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La politica creditizia in Sicilia: storia di un fallimento che viene da lontano

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Dopo decenni di favoritismo e clientelismo, oggi lo sviluppo economico dell’isola non può più avvalersi dell’importante e diretto supporto di un sistema di banche siciliane, mentre il Governo regionale, in materia di strutture bancarie operanti nel territorio, può solo esprimere “pareri” pressoché ininfluenti

di Augusto Lucchese

Il sistema creditizio nazionale, uscito fuori dall’infausto lungo periodo di letargo causato dagli avvenimenti bellici 1940-1945, dovette affrontare giocoforza, ripartendo quasi da zero, i gravi problemi della ricostruzione. Prima d’ogni cosa il rigurgito della mostruosa inflazione che aveva distrutto il valore della moneta, che aveva depauperato le risorse finanziarie del sistema produttivo e aveva falcidiati i risparmi delle famiglie.
In Sicilia il tutto era aggravato dalla disastrata situazione socio ambientale in gran parte connessa con l’annoso problema del latifondo e con l’endemica presenza mafiosa, a prescindere dai notevoli danni subiti dagli insediamenti abitativi, dalle infrastrutture e dalle reti dei servizi essenziali.
Fu in un tale quadro d’emergenza e in una situazione sociale e politica alquanto ribollente, data la travolgente affermazione del movimento indipendentista, che il Governo nazionale, anche a fronte di accordi tutt’altro che chiari e leali con taluni esponenti politici siciliani, decise di “concedere” alla Regione Sicilia, a mo’ di sedativo, la cosiddetta “autonomia”.
In funzione della stessa e pur a fronte delle molte limitazioni frapposte, avrebbe potuto concretizzarsi anche in materia di Credito e Risparmio (capoverso “e” dell’art. 17 dello Statuto) un notevole e sostanziale decentramento dei poteri sino a quel momento esercitati, in esclusiva, dal Governo nazionale.
Per manifesta incapacità dei politici siciliani che dominavano la scena dell’Ente Regione, per remore burocratiche, per beghe tornacontistiche di gruppi di potere locali, per disattenzione colposa delle Istituzioni di riferimento, tale acquisita potestà fu invece recepita e adottata in maniera quantomeno impropria, confusa e insicura. Salvo poi, nell’ambito della deleteria tendenza alla spartizione dei cosiddetti “posti di sottogoverno”, ad utilizzare soventemente la strombazzata “autonomia” per soddisfare deteriori equilibrismi interni ai partiti o quale compensazione per trombature di natura elettorale.
Personaggi del sottobosco politico, privi di specifica competenza, spesso tagliati fuori da altri incarichi, quando non già bruciati per pregresse soggettive disavventure, furono talvolta portati ad insediarsi in posti di alta responsabilità tecnica e amministrativa quali i Consigli di Amministrazione dei maggiori Istituti di Credito e delle Aziende autonome controllate (si fa per dire) dalla Regione. Sarebbe tedioso ricostruire il lungo elenco delle “nomine” riprovevolmente conferite in tal maniera.
Lo strumento dell’autonomia prese ad essere utilizzato in maniera utilitaristica, disinvolta e poco responsabile. Un cattivo uso che, nel caso specifico del delicato settore creditizio, non poteva non apportare, come di fatto ha apportato, una sorta d’ineluttabile deterioramento del sistema bancario regionale. Anzi, per molti versi, ne ha decretato il graduale disfacimento e ne ha determinato, quindi, il saputo collasso degli anni ‘90.
Escludendo il primo periodo post bellico (dal 1947 agli anni 60) in cui, in verità, la guida degli Istituti siciliani era stata affidata a uomini di assoluto merito e di provata capacità, quali Lauro Chiazzese, Stagno D’Alcontres, La Loggia, Guarino Amella, Restivo, Bazan, La Francesca, sarebbe interessante accertare con quali criteri (non certo quelli della competenza meritocratica) furono di volta in volta scelti e nominati i vari consigli d’amministrazione dei più importanti Istituti di Credito siciliani.
Si dovette assistere, conseguentemente, al dilagare di spregevoli fenomeni di favoritismo (qualcuno asserisce che, non tanto raramente, quei favori fossero più o meno oggetto di scambi ben poco trasparenti), di nepotismo, di clientelismo elettorale, di inusitate pressioni per la concessione di fidi, di continue e strumentali interferenze in materia di assunzioni e avanzamenti di carriera.
Non va dimenticato, tuttavia, che la Banca d’Italia – organo istituzionalmente preposto alla vigilanza di merito – poche volte s’oppose e quasi sempre, pur con qualche riserva, le ratificò.
La crisi del sistema creditizio siciliano, ormai politicizzato a tappeto oltre che condizionato da pesanti interferenze a livello di organi direttivi e deliberativi, da parte di gruppi imprenditoriali d’assalto e di poteri più o meno occulti ma parecchio influenti, ebbe a manifestarsi già agli inizi degli anni 80. Sia la Regione (in forza della istituzionale attribuzione di competenza) che la Banca d’Italia (a fronte della doverosa e pertinente vigilanza) non ritennero confacente assumere adeguate e significative contromisure.
Non seppero o non vollero intervenire a tempo per bloccare, quando ancora era possibile, il degenerare della situazione temporale che presto avrebbe determinato, ovviamente, la notoria contemporanea crisi del Banco di Sicilia e della Sicilcassa.
Specie per quanto riguarda quest’ultima, malgrado le infinite ciance, gli “ordini del giorno”, le numerose sedute della Assemblea Regionale dedicate al problema, malgrado le proteste degli Organi rappresentativi della Fondazione Sicilcassa, malgrado i “documenti” approntati dai sindacati e dall’ANCI Sicilia, la gran parte della compagine politica siciliana e dei parlamentari nazionali eletti in Sicilia, diede ampia dimostrazione di non essere in grado d’affrontare e risolvere il grave problema tanto prepotentemente (ma non inaspettatamente) manifestatosi nel settore creditizio isolano.
È da sottolineare che furono parecchio pesanti le conseguenze di tutto quel marasma, del quale, ancora oggi, se ne risente il deleterio effetto.
In “alto loco” (Ministero del Tesoro e Banca d’Italia) non si ritenne di fare ricorso agli stessi criteri che, ad esempio, avevano portato a salvare il Banco Ambrosiano, il Banco di Napoli e diversi altri importanti Istituti di Credito nazionali, precedentemente venutisi a trovare in dissesto o in pericolo di liquidità per vari motivi e cause. Si decise, invece, di procedere alla “liquidazione coatta amministrativa” della Sicilcassa, quasi si volesse eliminare un contenitore di pregresse trascuratezze e di conclamate responsabilità decisionali.
L’odierno squilibrio del sistema creditizio siciliano scaturisce dalle seguenti considerazioni:

