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L’UNIVERSITÀ CHE VORREI

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Ermelinda M. Campani direttrice di Stanford Florence

Itemi legati all’università sono molteplici. Da sempre. E ora che si è finalmente capito che la terra non è piatta, che le scie chimiche non ci sono, e che il vaccino anti-Covid non ha iniettato nessun microchip nel nostro sangue, si può anche tornare a riflettere liberamente su uno (non l’unico) degli strumenti che servono a garantire competenza, ricerca e specializzazione, l’università appunto.
In Italia, la notizia del giorno riguarda la sacrosanta questione degli alloggi per gli studenti e la necessità di investire in edilizia universitaria. E, ancora, ci sono i dati dell’Osservatorio di Banca Intesa a far paura perché segnalano che l’Italia ha perso 80mila laureati in dieci anni. Tutta gente che per noi rappresenta un costo sociale e che è dovuta scappare all’estero. Ma le sfide che si profilano all’orizzonte per gli atenei e per il Paese non finiscono qui. Riguardano le nuove metodologie di apprendimento, la necessità di svecchiare il corpo docente (l’età media degli ordinari italiani è di 59 anni, 52 per gli associati e 47 per i ricercatori), le opportunità e i pericoli rappresentati dalle nuove tecnologie – specie dall’Intelligenza Artificiale – il merito, la ricerca, l’internazionalizzazione, il rapporto con il mondo del lavoro. Temi molto importanti che richiedono visione, pianificazione e investimenti, appunto. Questioni su cui però in Italia il dibattito è assente e, se c’è, è condotto a voce molto bassa. Si può cominciare dall’internazionalizzazione che sembra un tema meno pressante degli altri ma invece è cruciale. L’Italia che, almeno dal tempo del Grand Tour, è notoriamente meta di turismo straniero (oggi, di massa), ha una università ancora assai poco internazionale. È noto che molti atenei, e ancor più dipartimenti, sono coinvolti in joint-ventures con i loro corrispettivi esteri, si sa che l’Erasmus è un programma di enorme successo a cui dobbiamo le prime vere generazioni di pan-europei, e il sito dei MUIR, oltre ai dati sull’età media dei docenti, si affretta a ricordare che il 7.4% si studenti negli atenei italiani è straniero. Tutto vero e tutto molto poco. Se si spacchettano questi dati, si vede che l’universalità dell’università in Italia viene meno perché i corsi in lingua inglese (piaccia o meno è la lingua franca) sono pochi e spesso insegnati da gente che l’inglese lo sa poco e male; ci si accorge che alcuni professori possono liquidare le loro esperienze all’estero sul curriculum facendo riferimento a soggiorni fuori dai patri confini “mai inferiori al mese”. Si nota che le risorse per attirare professori e studenti non ci sono e si constata vieppiù che i programmi accademici, la cosiddetta offerta formativa, soffre in gran parte di provincialismo perché incentrata su un dibattito, anche intellettuale, che fatica a raggiungere le nuove generazioni. Si ha la sensazione di una università che tende a essere auto-referenziale, e ripiegata su sé stessa. Un esempio: un anno o due fa, un classicista americano di colore, Dan-el Padilla Peralta, (Ph.D. a Stanford e cattedra a Princeton), ha sferrato una specie di attacco contro la tradizione greco-romana con argomentazioni che hanno fatto il giro del mondo occupando i dibattiti accademici e quelli sui giornali (a partire dal New York Times). Perfino il Presidente Macron, che va così poco di moda da noi di questi tempi, ne ha parlato sentendo la necessità di difendere la tradizione e i valori su cui si fonda la cultura occidentale. Non una parola si è levata dall’Italia che, forse ancora più della Francia, veniva chiamata in causa. Non esistono soluzioni facili a queste questioni che, pur diverse, sono intimamente collegate. E certamente non si può buttare il bambino con l’acqua sporca. Va dato atto anche di tanta eccellenza, che i nostri atenei possono vantare nonostante risorse striminzite ma, perché l’eccellenza non rimanga di qualche caso isolato, bisogna riaprire un dibattito serio sul presente e il futuro dell’università. Se partiamo dall’internazionalizzazione si può fare qualche miglioramento anche a costo zero. Ad esempio, a oggi, in Italia hanno sede 145 programmi di università americane per un totale di 38mila studenti all’anno e relativi docenti. E operano molte altre realtà accademiche internazionali. Perché non partire proprio da qui, con l’istituzionalizzazione, ovvero, di un processo osmotico di scambio di professori e, ove possibile, anche di studenti? Dalle università americane in Italia passano premi Pulitzer e Nobel, passano studenti che poi, tornando in America, fondano Instagram dopo aver fatto un corso di fotografia in Italia. Ma rimangono fondamentalmente isolati rispetto al panorama accademico italiano che, a sua volta, non beneficia del capitale intellettuale che ha sulla porta di casa. Istituire una interlocuzione proficua e virtuosa con queste realtà sarebbe un volano molto importante per gli studenti e gli atenei. Un win-win per tutti e un piccolo passo avanti in un lungo ma fondamentale cammino.

Fonte: Il Riformista