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Mouse, così è cambiato il modo di “guidare” il computer

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Da una scatolina di legno al gesture control

Alessio Lana

Fonte @linkiesta.it/

 

 

Una palla da bowling inserita in una culla di ferro che ne tracciava i movimenti. Era questo l’aspetto del primo puntatore per computer, quello che in futuro sarebbe esploso nel mondo con il nome di mouse. Lo avevano sviluppato nel 1952 i canadesi Tom Cranston, Fred Longstaff e Kenyon Taylor per la Royal Canadian Navy e nessuno avrebbe immaginato che da questo marchingegno sviluppato per scopi militari, grande e scomodo, sarebbe nato il pratico dispositivo di input che avrebbe cambiato per sempre la storia dell’informatica.

Per avere un device simile a quelli di oggi però si deve aspettare qualche anno, fino al 1963. San Francisco è in pieno fermento culturale, siamo a ridosso del ’68 e hippy, santoni e geniacci del computer sono all’ordine del giorno. Nella città californiana si muove un personaggio curioso, Doug Engelbart, ingegnere elettrico di Stanford, poliedrico e curioso inventore americano che al tempo prendeva parte ai gruppi semi-accademici che studiavano gli effetti dell’LSD. Con un po’ di romanticismo hi-tech è facile immaginare questo ragazzo sognare di mettere in contatto uomo e macchina, ammassi di circuiti elettrici ed esseri viventi, alla ricerca di quel punto di contatto tra mondi opposti che Michelangelo aveva rappresentato con due dita che si toccano nella Cappella Sistina.

La soluzione di Engelbart è radicalmente opposta a quella dei canadesi: è una scatolina rettangolare di legno dove si poggia la mano, al posto della palla da bowling che gira ci sono due rotelle di plastica che si muovono lungo due assi perpendicolari comunicando gli spostamenti all’unità centrale del calcolatore. La forma squadrata e quel cavo che spunta fuori danno proprio l’impressione di avere di fronte un topo, come nota un collaboratore di Engelbart, Bill English, che battezzerà il nuovo device mouse, (topo in inglese). In realtà gira anche una seconda motivazione per il nome che vedrebbe in quelle cinque lettere l’acronimo di Manually Operated User Selection Equipment, ma niente di più falso: il mouse è un topolino digitale. Punto e basta.

Al di là delle curiosità, dopo 5 anni di ricerca folle, Engelbart, English e la loro equipe dell’Augmentation Research Center di Stanford sono pronti a svelare al mondo l’X-Y Position Indicator, come verrà chiamato sulla richiesta di brevetto. È il 9 dicembre 1968, il legno viene abbandonato per la plastica, la forma si fa più rotonda, in linea con il design tondeggiante del tempo, e sopra ci sono tre tasti. Insieme al dispositivo viene svelato anche l’ipertesto, il nonno del web, un sistema di rimandi, i link, che permette di navigare tra i contenuti avvalendosi proprio di questo sistema fondato sul punta e clicca così alieno a chi era abituato a scrivere lunghe righe di codice. Come spesso accade nel mondo dell’innovazione, parallelamente agli studi americani anche in Europa stava accadendo qualcosa di interessante. Poche settimane prima di quel fatidico 9 dicembre infatti la tedesca Telefunken svela la sua versione, una semisfera con un tasto e, sotto, una pallina di gomma. Una soluzione avveniristica che però per il momento viene lasciata da parte per tornare alla ribalta solo una decina di anni dopo.

Il decennio del mouse infatti è quello degli anni Ottanta. Già al debutto, nel 1981, la Xerox svela lo Star, costosissimo computer che per primo utilizzava un’interfaccia grafica, quel sistema di icone e finestre che visualizzava le informazioni invece di doverle scrivere. Il mouse finalmente trova la sua ragione d’essere, quell’interfaccia visiva è perfetta per muoversi con il cursore ma ci sono ancora diversi problemi: è un congegno complicato da usare, non si muoveva sul tavolo con la scorrevolezza necessaria a farne una periferica comoda e soprattutto costa 300 dollari, una cifra fuori mercato anche per i ruggenti yuppie. Ma già c’era un personaggio pronto a modificarlo: Steve Jobs.