• La quasi totalità del mercato bancario isolano è sotto controllo di gruppi creditizi aventi sede legale e operativa in altre Regioni italiane e ciò influisce sull’andamento dell’economia siciliana sia per la difficoltà di accesso al credito che per le remore burocratiche e amministrative riguardanti i criteri restrittivi e discriminatori nei confronti degli operatori siciliani;
• solo alcune banche locali, purtroppo di limitate dimensioni, riescono ad operare mediante la diretta conoscenza territoriale della clientela;
• le Banche locali e minori sono ormai ridotte a pochi “sportelli” da cui, per correttezza, andrebbero defalcati quelli facenti capo a Enti creditizi che ricadono sotto il controllo di gruppi bancari del Nord Italia. Alla data del 31 dicembre 2018 il sistema bancario siciliano vedeva 59 banche attive con 1273 sportelli (erano 68 con 1762 sportelli nel 2010). Le banche aventi sede legale in Sicilia risultavano in numero di 23 (erano 35 nel 2010).
• Il 26,2% dei comuni siciliani (in pratica 102 comuni su 390, più di 1 su 4) risulta ormai privo di uno sportello bancario.
• i grandi Istituti, di contro, avendo i propri centri direzionali, amministrativi e deliberativi fuori Sicilia, basano il loro intervento su indiscriminati criteri scaturenti da veri e propri algoritmi standardizzati.
• le condizioni applicate alla clientela e alle aziende della Sicilia risultano essere parecchio superiori a quelle comunemente praticate in altre zone d’Italia;
• il rapporto fra depositi e impieghi, in percentuale, è di gran lunga deficitario in Sicilia rispetto al tessuto creditizio del centro nord;
• esiste, quindi, il fenomeno del sistematico drenaggio del risparmio isolano, che va a finanziare l’economia di altre Regioni, particolarmente del Nord;
• le Banche non aventi sede legale e direzionale in Sicilia sono ormai dominanti in gran misura, fra cui l’Unicredit che ebbe ad assorbire il Banco di Sicilia e la Sicilcassa) già sotto il controllo azionario (1997) di Mediocredito (per volontà del Ministero del Tesoro, a suo tempo retto da Ciampi), poi di Capitalia (2002) e, infine, nel 2007, del Gruppo Unicredit;
• s’era addirittura ventilata l’ipotesi di cancellare definitivamente anche la storica denominazione di “Banco di Sicilia”;
• in effetti solo poco più di un centinaio di sportelli bancari possono essere considerati di origine e stampo prettamente siciliani.
Una situazione che si trascina dalla fine del secolo scorso e che oggi presenta caratteri d’irreversibilità. La Regione siciliana, espropriata del diritto statutario d’intervento nelle problematiche del sistema creditizio operante in Sicilia (di fatto ogni potestà scaturente dall’art. 17 – par. e – dello Statuto è stato assorbita dalle Autorità creditizie nazionali – Banca d’Italia e Ministero dell’Economia e delle Finanze – ex “Ministero del Tesoro”), ricopre oggi un modestissimo ruolo in materia di Credito e Risparmio.
In atto, ove s’escluda il marginale settore delle aziende aventi sede sociale in Sicilia (Banche Popolari, Casse Rurali e artigiane), il Governo Regionale, in materia di strutture bancarie operanti nel territorio siciliano, può solo esprimere “pareri” pressoché ininfluenti ai fini delle determinazioni di politica creditizia.
In conclusione, lo sviluppo economico della Sicilia non può più avvalersi dell’importante e diretto supporto creditizio prima assicurato dal sistema di banche siciliane.
A nulla di concreto ha portato la creazione di nuove piccole strutture bancarie che, già in partenza, erano prive dei requisiti di concorrenzialità oggi necessari per stare al passo con le grosse concentrazioni creditizie internazionali e con l’economia globale.
Prova ne sia che in nessun programma elettorale dei candidati alle varie tornate di elezioni regionali si riscontra il benché minimo accenno (non diciamo impegno) ad affrontare la situazione che, a decorrere dal lontano 1997, ha disintegrato il sistema bancario tradizionale, facendo sì che oggi in Sicilia esistano solo delle “aziende commerciali” che, fra tante altre cose, si occupano anche di vendere servizi bancari e creditizi”.

