di rendite, così come di investimenti produttivi ed anche di (eventuali) ricadute sociali, ma il lavoro inteso come spazio (questo sì, protetto) per il libero apporto di attività o di mezzi, individuale o collettivo, dipendente o autonomo, manuale o intellettuale, di ciascun cittadino alla vita nazionale ed al suo progresso.
Ricordo una di quelle proposte che, come fuochi fatui, appaiono e scompaiono nel dibattito pubblico italiano: nel tempo dei fasti berlusconiani balenò la suggestione di cambiare quel “Repubblica democratica fondata sul lavoro” con “fondata sulla libertà”. Ora, la libertà è la materia di cui è costituito tutto l’edificio costituzionale, ma l’articolo 1 sottende un altro concetto: se i livelli della disoccupazione si mantengono nel lungo periodo al di sopra di una certa soglia, diciamo a due cifre, come stabilmente avviene nel Mezzogiorno d’Italia, allora è la stessa democraticità del sistema che viene messa in discussione. Senza parità di diritti, di opportunità, di dignità sociale, quindi senza lavoro (vero, tutelato e garantito dal diritto), quando il lavoro diventa una concessione alternativa alla salute, quando ogni giorno c’è una morte sul lavoro, la libertà resta un concetto astratto, perché non c’è libertà senza giustizia sociale, e senza l’unione indissolubile tra libertà e giustizia sociale non c’è democrazia. Ciò può piacere o dispiacere (a qualcuno dispiace, molti non ne colgono il senso), ma è quanto vollero dire i costituenti.
Cosa ne sia stato di quest’abbrivo ideologico della nostra storia repubblicana, ognuno vede. Esso è rimasto lì, pegno di un compromesso originario ma, ormai – come quest’anno, in occasione del Primo maggio, ha fatto notare Confedercontribuenti – orpello retorico, svolazzo verbale.
Eppure anche la retorica, a volte, ha la sua funzione e la svolge, soprattutto, quando è espressione vera del pathos di una persona o di un gruppo, che viene a supplire all’assenza di ethos nella collettività o nelle istituzioni. In questo senso la festa del Primo Maggio in particolare, ma in generale il dibattito pubblico sulla tematica del lavoro, ha, deve avere, anche una sua forza retorica, da affidare ai discorsi, ai cortei, alle manifestazioni di rivendicazione e di protesta e, perché no, anche alla musica, allo sventolio delle bandiere.
Quando l’espressione retorica non è mistificazione intellettuale, impalcatura estetica o semplice ciarlataneria, allora la parola può sprigionare una forza trascinatrice e l’arte del dire può assurgere, persino, alle vette della poesia.
Non è consueto, ne sono consapevole, riportare parole poetiche nel contesto dell’informazione politica e della riflessione sociale. Ma, per portare alle lettrici e ai lettori un esempio di quanto affermo, mi piace ricordare le parole, piene di enfasi retorica, ma anche di forza poetica, di Vladimir Majakovskij.
Nel pieno della rivoluzione bolscevica, Majakovskij, giovane provinciale piccolo borghese trapiantato a Mosca, pieno fino all’orlo di sogni e di passione, fece traboccare tutto il suo innegabile magnetismo nei versi dedicati al mito della rivolta, al miraggio di un mondo nuovo, alla sovversione deflagrante di una (impossibile?) giustizia terrena. Propaganda, per vocazione, per scelta, per professione. Ma anche adesione profonda ad un ideale umano, in tutta la sua purezza. Un ideale di quelli che non possono reggere l’impatto con la realtà, con la verità e così, spesso, s’infrangono su un colpo di pistola, come quello con cui Vladimir Vladimirovic, l’incantatore delle masse, spense la sua vita, solo, nel vicolo Lubjanskij.

Il mio maggio

A tutti,
a quanti, spossati dalle macchine,
si sono riversati per le strade,
a tutti,
alle schiene sfinite dalla terra
e che invocano una festa,
il primo maggio!
Al primo fra tutti i maggi
andiamo incontro, compagni,
con la voce affratellata nel canto.
È mio il mondo con le sue primavere.
Sciogliti in sole, neve!
Io sono operaio,
è mio questo maggio!
Io sono contadino,
questo maggio è mio!
A tutti
A quelli che, scatenata l’ira delle trincee,
si sono appostati in agguati omicidi,
a tutti,
a quelli che dalle corazzate
sui fratelli
hanno puntato le torri coi cannoni,
il primo maggio!
Al primo fra tutti i maggi
andiamo incontro,
allacciando le mani disgiunte dalla guerra.
Taci,ululato del fucile!
Chètati, abbaiare della mitragliatrice!
Sono marinaio,
è mio questo maggio!
Sono soldato,
questo maggio è mio!
A tutte
le case,
le piazze
le strade,
strette dall’inverno di ghiaccio,
a tutte
le fameliche
steppe,
alle foreste,
alle messi,
il primo maggio!
Salutate
il primo fra tutti i maggi
con una piena
di fertilità, di primavere,
di uomini!
Verde dei campi, canta!
Urlo delle sirene, innalzati!
Sono il ferro,
è mio questo maggio!
Sono la terra,
questo maggio è mio!

(Vladimir Majakovskij, 1922)