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Luci, ombre e penombre giapponesi nello sguardo di Mario Vattani

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AGI – Sono i dettagli che schiudono il Giappone. Con la padronanza di uno sguardo che non a caso, ma per lunga frequentazione e molto amore, buchi lo strato sgargiante decifrando ombra e penombra, come spiegò preziosamente Jun’ichiro Tanizaki. Si può così Svelare il Giappone: questo è lo scopo e questo il titolo del libro che Mario Vattani ha appena pubblicato per Giunti Editore. Quasi 400 pagine in cui sfoglia anima, gente, luoghi, vizi, splendori, estetica e storia di un Paese assai raccontato eppure elusivo per la mentalità occidentale. Non è necessario cominciare dal principio con ortodossa lettura seriale: si può o è addirittura preferibile affrontare il volume con una disposizione zen, facendo di volta in volta affidamento sul capitolo che asseconda, per titolo, l’attrazione subitanea del lettore. Svelare il Giappone non consegna il racconto a un percorso diacronico, ma si fa guida del Paese oltre le contingenze, accostando situazioni e personaggi lontani tra loro nel tempo ma simultanei per la spiegazione di una “parola chiave” (Giardino, Sapore, Nascita, Bellezza, Amore, Nebbia…).

È così che il monaco Tetsumonkai, nella scelta volontaria di una tipologia di morte crudele e straordinaria che sarà vita per sempre, si ritrova in pieno diciannovesimo secolo assieme ai samurai che scelsero il seppuku, ed è questo il capitolo dove s’affronta anche il tema del rapporto con i morti, peculiare e remoto per la cultura cristiana ma anche laica europea, ed è il capitolo che scivola naturalmente, tramite queste storie, alla storia di adesso con l’allarmante incremento del kodokushi, parola entrata solo nel 2008 nel dizionario Kojen per indicare la “morte senza nessuno accanto”. Le sue radici sociali, l’impatto sul costume, le molte implicazioni.

È la stessa accattivante sincronia con cui Vattani racconta il buio e il cibo e l’Impero; con cui spiega la spada da Musashi a Kill Bill; il senso dell’eros e del gioco; il fascino dei manga e degli anime a partire dal gakuran, la classica uniforme studentesca di stile prussiano che da fine ‘800 soppiantò l’hakama, la gonna pantalone blu, e che prima dei fumetti fu celebrata nei romanzi di Mishima.

Tutt’altro look, altra filosofia postmoderna ispira gli yanki, i bad boys che sciamano su moto riconvertite al kitsch orientale nelle periferie e nella provincia, benché siano ragazzi rispettosi di certe regole tradizionali confuciane anche se rischiano di diventare dei chinpira, cioè “pesci piccoli” della malavita organizzata.

C’è nel volume uno sciame vorticante di racconti, in più occasioni asseverati dall’autore per esperienza diretta. E ci si trova un mucchio di indicazioni pratiche per affrontare il Giappone con le sue particolari regole di comportamento, quelle che una volta avremmo detto “buone maniere”, con i riti minori ma necessari al gaijin, allo straniero, affinché non venga percepito come jama, “una seccatura”, né s’illuda di avere conquistato i cuori nipponici mentre lo stanno, semplicemente, assecondando come un povero “fagiolo”.

Svelare il Giappone diverte, con la cifra tipica della scrittura di Vattani, che anche nel capoverso precedente o successivo alla crudezza di una scena lascia traccia di ironia sulla pagina, più vicina al sorriso filosofico che al semplice umorismo. È forse lo smagato approccio di chi non solo ha vissuto un tempo prolungato in Giappone e ancora lo vive nella quotidianità italiana, ma anche il tratto del diplomatico di carriera, che non si fa sorprendere ma ha conservato la capacità di abbandonarsi allo stupore. È questa la cifra con cui ha già scritto di Giappone da narratore con il romanzo Doromizu, ma anche di Egitto nel più recente Al Tayar (altro luogo conosciuto nel corso del suo lavoro).

Erede di un’antica tradizione fiorita anche in Italia, quella dei diplomatici scrittori, Vattani per agilità di spostamento tra saggistica e narrativa sarebbe piaciuto al suo illustre collega olandese Robert van Gulik. Autore di un volume diventato un classico sulla vita sessuale nell’antica Cina, van Gulik affascinò il più vasto pubblico grazie ai gialli di cui rese protagonista il giudice Dee, tuttora ristampati, e si produsse pure in un curioso libro con disco sulla “voce” del gibbone, che gli teneva compagnia mentre era ambasciatore a Tokyo.

L’affabulazione, ferro del mestiere per il diplomatico, per lo scrittore e per i maestri di arti marziali (Vattani è praticante di kendo), attinge persuasività dai dettagli richiamati all’inizio, oltre la luce e dentro la penombra. Non a caso l’ora che l’autore considera topica per guardare nuda Tokyo è quella tra la notte e il giorno, “il primo chiarore dell’alba”: “Come un volto di Medusa quella luce grigiastra può pietrificare nella memoria, per sempre, l’ultima azione della notte, che è anche la prima del nuovo giorno”. È allora che negli occhi della gente c’è qualcosa “che si desidera ricordare, altre cose che forse è meglio dimenticare”.

È dallo sguardo che nasce l’incantesimo: “Quello per cui, grazie alla magia della curiosità, si riesce a ignorare tutto il grigio che circonda, e a riconoscere solo ciò che è più bello”. Perché “in Giappone si impara a guardare. Guardare è un esercizio attivo. Non si contempla passivamente. Si impara guardando”.

Penetrare la corazza delle apparenze per riconoscere, in ombra e penombra, i silenziosi panorami dell’essenza.

Vedi: Luci, ombre e penombre giapponesi nello sguardo di Mario Vattani
Fonte: cultura agi


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