 

 

 

 

Allegato 1 -“SISTEMA CREDITIZIO IN SICILIA” (elaborazione ricerche)

PREMESSA

AFFRONTARE UN ARGOMENTO TANTO COMPLESSO QUANTO DELICATO E SPINOSO QUALE E’ QUELLO DEL “SISTEMA CREDITIZIO IN SICILIA” NON E’ COSA DA POCO E NON PUO’ CERTO SERVIRE A CHIARIRE ADEGUATAMENTE I MOLTI PUNTI CONTROVERSI O ADDIRITTURA OSCURI DELLA “VEXATA QUAESTIO”. E’ OPPORTUNO, TUTTAVIA, TRACCIARE UN SINTETICO RAFFRONTO TRA LA SITUAZIONE ESISTENTE NEGLI ANNI 60–80 E QUELLA ODIERNA.

Nel citato periodo il sistema creditizio siciliano era essenzialmente basato su quattro principali pilastri:

– Banco di Sicilia;
– Cassa Centrale di Risparmio V.E. ( poi SICILCASSA);
– Aziende bancarie territoriali, quali ad esempio, la Banca del Sud , la Banca di Messina, la Banca Sicula, la Banca Industriale di Trapani, la Banca Sant’Angelo di Licata, la Banca Agricola Etnea, la Santa Venera di Acireale ed altri piccoli Istituti con vocazione prettamente locale;
– Banche Popolari di Credito Cooperativo, Casse Rurali e Artigiane.

