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Ai funerali di McCain serra i ranghi l’America che sfiderà Trump

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In piedi a fianco della bara di John McCain, senatore nipote di senatore, pilota di aviazione in congedo ed eroe di guerra, repubblicano fedele e per questo fuori dagli schemi, ad ascoltare gli eulogi di amici ed ex avversari spiccava un giovane in divisa bianca. Si chiama John McCain, suo padre era un senatore e lui è pilota della Marina. Non è una scena di Ritorno al Futuro, ma la dimostrazione che ai funerali del più acerrimo nemico di Donald Trump è stata consacrata la continuità di una dinastia emergente di quella che è l’emergente alta aristocrazia americana.

Quella dei Bush, dei Clinton, dei Dole, dei Gore e, chissà, anche degli Obama. I McCain, come i Savoia (ma anche come i Kennedy), comandano uno alla volta, e il cambio della guarda alla guida del clan è un dato dettato dalla natura quanto accettato nel segno della continuità. Tra una quindicina d’anni se ne vedranno i frutti.

L'ultima eredità dell'eroe del Vietnam

Intanto John McCain il Vecchio (in realtà è John McCain III ed il suo successore il IV, ma il paragone di gusto mediceo calza molto meglio) ha consegnato agli Stati Uniti la sua ultima eredità: la formazione di una “coalizione di volenterosi” che si prepara, al momento opportuno, a lanciarsi contro l’usurpatore del trono. Donald Trump, estraneo al sistema politico ancor più che alla classe dirigente, uomo che con il suo credo populista e sovranista ha picconato le basi stesse del credo politico nazionale americano.

L’uomo che McCain ha fatto sapere di non volere al proprio funerale, che nei giorni scorsi ha bloccato stizzito un messaggio in cui il defunto era definito un eroe e che oggi ha platealmente passato il suo tempo a giocare a golf.

Alla cerimonia alla National Cathedral di Washington erano presenti la figlia prediletta, Ivanka, ed il genero Jared Kushner, ma il loro ruolo al più è stato di comprimari accolti con fredda cortesia. Protagonista invece la vedova, Cindy, che prima di arrivare nella chiesa che è dedicata al culto della nazione americana e su un altare conserva come una reliquia una pietra portata dalla Luna ha fatto fermare il corteo funebre di fronte al monumento ai caduti del Vietnam. Ha deposto una corona di fiori, e tutti hanno ricordato non solo che il senatore era stato sei anni prigioniero dei Vietcong, ma che Trump quella guerra non l’ha combattuta (e McCain glielo aveva ricordato).

Kissinger, l'uomo della vecchia guardia

La fila degli oratori poi è più che significativa. A cominciare dal vecchio Henry Kissinger, che con Nixon tirò gli Usa fuori dalle risaie indocinesi nel 1973. Non una presenza coreografica, la sua, ma la dimostrazione che esiste un mondo dell’establishment americano – quello che si identifica nell’ala più saldamente tradizionalista del Grand Old Party – che non ama e non amerà mai il nuovo inquilino della Casa Bianca. Kissinger è La Politica Estera repubblicana, ancora adesso: quella basata sugli equilibri tra le potenze alla Metternich, la capacità di trattare da una posizione di razionalità, la disponibilità all’intervento militare ma solo se giustificato da un precetto di von Clausewitz.  Il contrario di quanto avviene in questi giorni.

Bush traccia la strada ai suoi

Una politica di grande dinamismo, ma senza strappi inutili. Tanto che Kissinger era contrario alla guerra in Iraq del 2003, e vederlo oggi parlare prima di George W. Bush, il presidente dei neoconservatori, faceva un certo effetto. Ma il tempo più lenire molte cose, e soprattutto può lenirle la necessità di intendersi di fronte ad un avversario come Trump. E la dinastia dei Bush (due presidenti e 12 anni alla Casa Bianca tra il 1992 ed il 2008) ha da sempre fatto vedere di non amare l’attuale Commander in Chief.

Quindi anche Bush il Giovane prende la parola, e con un discorso appassionato traccia la strada a quell’ala repubblicana che nel 2016 avrebbe preferito Ted Cruz.

“La politica della paura rende meschini”: l'attacco di Obama

Del resto, è stato lo stesso McCain a chiedere a Bush di ricordarlo, come anche a Barack Obama. Due avversari politici, non due nemici. Se il primo è comunque un suo compagno di partito, è il discorso di Obama a dare la cifra di quello che sta avvenendo, della Grande Coalizione che va prendendo forma.

"Gran parte della nostra politica, della nostra vita pubblica, del nostro discorso pubblico, può sembrare piccola, meschina, incastrata in pomposità e insulti, controversie fasulle e indignazione manifesta”, denuncia, “E' una politica che pretende di essere coraggiosa ma nei fatti nasce dalla paura. John ci ha chiesto di essere meglio di questo".

“Siamo stati, siamo e saremo sempre grandi”

Ma il senso più profondo dell’addio al Senatore sta tutto in una frase di sua figlia Meghan, personaggio televisivo che ha lasciato la Fox Tv un anno fa. "L'America di John McCain è generosa e conosce le sue responsabilità. L'America di John McCain non ha bisogno di tornare a essere grande perché lo è da sempre", dice, citando al contrario lo slogan che ha portato Trump alla Casa Bianca un paio di anni fa. E la folla seduta sui banchi della Cattedrale d’America scoppia in un lungo, fragoroso applauso. Che si sente anche sui campi da golf.

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Fonte: estero agi


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