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Le promesse elettorali che ignorano la Costituzione

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Paolo Balduzzi
È sempre educativo sfogliare i programmi elettorali: ci proiettano in un mondo ideale, dove tutti i problemi saranno risolti, la povertà non esisterà più, le tasse saranno ridotte al minimo, ognuno potrà andare in pensione quando vorrà, gli stipendi saranno finalmente elevati per tutti e chi, disgraziatamente, non sarà occupato potrà comunque contare su un reddito garantito. Lo capirebbe anzi, lo capisce – anche un bambino che queste promesse sono irrealizzabili. Eppure, ci illudiamo ogni volta.
Commovente ingenuità di elettori smemorati? Imperitura speranza di cittadini ottimisti? Le nostre colpe, quelle degli elettori si intende, sono note e ripetitive. E vale il solito adagio per cui ogni popolo ha i rappresentanti che si merita. Tuttavia, la democrazia rappresentativa ha il suo senso nel creare una classe di professionisti della politica che non può e non deve essere equiparata ai cittadini: ha più potere, certo, ma ha anche maggiori responsabilità. E se nostra è la colpa di continuare a credere a delle promesse irrealizzabili, di questa classe di professionisti della politica è la responsabilità di perpetrare l’imbroglio (o l’illusione). Con un’aggravante: che i soldi utilizzati per realizzare (o meno) i programmi arrivano sempre dalle tasche dei cittadini.
Qualcuno commenterà che non si tratta certo di una novità: ed è vero.
I programmi elettorali non offrono mai alcun tipo di dettaglio sulle misure promesse né elaborano su come reperire le risorse necessarie. Tuttavia, ciò che cambia rispetto al passato è che i vincoli sull’utilizzo di queste risorse pubbliche sono sempre più stringenti. Da un lato ci sono le regole del Patto di stabilità e crescita europeo, riformate l’ultima volta circa dieci anni fa, al momento sospese ma prossime alla reintroduzione. Probabilmente, a partire dal 2024. Si tratta di regole fiscali che già conosciamo e che più di una volta hanno portato a tensioni tra il governo italiano, propenso a spendere più del sostenibile, e istituzioni europee, che invece si fanno garanti del patto comune europeo. Per cui l’Italia, vale la pena ricordare, gode tanto in termini di ingenti trasferimenti netti (tramite Pnrr oggi e tramite Fondi regionali europei nel passato) quanto in termini di tassi di interesse sui titoli di debito pubblico inferiori a quelli che la nostra reputazione richiederebbe (sempre utile rinfrescarsi la memoria quando riprendono vigore le spinte autonomiste e antieuropee).
Ma non ci sono solo le regole europee. Dal 2014, infatti, anche la Costituzione italiana impone il rispetto degli equilibri di bilancio. Formula che non significa, come molti hanno voluto far credere, perseguimento obbligatorio del pareggio di bilancio, ma che richiama comunque a una più stretta attenzione al saldo fra entrate e spese, seppur corretto per le fasi del ciclo economico. È quindi interessante notare come, in una campagna elettorale caratterizzata da forti polemiche sulla necessità o meno di mettere mano alla Costituzione, la questione del rispetto di quella vigente non sembra interessare a nessuna forza politica. È proprio vero il contrario: la Costituzione si può riformare ma, allo stesso tempo, si deve rispettare. La Costituzione si può riformare per almeno due motivi. Il primo è che il mondo e le sensibilità della società cambiano: non tenerne conto è bieco conservatorismo, non è rispetto della volontà dei padri costituenti. Che infatti pensarono bene di introdurre nella Carta costituzionale una procedura molto chiara e piuttosto precisa per la sua modifica.
La seconda ragione è fattuale: la Costituzione è già stata cambiata parecchie volte nel corso dei suoi primi settant’anni. È stata cambiata da praticamente tutti i principali partiti politici che si sono avvicendati al governo nel corso della storia. Probabilmente, guardando agli ultimi venti anni, ben più dal centrosinistra che dal centrodestra, nonostante sia il primo a dichiararsi conservatore da questo punto di vista. Ma la Costituzione, si diceva, va anche rispettata: come finanziare il taglio delle imposte o l’aumento degli stipendi? Come garantire la flessibilità previdenziale che tutti promettono? Nessun programma elettorale, se preso sul serio, soddisfa il requisito dell’equilibrio di bilancio. Eppure, nessuno si pone il problema. Se qualche politico proponesse norme palesemente anticostituzionali nei suoi programmi, s’infiammerebbero animi e toni. E invece, in riferimento ai conti pubblici, c’è una grande coalizione nazionale, che va dall’estrema destra all’estrema sinistra, terzi ed eventuali quarti poli compresi, che si copre le spalle a vicenda. Nel momento in cui l’elettore smemorato e il cittadino ottimista dovessero ritrovare il realismo perduto, si chiederebbero come fidarsi di questa classe politica. E molti smetterebbero di recarsi alle urne. È proprio quello che sta succedendo.
Quale paradosso: da un lato ci si lamenta per la scarsa partecipazione alle elezioni, dall’altra si fa di tutto per risultare sempre meno credibili e degni di fiducia. Il rischio maggiore di queste elezioni non è che vinca un partito o un altro; non è nemmeno quello di subire una riforma costituzionale ritenuta autoritaria. È quello, invece, che nella corsa per essere il partito più votato, magari con poco più del 20 percento di consensi, ci si dimentichi di quel 40 e oltre per cento di aventi diritto che, per l’ennesima volta, non si saranno fidati di promesse irrealistiche e, soprattutto, incostituzionali.
Fonte: Il messaggero