In quanto essenzialmente limitata ai grossi centri, la presenza delle Banche cosiddette d’interesse nazionale (Banca Commerciale Italiana, Banco di Roma, Banca Nazionale del Lavoro, Credito Italiano), così come quella della Banca d’America e d’Italia e di qualche sparuta filiale di altri Istituti di credito. Il Banco di Napoli, per antiche consolidate intese, non operava in Sicilia.

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Cenni sugli effetti della legge Amato-Carli del 1990 (trasformazione
degli Enti bancari in s.p.a. – istituzione delle Fondazioni
bancarie) e della successiva riforma Ciampi-Amato del 1998;

La legge delega Amato-Carli n° 218 del 1990 aveva dettato le norme per la trasformazione degli Istituti di Credito in s.p.a e la parallela creazione delle “Fondazioni bancarie”, una invenzione più politica che tecnica di ulteriori complessi centri di potere e di interferenze, peraltro affidati a nutriti e dispendiosi C.d. a. e apparati burocratci.
Nel tempo e In parecchi casi, tali organismi si riveleranno controproducenti – se non dannosi – per via della loro determinante influenza nel delicato ingranaggio azionario e patrimoniale della banca di riferimento, a parte la citata evidente sommatoria di rilevanti costi di gestione. L’impianto legislativo della controversa riforma scaturisce da:
• Decreto legislativo di attuazione n. 356 del 1990;
• Legge – delega Ciampi n. 461 del 1998;
• Decreto legislativo di attuazione n. 153 del 1999;
• Legge n. 448 del 2001 (cosiddetta leggeTremonti)
• Legge n. 112 del 2002 (norme di interpretazione autentica).
L’impianto legislativo va letto alla luce del novellato art. 118 della Costituzione, che ha introdotto il principio di sussidiarietà orizzontale come criterio informatore dei rapporti tra pubblico e privato, anche nella realizzazione delle finalità di carattere collettivo.

