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La relazione pericolosa tra Huawei e l'Iran che ha portato in carcere la manager cinese

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I sospetti di violazioni delle sanzioni nei confronti dell’Iran da parte del colosso delle telecomunicazioni cinese Huawei hanno pesato sull’arresto della numero due del colosso delle telecomunicazioni cinese, Huawei, Meng Wanzhou.

La direttrice finanziaria del gigante di Shenzhen è stata arrestata il 1 dicembre scorso a Vancouver, in Canada, mentre a Buenos Aires, il presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, e il presidente cinese, Xi Jinping, stabilivano una tregua di novanta giorni alle dispute commerciali che dividono e due grandi economie mondiali. 

La guerra tra hi-tech cinese e gli Usa

Meng rischia l’estradizione negli Stati Uniti, per le presunte violazioni del suo gruppo alle sanzioni nei confronti dell’Iran. Il colpo inferto al gigante delle telecomunicazioni fondato nel 1987 dal padre di Meng, Ren Zhengfei, ex ingegnere dell’Esercito Liberazione Popolare cinese, arriva a pochi mesi dalla risoluzione della disputa che ha messo in ginocchio un altro gigante della tecnologia Usa nei mesi scorsi: Zte

L'accusa era di avere violato le sanzioni nei confronti dell’Iran e della Corea del Nord, ed era stato preso di mira da un settennale bando di vendita di componenti elettroniche da parte dei suoi fornitori, successivamente ritirato dagli Usa dietro la promessa del pagamento di una multa da un miliardo di dollari e del cambio in toto della classe dirigente. 

Se Cina e Stati Uniti hanno novanta giorni di tempo per trovare una soluzione alla disputa sul commercio, con alcuni impegni pare già concordati, l’arresto di Meng appare destinato a inasprire uno dei più delicati capitoli delle tensioni tra le due potenze: la disputa tecnologica.

Quali prove ci sono contro Huawei

La prove di una connessione tra il colosso cinese delle telecomunicazioni e la Repubblica Islamica risalgono, secondo quanto scrive l’agenzia Reuters, al 2010, e coinvolgerebbero un gruppo delle telecomunicazioni di Hong Kong, Skycom Tech, nel cui consiglio di amministrazione sedeva, tra il 2008 e il 2009, la stessa Meng Wanzhou, o Sabrina Meng, come è nota con uno dei suoi nomi inglese (l’altro è Cathy). 

All’inizio di quell’anno, il gruppo di base a Hong Kong si sarebbe offerto a Huawei per tentare di vendere attrezzature per computer Hewlett-Packard al più grande operatore di telefonia mobile iraniano, Mobile Telecommunication Company of Iran, in un affare dal valore complessivo di 1,3 milioni di euro. L’inchiesta della Reuters, pubblicata a gennaio 2013, mirava a provare un coinvolgimento di Huawei e della stessa Cfo con il gruppo di Hong Kong e con l’Iran. I sospetti si sarebbero fatti più forti quando, sempre nel 2010, un gruppo londinese di intelligence finanziaria, la International Company Profile, aveva identificato Skycom Tech come “una sussidiaria di Huawei”.     

Anche se all’epoca Meng non era più tra i vertici del gruppo, i direttori di Skycom Tech che sono venuti dopo di lei avrebbero sempre intrattenuto buoni rapporti con il gigante delle telecomunicazioni cinese: uno di loro, Zhang Hongkai, secondo indagini del gruppo londinese sentito dalla Reuters, compariva nel 2009 come Ceo di Huawei in Iran sul sito web dell’Ambasciata Cinese a Teheran. 

La relazione pericolosa con Skycom

A provare il collegamento tra Huawei e l’Iran nel tentativo di vendita di tecnologia Hewlett-Packard ci sarebbe anche un documento di tredici pagine, classificato come “Huawei confidential” e sul quale compare il logo del gruppo di Shenzhen. Huawei ha smentito di avere provato a vendere lei stessa, o tramite Skycom Tech, tecnologia soggetta a embargo all’Iran. “La relazione tra Huawei e Skycom è una normale partnership di affari”, ha scritto il gruppo in una e-mail citata dall’agenzia britannica, in risposta alle accuse di allora, “e le nostre attività in Iran sono nel pieno rispetto delle leggi e delle regolamentazioni, incluse quelle delle Nazioni Unite, e chiediamo ai nostri partner, come Skycom, di impegnarsi allo stesso modo”. Già all’epoca, però, il colosso di Shenzhen aveva attirato le critiche degli Stati Uniti per non avere risposto a domande e per non avere fornito prove riguardo al suo ruolo in Iran.

Le attenzioni delle autorità statunitensi su Huawei si sono intensificate a partire dal 2016, con l’aumentare delle preoccupazioni a Washington, riguardo alle questioni di violazioni della proprietà intellettuale e alle accuse di spionaggio. A febbraio scorso, a puntare il dito contro Huawei e Zte era stata la Commissione di Intelligence del Senato degli Stati Uniti, i capi di cinque agenzie di intelligence e il direttore dell’Fbi, Christopher Wray. Ad aprile scorso, secondo quanto anticipato dal Wall Street Journal, Huawei si trovava sotto indagine del Dipartimento di Giustizia di Washington per il possibile uso della tecnologia per lo spionaggio ai danni degli Stati Uniti. Nessuna conferma delle indagini era allora arrivata per vie ufficiali, ma Huawei non ha mai smesso di essere nel mirino di Washington. 

Il pressing di Washington sugli alleati perché lascino Huawei

Secondo una lunga inchiesta condotta il mese scorso dal quotidiano finanziario Usa, la Casa Bianca ha esercitato recentemente pressioni sugli alleati – tra cui vengono citati Germania, Italia e Giappone – e sulle loro aziende hi-tech, perché abbandonino la tecnologia Huawei per preoccupazioni riguardo la sicurezza informatica, con particolare enfasi sullo sviluppo delle reti 5G. 

Alle indiscrezioni pubblicate dal Wall Street Journal aveva risposto un altro quotidiano cinese, l’influente Global Times, che in un editoriale si è detto convinto che i Paesi europei non vogliano una competizione strategica o, ancora meno, una “guerra fredda tecnologica” con la Cina.

Le notizie su presunte violazioni di Huawei sono sempre state smentite dal colosso di Shenzhen, che anche nelle scorse ore ha dichiarato di non essere a conoscenza di “illeciti” compiuti dalla sua direttrice finanziaria. “La compagnia crede che i sistemi legali di Canada e Stati Uniti raggiungeranno alla fine una giusta conclusione” sulla vicenda. Toni più duri, invece, li ha usati il Ministero degli Esteri di Pechino: il portavoce, Geng Shuang, oggi ha dichiarato che la Cina non è stata finora informata delle ragioni dietro la detenzione della numero due di Huawei, e ha chiesto “chiarimenti immediati” alle autorità di Washington e Ottawa. 

Vedi: La relazione pericolosa tra Huawei e l'Iran che ha portato in carcere la manager cinese
Fonte: estero agi


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