Dopo aver preso dalla Xerox l’ispirazione per l’interfaccia grafica dei suoi computer, il giovane pioniere dell’informatica intuisce le potenzialità e i limiti di questo nuovo device e si pone un obiettivo ambizioso. «Voglio poterlo usare sulla fòrmica e sui miei blue jeans» riferisce al designer Dean Hovey, ma vuole anche che sia economico, sui quindici dollari circa, e che abbia un solo pulsante. Un oggetto intuitivo e pratico insomma che però ha bisogno di una piccola spinta per diffondersi. Da sempre convinto che non è il cliente ad avere sempre ragione, nel 1982 Jobs elimina i tasti con le frecce dalla tastiera dell’Apple Lisa così anche gli utenti allergici all’innovazione devono adeguarsi a usare questo parallelepipedo grigio con sotto una pallina in ferro.

Il mouse ormai è stato lanciato e il fermento per la nuova invenzione investe anche un altro futuro colosso: Microsoft. Come Jobs aveva preso ispirazione per mouse e interfaccia grafica dalla Xerox, Bill Gates prenderà quelle stesse idee alla Apple e in contemporanea con il Lisa Mouse sviluppa il primo topo per PC. È il 1983 quando viene lanciato il primo topolino per MS-DOS e il suo unico compito è di muovere il cursore all’interno del programma di videoscrittura Word. Basta un anno ed ecco che IBM fa un passo avanti offrendo la sua soluzione, il TrackPoint, un cilindretto rosso con una superficie di gomma che spunta al centro della tastiera, proprio sopra la lettera B. Basta poggiarci l’indice sopra per muovere il cursore e lo scopo è di tagliare quei 0,75 secondi che si impiegano per passare dalla tastiera al mouse e viceversa.

Tra tante novità, ritorna in auge anche la strana palla da bowling sviluppata dai militari canadesi. Nella trackball la pallina sta sopra anziché sotto e la mano sta ferma. Il pollice muove la sfera che aziona il cursore mentre indice e medio schiacciano i tasti. I vantaggi sono parecchi, evita la sindrome del tunnel carpale, è più riposante per braccia e mano però ha un difetto: la pallina è meno stabile di un mouse e riceve tutte le vibrazioni prodotte dal nostro corpo. Per tracciare una linea dritta è necessaria una freddezza fuori dal comune e così gli utenti più esperti lo adorano ma a livello amatoriale il classico topo continuerà a regnare sovrano.

La nuova via è stata tracciata, gli utenti iniziano a prendere familiarità con questa nuova periferica e parte un tourbillon di innovazioni, con il mouse che muta forma centinaia di volte, adattandosi ai diversi usi degli utenti. Vengono aggiunti tasti ovunque, programmabili a seconda delle esigenze, compare una rotellina che permette di scorrere le pagine, la pallina viene sostituita da un fascio di luce emanato da un laser o da un LED. Per i videogiocatori che passano ore con quel device in mano vengono creati mouse con ventole che evitano la sudorazione della mano e il surriscaldamento delle componenti, i grafici adottano ibridi in cui la superficie dove si poggia la mano diventa multitouch permettendo alle dita di cliccare con un solo tocco, allargare o restringere oggetti e avere un assaggio di quello che oggi tutti conosciamo con il nome di touch screen.

Le sperimentazioni si sono spinte così avanti che in molti hanno decretato la morte del mouse per mano di tre finissimi assassini. Il primo è il touchpad. La progressiva sostituzione dei computer desktop con i più pratici e sempre più potenti portatili ci ha abituato a usare questa superficie sensibile al tocco che troviamo oggi sotto la tastiera di ogni laptop. Se all’inizio aveva ancora i classici tasti destro e sinistro, ora anche questi sono scomparsi, sostituiti dal cosiddetto multitouch.

Il secondo è il touchscreen, il sogno che da sempre i pionieri dell’informatica inseguono come una sorta di Santo Graal. Fino a una decina di anni fa sembrava impossibile proporlo su scala commerciale: gli utenti non sarebbero mai stati pronti, si diceva; eppure tablet e smartphone sensibili al tocco ci hanno abituato senza intoppi a questa nuova interazione più diretta con le macchine, mediata solamente dal nostro dito, che così diventa il nuovo, vero mouse.

La terza è ancora in via di definizione ma promette faville. È il gesture control, ovvero una fotocamera che rileva il movimento di mani e dita e le trasferisce su schermo. Un esempio di tipo commerciale è comparso nel 2012 con il Leap Motion, un piccolo cubo di pochi centimetri e una cinquantina di euro che si collega al computer via USB e traccia tutti i nostri movimenti. Come nei film di fantascienza basta muovere le mani in aria per spostare il puntatore, cliccare, muovere e modificare oggetti, e secondo il produttore garantisce una precisione duecento volte superiore a qualsiasi altro sistema di puntamento.