A partire dagli anni ‘80, la Comunità europea ebbe a varare un processo di liberalizzazione e privatizzazione che escludeva ogni forma di “aiuti di Stato” ed era volta a privilegiare il libero regime di concorrenza tra imprese.
La nascita delle fondazioni bancarie.
All’inizio degli anni novanta è emersa dunque la necessità di adeguare l’intero sistema bancario italiano rispetto alle direttive della cosiddetta “unità economica europea”. L’Italia ha dovuto accettare l’apertura dei propri mercati ai partner europei. All’epoca, oltretutto, più della metà degli enti creditizi era regolato da norme di diritto pubblico.
Il Governatore della Banca d’Italia dell’epoca, Carlo Azeglio Ciampi, ritenne di avere trovato la soluzione per rendere le Banche più aperte agli investitori stranieri separando le funzioni di diritto pubblico dalle funzioni imprenditoriali, cioè scorporando le funzioni delle fondazioni dalla gestione delle Banche ex pubbliche.
La legge delega Amato Carli n°218 del 1990 aveva disposto che gli enti bancari diventassero società per azioni, sotto il controllo di fondazioni che, successivamente, avrebbero dovuto assumersi il compito do collocare e gestire le proprie azioni sul mercato.
La legge-delega del 1990 configura le fondazioni bancarie come holding pubbliche che gestiscono il pacchetto di controllo della banca partecipata ma non possono esercitare attività bancaria; i dividenti sono intesi come reddito strumentale ad un’attività istituzionale (quella indicata nello Statuto), che deve perseguire “fini di interesse pubblico e di utilità sociale”.
Nella prima fase (1990 -1997), prevale una ambiguità di fondo: attività bancaria e finalità istituzionali sono ancora piuttosto confuse, anche perché le fondazioni bancarie da un lato devono controllare la banca e dall’altro devono perseguire scopi non di lucro.
L’unico elemento chiaro di attività “sociale” delle fondazioni bancarie si ritrova nel dettato della legge 266/1991 istitutiva delle organizzazioni di volontariato: l’art. 15 che dispone che un quindicesimo dei proventi di questi enti venga devoluto ai fondi regionali per il volontariato. L’evoluzione normativa degli anni seguenti mira proprio ad eliminare questa confusione: un sistema misto di incentivi e vincoli mette in moto il mercato, nonostante la regolamentazione delle attività istituzionali sia ancora carente.
La riforma Ciampi-Amato
La legge delega n. 461 del 1998 e il successivo Decreto legislativo n. 153 del 1999 afferma l’idea per cui le fondazioni devono operare nel mondo non-profit, pur potendo conservare una certa vocazione economica (ma sempre nell’ambito degli scopi non lucrativi). Il decreto, nel testo vigente, individua i settori ammessi (famiglia e valori connessi; crescita e formazione giovanile; educazione, istruzione e formazione, incluso l’acquisto di prodotti editoriali per la scuola; volontariato, filantropia e beneficenza; religione e sviluppo spirituale; assistenza agli anziani; diritti civili; prevenzione della criminalità e sicurezza pubblica; sicurezza alimentare e agricoltura di qualità; sviluppo locale ed edilizia popolare locale; protezione dei consumatori; protezione civile; salute pubblica, medicina preventiva e riabilitativa; attività sportiva; prevenzione e recupero delle tossicodipendenze; patologie e disturbi psichici e mentali; ricerca scientifica e tecnologica; protezione e qualità ambientale; arte, attività e beni culturali) nell’ambito dei quali le fondazioni scelgono, ogni tre anni, non più di cinque settori rilevanti. Le fondazioni bancarie possono così assumere la struttura di “fondazioni grant-making” (erogare denaro ad organizzazioni non profit che operano nei sei settori individuati) oppure possono scegliere quella di “fondazioni operative”, svolgendo direttamente attività d’impresa nei suddetti settori, attività strumentale al raggiungimento dello scopo di utilità sociale.
Tale assetto legislativo necessitava di alcuni aggiustamenti, poiché vi era una dispersione di impiego dei proventi patrimoniali da parte delle fondazioni (che erogavano “a pioggia” importi modesti e solo in alcune aree del Paese).
La legge del 1998 introduce perciò la «programmazione triennale» dell’attività delle fondazioni e indebolisce il legame fondazioni-banche, affidando la partecipazione a delle «società di gestione del risparmio» (scelte con gare pubbliche) ma soprattutto ribadisce l’appartenenza della materia al diritto privato e non al diritto pubblico.
Il Decreto legislativo n. 153 del 1999 attribuisce alle fondazioni la natura giuridica di enti privati senza fini di lucro e la piena autonomia statutaria e di gestione: di conseguenza, le Fondazioni (a partire dal 1999) hanno dovuto adottare nuovi statuti sottoposti all’approvazione dell’Autorità di Vigilanza oltre che del competente Ministero e hanno assunto la piena autonomia statutaria e di gestione.
Lo stesso Giuliano Amato, il creatore delle fondazioni bancarie, al momento di illustrare le norme approvate, le definì “mostro giuridico”.
La Corte Costituzionale si è dovuta sbizzarrire in difficili equilibrismi per giustificare l’esistenza dell’ordinamento delle fondazioni bancarie.
La riforma operata dalle leggi finanziarie 2002 e 2004
A partire dal 2001, la disciplina delle fondazioni registra ulteriori modifiche, non essendo ancora chiaro che cosa deve fare la fondazione una volta dismesso il controllo della banca conferitaria. L’articolo 11 della cosiddetta legge Tremonti n. 448 del2001 (legge finanziaria 2002) ha apportato alcune modifiche alla disciplina delle fondazioni così come impostata dalla precedente legge del 1988, ribadendo in primo luogo il regime giuridico privatistico di questi enti.
Trattamento tributario delle fondazioni bancarie
Nell’attuale configurazione dettata dalle ultime riforme legislative, le fondazioni bancarie sono enti tipici del c.d. Terzo settore, cioè enti non lucrativi con connotazione non imprenditoriale. Questo aspetto comporta alcuni problemi in sede fiscale, in quanto si ripropongono per le fondazioni le stesse difficoltà che riguardano gli enti non profit che però gestiscono un capitale e quindi producono proventi in astratto tassabili. Le fondazioni infatti hanno obiettivi di carattere sociale o umanitario o culturale, e la loro attività è resa possibile dal possesso di un capitale che genera delle rendite. In più, quasi il 90% delle risorse economiche delle fondazioni deve essere, per la legge Tremonti, destinato ad iniziative di carattere locale, cioè nell’ambito della Regione di appartenenza.